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Scrittura

Alberto Masala

Il segreto del canto

Alberto MasalaDi lingua madre logudorese (sardo dell’interno), Alberto Masala è un artista poliedrico, tra i più interessanti interpreti di quella tendenza della poesia contemporanea che s’ispira ai testi di antica tradizione orale. La frequentazione dei percorsi d’avanguardia, nella scrittura e nell’arte contemporanea, lo porta spesso a rapportarsi con artisti di diverse provenienze e discipline (poeti, musicisti, artisti visivi…), con i quali realizza eventi soprattutto nell’ambito della poesia concreta e dell’arte immateriale.
Attualmente opera in stretto rapporto con il vocalista Antonio Are e l’artista Fabiola Ledda, la vocalista Miriam Palma, il poeta Serge Pey, l’artista Anton Roca, Su Cuncordu Bolothanesu, il gruppo di canto sardo a tenore per cui scrive i testi….
Lo abbiamo intervistato a Monfalcone, durante il festival Absolute Poetry, Cantieri internazionali di poesia, dove si è esibito insieme all’amico e collega Serge Pey.

Sarah Gerbitz (SG): La sua poesia si caratterizza per l’uso della mescolanza di più lingue. Come mai questa scelta?

Alberto Masala (AM): Non è una scelta estetica, parte da un concetto etico dell’uso della lingua. Io sono di lingua madre, di lingua parlante, sardo dell’interno. Lo parlo perfettamente, lo scrivo addirittura. I miei testi sono canzoni popolari, conosciuti dalla gente. L’italiano l’ho appreso velocemente e forzatamente fin da piccolo perché i miei genitori erano di due lingue diverse e, tra loro, comunicavano in italiano. Mi sono ritrovato a sei anni a sapere già circa tre lingue. Poi andavo a far le vacanze ad Alghero, dove parlano il catalano, che mi è entrato subito nelle orecchie: ed ecco la quarta lingua!

La lingua che si parlava a casa di mia madre non era la lingua che parlavo per strada: era un’altra pronuncia, con i suoni duri, aspri, le x aspirate. Mia madre era di un paesino di montagna, io parlo la sua lingua, e poi un’altra variante che parlavo in strada per non esser preso in giro dai bambini. Tu immaginati che io a cinque, sei anni, sapevo già saltellare da un idioma all’altro! Questo mi ha reso elastico rispetto al rapporto con le lingue.
Preciso che non ho le ho mai studiate, nonostante sia anche un traduttore: ho tradotto Kerouac e Serge Pey in diverse lingue, tra cui lo spagnolo.

Ripeto, non le ho mai studiate ma le utilizzo come strumento di comunicazione. Sono sicuro e convinto che la lingua sia innanzitutto un canto e che all’interno di questo canto, se tu ne capisci i meccanismi, poi versi le parole e, all’interno di queste parole, se ne hai bisogno, puoi mettere anche le regole. Questi sono i passaggi rovesciati rispetto a quelli dell’apprendimento classico scolastico, io ho fatto i passaggi contrari.
Invece i passaggi dalla lingua alla mescolanza di lingue mi è venuto per una questione di canto, quando mi sono accorto che una frase detta in inglese era più espressiva. Una volta mentre scrivevo, ad un certo punto ho provato a scrivere la stessa frase in inglese e ho detto “wow, in inglese ha un ritmo bellissimo, incredibile”!

Poi l’ho utilizzato per reazione, perché c’erano delle leggi che vietavano la mia lingua. L’Italia non le ha mai tolte, le ha tolte l’Europa con l’unità europea. Quindi era una forma di dimostrazione: sia tecnica, del fatto che le lingue per me sono uno strumento e vanno utilizzate in quanto tali; sia perché così reagivo all’imposizione che mi costringeva a non parlare pubblicamente la mia lingua. Secondo le leggi italiane, se parlavi il sardo, potevi essere licenziato dal posto di lavoro.
Da lì sono passato ad un uso più utile: una volta ho scritto un testo per reazione allo sterminio degli indios del Chiapas. Con questo testo mi sono (metaforicamente) dimesso dalla cultura occidentale e ho cominciato a scrivere in castigliano. Mi dicevo: io scrivo per gli indios del Chiapas, per gli analfabeti, sono loro il mio pubblico, sono loro la mia altezza, metti insieme tutte queste cose e poi vedi come uso le lingue!

