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Scrittura

Paolo Febbraro

Reagire alla marginalizzazione della letteratura

Paolo FebbraroLuigi Nacci (LN): Paolo Febbraro, classe 1965, ha esordito in poesia con la raccolta Disse la voce, compresa nel “Quarto quaderno italiano” della collana di poesia contemporanea diretta da Franco Buffoni. Vorrei chiederti come giudichi, a 14 anni di distanza, il tuo esordio; vorrei anche chiederti cosa pensi della collana in questione (che, stando a quanto si vocifera nell’ambiente della poesia, chiuderà con il decimo volume).

Paolo Febbraro (PF): Ho scritto la prima poesia che ritengo importante nel gennaio 1992, all’età di ventisette anni. Il perché di questa lenta maturazione potrei spiegarlo a me stesso e agli altri solo grazie a un lungo racconto. In ogni caso, quel gennaio ’92 aprì un’intera stagione: già a fine anno avevo un cospicuo numero di poesie fra cui scegliere per poter allestire una breve raccolta. Fu Claudio Damiani, che conoscevo dal tempo in cui pubblicò, con Gabriella Sica, la mia prima poesia su Prato pagano, a suggerirmi di mandare le poesie a Franco Buffoni, che selezionava giovani poeti per i suoi ‘Quaderni’, all’epoca editi da Guerini e Associati.

Buffoni mi rispose con entusiasmo, anche se invitandomi ad espungere dei componimenti ancora irrisolti. Scoprii che era uno scrittore laico, trovatosi assai ben disposto nei confronti della mia poesia teologica ma del tutto irreligiosa. Mi comunicò che avrebbe escluso un poeta già precedentemente inserito nel Quarto quaderno per far posto ai miei testi. Il mio esordio in volume, così, avvenne con una non voluta sopraffazione. Oggi, diverse di quelle poesie mi sembrano troppo facili: o meglio, ansiose di arrivare al punto, di riscuotere il frutto della puntata. Le cabalette dell’ultimo Caproni risuonavano distintamente, che non è un male in assoluto, ma a volte non sostavano abbastanza dentro di me, o non si contaminavano abbastanza con una diversa memoria, per essere vere e forti poesie. Tuttavia, Disse la voce ha fornito al successivo Il secondo fine, del 1999, un nucleo poetico addirittura decisivo.
Quanto ai Quaderni buffoniani, non è difficile ammettere (per chiunque, anche per chi non vi è stato compreso) che buona parte della poesia dei trenta-cinquantenni di oggi è nata lì.

Franco BuffoniCredo che col passare degli anni Buffoni abbia cercato fin troppo di allargare le maglie, di intercettare tutte le tendenze. Forse in lui, di formazione anceschiana, è riemerso il tentativo di inventariare delle poetiche. Ma, in generale, è stato memorabile e generoso, da parte sua, rompere il silenzio generale dei primi anni ’90, e restituire alle generazioni successive ciò che i quaderni Guanda avevano dato alla propria.

LN: Giorgio Manacorda, — poeta e critico con cui tra l’altro collabori nella curatela degli Annuaridi poesia editi da Castelvecchi — scrive (La poesia italiana oggi. Un’antologia critica, Castelvecchi, 2004): “a me sembra che Febbraro sia il primo poeta delle nuove generazioni che vada oltre il moderno, e ovviamente, il Postmoderno. Egli, infatti, torna ai grandi problemi non dando niente per scontato e lo fa in versi, cioè con lo strumento della creatività pura. E poi, con la grazia del ragionamento poetico, si colloca nettamente al di là del dibattito del secolo — ma senza cancellarlo, né il secolo, né il dibattito […]. Se dobbiamo parlare di ascendenze, non possiamo non nominare Pasolini e Caproni, poeti ai quali, non per caso, Febbraro dedica due poesie, ma più che Pasolini, il suo vero nume tutelare è Caproni […]. La lingua di questo giovane poeta è limpida e austera, non concede nulla ai facili giochi, agli aloni lirici, alle ambiguità costruite, alle analogie eccessive, né cede al fascino perverso dei rifacimenti o delle citazioni”.
Come ti ritrovi in questo ritratto? I poeti citati da Manacorda sono effettivamente dei modelli per te, oppure ne hai degli altri, decisivi, con i quali hai contratto “debiti” più pesanti?

PF: Credo che Manacorda, affermando che la mia poesia va oltre il moderno e il postmoderno, avesse avvertito in essa un fatto: Febbraro affronta grandi temi, anzi parte dal maggiore di tutti, Dio, come se lo si facesse per la prima volta. Febbraro, infatti, è nato e a lungo è rimasto un poeta ingenuo, per nulla imbevuto di letteratura, di letture non amplissime ma fortemente elettive. Quando Manacorda scrive “la lingua di questo giovane poeta è limpida e austera”, forse non si rende conto che limpidezza e austerità sono la spiegazione, la mera appendice della giovinezza: un che di disarmato e puntiglioso, di spavaldo e indigente. Chi infatti complica, interpola, cita, allude, mèscida, parodizza ecc., è uno che ha già letto tutto e gesticola per trovare il proprio spazio, magari facendo poesia (o illudendosi di farla) col solo affermare la sua impossibilità, o il suo superamento. Credo di essere diventato poeta quando ho accertato un fatto: che la nostra memoria funziona nella riattivazione involontaria (o almeno, coscientemente involontaria) di ciò che abbiamo dimenticato. Possiamo tranquillamente dimenticare e perdere ciò che abbiamo vissuto, o le meraviglie che abbiamo incontrato nella lettura, perché tanto esse torneranno da sole quando, ed esattamente quando, ci faranno più comodo per creare noi stessi.

Per questo, se mi “vengono” dei versi belli ed efficaci, pieni e sonori, in cui si risente l’eco di qualche noto o grande poeta, io non nascondo affatto l’accaduto, né lo esibisco parodicamente come arte consumata, ma me lo prendo e basta come eco mia personale di una bellezza disponibile e viva. Così, una volta scontato l’iniziale “caproneggiare” di qualche cabaletta d’esordio, io non rifaccio mai un poeta, ma nel caso me ne servo per lavorare in me stesso la memoria involontaria, per farne emergere una forma.
Vedi bene che in ciò il riuso postmoderno non c’entra nulla.

LN: Restiamo ai classici. Tempo fa ti ho sottoposto un questionario su Umberto Saba, cogliendo l’occasione di ricordarlo nel cinquantenario della sua scomparsa. Alla prima domanda, “ritieni che Umberto Saba possa essere considerato uno dei poeti maggiori del Novecento italiano?”, hai risposto così: “Saba è con Montale e Penna il più grande poeta del Novecento. È un poeta grandiosamente tradizionale proprio perché estraneo ai tradizionalismi sfiniti e citazionistici che, per stanchezza e moderna onniscienza, tendono sempre verso manierismi o avanguardismi. È un poeta classico perché non ha alcuna preoccupazione di sembrarlo”.

Ritratto di Umberto Saba

Che cos’è la tradizione, oggi, nella poesia italiana di inizio millennio, e quali autori la interpretano con più consapevolezza e originalità? A proposito di tradizione, hai appena pubblicato La tradizione di Palazzeschi (Gaffi Editore, 2007), mi pare che il tema del tradere ti stia particolarmente a cuore…

PF: Tradizione è parola ricca, su cui rifletto da tempo. Alla base resta la riflessione di Eliot secondo la quale ogni grande scrittore è già in sé una tradizione, perché con le sue opere riattiva, risveglia o rinviene ciò che solo con lui scopriamo ancora attivo, sveglio e rinvenibile. Ad esempio, si ha un bel dire che il poema cavalleresco è una tradizione morta: certo non si può “continuare” Boiardo come l’ha continuato Ariosto, ma oggi o domani si potrà essere ariosteschi in modi profondi e diversi da come lo si è stati in passato.

Altra materia di pensiero me l’ha fornita la studiosa Daniela Marcheschi, la quale, nella sua formazione dionisottiana, ha rifiutato il modello storiografico ascendente o discendente di De Sanctis, quello di una Grande Tradizione che si depaupera col tempo e se è il caso può risorgere, e lo ha sostituito con un modello a più tradizioni, a volte parallele, a volte intersecate, che spesso coincidono con la storia dei singoli generi letterari, e spesso la travalicano. Non è così che fanno, concretamente, gli scrittori? Fra tutti i libri che leggiamo, quelli che diventano un nostro alfabeto sono quelli che costituiscono la nostra tradizione.