Alberto Masala

SG: Lei ha spesso preso le distanze, una volta ha addirittura chiesto le dimissioni dalla cultura occidentale, dichiarando di non volerne condividere la sterile e arrogante auto-celebrazione. Dove dovrebbero dirigersi i poeti per uscire da questo senso di disagio che attraversa la cultura occidentale?

AM: Intanto voglio specificare che la mia era solo un’affermazione etica. È impossibile dimettersi da una cultura nel momento in cui ci vivo all’interno! Però era una dichiarazione etica che corrisponde alla frase di Julien Beck “Not in my name”. Che vuol dire “io non sono vostro complice, non contate più su di me”: quelle erano le mie dimissioni!
E quindi io mi dimetto dalla cultura occidentale in quanto western civilization, non in quanto occidente fisico. E quando lo dicevo non era ancora stato coniato il termine no global, in cui poi mi sono ritrovato, anzi più nel termine neo global. Da lì ho cominciato a pensare che noi siamo indios, tutti quanti! Siamo indios se siamo in relazione con le nostre matrici, col nostro spirito, in senso laico e ateo (non ho dei), con la nostra esistenza; e in quanto indios siamo ancora più forti perché sappiamo rapportarci al mondo contemporaneo, quindi siamo indios contemporanei, telematici, siamo memoria che sta costruendo.

E allora la poesia è una scelta di campo: per chi faccio le cose, in nome di chi parlo? Penso che il poeta sia sempre un trasportatore, che non debba mai chiamarsi poeta da sé, ma che venga nominato da un popolo. E quindi in nome di quale popolo sto parlando? Mi merito io di parlare in nome di questo popolo? Devo meritarmelo! Altrimenti devo smettere, anzi smetteranno loro di chiamarmi poeta! Giustamente, secondo me, se tu non sei capace, scendi e fai parlare un altro. In quel senso assumo un carico, mi dimetto dalla complicità con questa cultura cosiddetta occidentale.

SG: Questo ci ricollega al suo legame con la Sardegna e con le sue tradizioni…

AM: Fossi stato friulano sarebbe stato identico! Fossi stato milanese sarebbe stato identico! La Sardegna, però, è una madre forte, perché è un’isola, perché ha delle lingue meravigliose, perché ha una cultura millenaria… ma è solo una questione di fortuna, non è che io sia migliore perché sono sardo, mi è capitato di nascere lì. Se fossi stato friulano per me il problema sarebbe stato identico.
Quindi, quando parlo di indio telematico, mi riferisco anche a un milanese, non a un indio in senso letterale. Smettiamo di essere indios se perdiamo la relazione con la terra, con l’acqua.. oggi è la giornata dell’acqua, piano piano sta prendendo piede il discorso dell’acqua che è sacra, è preziosa.

Alberto Masala

Certo, la relazione con la Sardegna è profondissima; ma è un caso che io sia nato lì. Non credo nella parola “identità”, perché quando vivevo nel mio paese mi sentivo diverso, quindi ho continuato a credere solo nella parola “diversità”. Anche in quanto poeta io pratico e testimonio che è possibile la diversità, la differenza. Ma credo nella parola appartenenza. Cioè io appartengo a quella gente, io mi commuovo se penso a mia nonna quando mi portava in campagna, se penso alla lingua che parlo con mia madre, queste cose mi commuovono perché hanno molto più a che fare col liquido amniotico che con la politica. Poi sono fiero ed orgoglioso di essere nato, fortunatamente e per caso, nell’ultima cultura matrilineare dell’Occidente cristiano: siamo gli ultimi, noi e i tuareg! Sono fiero di appartenere all’ultima cultura che è stata cristianizzata: nel 1936 mandavano ancora i missionari per cristianizzarci, mio padre li ha conosciuti! Ma è un caso, se fossi stato friulano sarebbe stato uguale, identico!

Le foto pubblicate sono di Giulio Donini

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