Non solo: leggere non è un fatto idilliaco, una passeggiata indefinita in attesa che arrivi, per caso, la folgorazione: è un impegno di chiarificazione progressiva, con momenti di opacità e addirittura di traviamento. Arriva un età, però, in cui uno scrittore non deve più sbagliare voce, e in cui può e deve permettersi di ignorare delle opere che potrebbero inquinare la sua vena, invece che arricchirla, o farla cadere in buone tentazioni. Un giorno di molti anni fa, ad esempio, capii che non avrei mai letto Il piacere di D’Annunzio: da allora, quel libro è accuratamente custodito dentro di me come rifiutato, anche moralmente. A trent’anni, quanti ne avevo d’età, l’orizzonte delle letture ancora da fare, o di quelle possibili, è altamente indefinito: deciderne preventivamente alcunché, e sia pure un’esclusione, è uno di quelle sovrane arroganze, solo in parte spiegabili, di cui si nutre una tradizione personale.

Ora, per rispondere alla tua domanda, non so bene cosa sia la tradizione per i miei colleghi poeti. So solo che, se ancora credono nell’esistenza di una grande, oppressiva Tradizione Unica, piena di geni inavvicinabili e intimidatori, ma anche già passati per le armi della parodia e della moderna “impossibilità”, allora la loro vita è piena di un’ansia inane ma esosa: perché un vasto insieme di tradizioni è una grande risorsa, e un grande richiamo, e non certo una preoccupazione.
E se invece i poeti di oggi dichiarano una loro tradizione (alcuni dicono “discendenza”), allora se la devono meritare, perché — ripeto — una tradizione è un impegno e una responsabilità. Anche un tradimento, insomma, dev’essere all’altezza.

LN: Nel 1999 hai pubblicato Il secondo fine (Marcos y Marcos). Vorrei farti una domanda anomala, se permetti, ma prima ho bisogno di un cappello introduttivo. Scrivi nell’Editoriale di Poesia 2005. Annuario (a cura di Giorgio Manacorda, Castelvecchi, 2005): “I poeti istigano i critici, li indirizzano, soprattutto con le citazioni in esergo che scelgono — rigorosamente post factum — con parsimoniosa intensità, come fossero versi propri di assoluto e qualificante rilievo”. Ne Il secondo fine ogni sezione (tutte tranne la seconda, Aesthetica in nugae) è aperta da un titolo e da un esergo, rispettivamente di: Borges, Feyerabend, Sereni, Montale, Tarozzi, Loi. Immagino, visto che ciò che hai scritto e che ho riportato, che le citazioni siano state concepite ante factum, dunque: perché (proprio) quei sei, e in che modo le loro parole hanno indirizzato la tua opera?

PF: Nel Secondo fine, le citazioni in esergo sono state scelte, come ho ammesso nel brano critico che hai citato, rigorosamente post factum. Appartengono al momento della composizione delle poesie in libro, e non a quello della loro stesura. Sono un commento, una vicinanza ritrovata, un’ispirazione à rebours. Per questo dicevo che le citazioni costituiscono il percorso scelto dal poeta per indirizzare il critico nella direzione voluta: un tentativo di preordinarne la lettura, un tranello fatto di verità parziali.

LN: Mi colpisce inoltre che l’unica donna citata sia Bianca Tarozzi, e non tanto per la sua poesia, che a tratti potrebbe ricordare, in special modo nell’uso della rima e nella chiarezza del racconto, la poesia di Saba, e anche — concedimi l’accostamento — la tua poesia; mi colpisce piuttosto l’assenza di altre poetesse, e ciò mi porta a chiederti: quali sono le poetesse che leggi con più attenzione?

PF: Non ho nessun interesse specifico per le poetesse. E trovo grottesche le antologie di donne, di gay, o quant’altro. Ignoro protervamente le minoranze vere o autocostituitesi, anche perché ignoro del pari le maggioranze. Così come detesto gli attenti bilanciamenti politicamente corretti, che si traducono nel conteggio dei “posti riservati”, in parlamento, alle Poste o in poesia. Saffo ed Emily Dickinson andrebbero messe in un’antologia di poesia femminile? E di fronte alla Szymborska, mi sento di apprezzare (spesso) o meno (più di una volta) senza pensare che si tratta di una donna.

Non c’è dubbio che essere donna implichi differenze in partenza: ma quelle differenze saranno rilevanti, per me, solo se mi sorprenderanno e mi conquisteranno nella poesia, o nel ragionamento. A rigore, non nego a nessun uomo il potermi stupire e contraddire come in teoria dovrebbe fare una donna. Insomma, ti rispondo che leggo le poetesse quando mi piacciono, come Fernanda Romagnoli o Biancamaria Frabotta. Altrimenti le trascuro, come con i maschi, senza nessun senso di colpa. Della Tarozzi, poi, mi è piaciuta La buranella, e per me scegliere un esergo vuol dire scegliere determinati versi, senza giudizi complessivi.

Copertina dell'antologia di Chucci e GiovanardiLN: Torniamo agli Annuaridi Castelvecchi. Come tutte le operazioni in presa diretta possono essere fortemente criticate, ma un merito che vale la pena di essere sottolineato ce l’ha senza ombra di dubbio: quello di assumersi la responsabilità e il rischio di affermare fuori dai denti, esercitando un severo e provocatorio sguardo critico militante — oggi raro, a mio giudizio, anche nei critici più giovani (che sulla carta, almeno lì, dovrebbero essere meno legati a lobby universitarie o editoriali…).
Nell’Editoriale sopradetto tracci una panoramica delle antologie di poesia contemporanea uscite negli scorsi anni, dalla Cucchi-Giovanardi, alla già menzionata antologia di Manacorda. Come giudichi la furia antologizzante che ci sta investendo?

PF: Un’antologia è un atto di potere, ed è anche un divertimento. Ma, soprattutto, data la caduta delle categorie interpretative avvenuta negli ultimi quarant’anni, e la conseguente fuga della critica militante e accademica dalla poesia, l’antologia è diventata la zattera dove mettere coloro che si pensa meritino di scampare al naufragio. Il problema è che ci sono troppe zattere, e allora ci risiamo.

Alla fine uno spera di avere delle qualità, e che queste si imporranno da sé, anche oltre le proprie intenzioni. Questo non toglie che fare la critica militante delle antologie sia necessario, per capire quali siano le operazioni davvero motivate, le panoramiche di valore, e non le recinzioni del proprio podere.

LN: Alfonso Berardinelli ha scritto, nell’introduzione a L’eroe che pensa. Disavventure dell’impegno (Einaudi, 1997), che “gli intellettuali sembrano oggi particolarmente attratti verso un’idea estetica di se stessi. Tendono a presentarsi, anche quando così non dovrebbe essere, come imprevedibili e inafferrabili artisti, le cui opere non offrono niente che sia razionalmente e pubblicamente vincolante. L’impotenza pratica e la fuga dall’etica professionale in Italia vestono i panni della sofisticazione estetica e della raffinatezza”.

Alfonso Berardinelli

Che cosa significa per te essere un intellettuale e critico militante (voglio ricordare che hai curato nel 2001 per le Edizioni Poligrafico dello Stato un’antologia di Critica militante)? Ci sono dei critici che stimi, sia nelle vecchie che nelle nuove generazioni? Se sì, come ti relazioni a loro?

PF: Da qualche secolo a questa parte, le arti sono diventate i modi possibili di un’espressione di sé. Per millenni, invece, sono state il momento individuale di un saper fare, e dunque un’utilità pubblica, riconoscibile. La poesia, in particolare, passando da arte a modo espressivo, ha voluto fare i conti con la verità, l’autenticità di un’esperienza singolare: è diventata rappresentazione del minimo quotidiano, non vasta memoria ma piccolo ricordo, o viceversa si è smarcata nell’iperpoesia, nella sofisticazione estetica di cui parla Berardinelli.

Essere critico militante, per me, corrisponde al tentativo di capire tutto ciò, di reagire alla marginalizzazione della letteratura, soprattutto se procurata da coloro che, per debolezza, hanno da guadagnare da una situazione collettiva che quando va bene è improntata alla solipsistica malinconia, condita di qualche residuo atteggiamento oracolare.

E poi, anche rispetto a queste teorie generali, la critica militante offre la possibilità di combattere la pigrizia dello scetticismo, e di confrontarsi non con i mostri epocali (poeta postumo, morte dell’arte, ecc.), ma con le opere concrete, in un rispetto preventivo al quale a volte segue il legittimo disgusto, a volte la piacevole sorpresa.

Infine, ti faccio un ritratto del critico militante che stimo. Io leggo pochissima narrativa contemporanea, per disinteresse e direi fatalismo sul presente. Il mondo della narrativa d’oggi mi sembra un mondo piccolo, con piccoli problemi e piccole soluzioni: quelli italiani di sempre. Ecco: il critico militante che stimo è quello dal quale accetterei un consiglio di lettura riguardante un romanzo appena uscito.

LN: Nel 2003 hai pubblicato Il diario di Kaspar Hauser. È un titolo forte, che immediatamente rimanda alla mitica figura dell’ingenuo fanciullo d’Europa, e che già ha suggestionato i poeti, basti citare Verlaine, Trakl o Arp. Perché hai scelto quel personaggio-simbolo?

Kaspar HauserPF: Mi affascinava la figura dell’idiota, la sua perfezione zoppicante, la dignità della sua contraddizione mite e invincibile. L’idea nacque nella tarda primavera del 1995, alcuni anni dopo aver visto il celebre film di Werner Herzog. Da allora ho cercato di non venire a conoscenza di nulla che avesse a che fare con il vero Kaspar Hauser, né con quanto fosse stato scritto in precedenza. Risultato: ancora oggi sono un assoluto ignorante sulla letteratura al riguardo. Il Diario di Kaspar Hauser rimane per me un’operetta morale che traveste la solitudine della mia lunga adolescenza. È anche altro, lo so, ma quell’altro l’ho fatto apposta.

LN: Hai pubblicato testi su riviste come Prato pagano, Trame, Lengua, Versodove, Nuovi Argomenti. Secondo te, alla luce anche del fenomeno poesia-in-web (pensiamo a quanti blog e siti poetici, e per ultimi aggregatori di blog, gestiti da singoli o da comunità, sono sorti negli ultimi 5 anni), è mutato il rapporto tra poeta e rivista? È importante per un poeta essere pubblicato da Poesia, o Atelier, o Anterem, o La Mosca, etc., più che da Nazione Indiana, o Absolute Poetry, o La poesia e lo spirito, o Dissidenze, o Liberinversi, etc.?

PF: Se ricevo proposte di collaborazione, decido in base alla stima che ho delle persone, a quanto so di ciò che hanno fatto in precedenza, o anche in base all’ispirazione del momento: non riesco a essere un oculato gestore delle mie possibili “fortune”! Oggi si moltiplicano le iniziative sul web, ma il discorso non cambia. Per molto tempo, ho pubblicato pochissimo, oggi forse — soprattutto come critico, anche come critico di me stesso, nelle interviste come questa — capita più spesso.

Sulla qualità, posso dire che Nazione Indiana è superiore a molte riviste cartacee. E il web ha il vantaggio di essere visibile in tutto il mondo. Tuttavia, non sono un entusiasta, bensì un possibilista, laico e aperto. E il passaggio attraverso il libro cartaceo è, per uno scrittore, decisivo e ineliminabile. Spero che in futuro i libri siano riservati a chi ha forza letteraria e determinazione superiori alla media, in modo da risparmiare la carta e dedicarla a chi davvero ne pretende la durata.

LN: Due domande per chiudere, a Febbraro critico: mi faresti i nomi di almeno tre poeti contemporanei di cui si potrebbe fare tranquillamente a meno? Quali sono invece i poeti giovani sui quali scommetteresti e perché?

PF: Scommetto da anni, sull’Annuario. I miei nomi sono Edoardo Zuccato, Paolo Maccari, Matteo Marchesini. Ma anche Andrea Inglese, Andrea Temporelli, Roberto Deidier, Maurizio Marotta, molto diversi fra loro. Le poetesse? Non mi viene in mente nessun nome: fanno una poesia troppo femminile (monotematica, sul corpo, sull’essere donna), mentre i maschi non fanno una poesia troppo maschile. Certo, da una Rosaria Lo Russo c’è da aspettarsi ancora molto, appena sarà più tranquilla nei riguardi dei “padri” e delle “madri”, la sua tradizione. Fra i giovanissimi, vorrei non essermi sbagliato recensendo positivamente l’esordio di Federico Italiano. Anche tu, Luigi Nacci, mi sembri molto promettente.
In Italia, si potrebbe fare a meno dei poeti mediocri, che sanno di esserlo, ma non vi si rassegnano. Chi sono? La qualità è oggi purtroppo inversamente proporzionale al potere editoriale e mediatico.

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