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Omnia

Bella sarà la morte dell’Europa

Bella, oh, bella sarà la morte dell’Europa,
splendida come una regina tra gli ori
si stenderà nella bara dei secoli oscuri.
Perirà in silenzio. Così chiude
gli occhi d’oro una vecchia regina.
Tutto è estasi, estasi di morte!

Srečko Kosovel, Estasi di morte

Copertina del libro di Bloch«Il lavoro della speranza non è rinunciatario perché di per sé desidera aver successo invece che fallire. Lo sperare, superiore all’aver paura, non è né passivo come questo sentimento né, anzi meno che mai, bloccato nel nulla. L’affetto dello sperare si espande, allarga gli uomini invece che restringerli (…). La vita di tutti gli uomini è attraversata da sogni a occhi aperti, una parte dei quali è solo fuga insipida, anche snervante, anche bottino per imbroglioni; ma un’altra parte stimola, non permette che ci si accontenti del cattivo presente, appunto non permette che si faccia i rinunciatari (…). Unicamente quando una società invecchiata è in decadenza, come oggi quella occidentale, una certa intenzione parziale e transitoria va solo verso il basso. Allora in quelli che non riescono a tirarsi fuori dalla decadenza la paura si antepone alla speranza e anzi la combatte. ». Così scrive Bloch nella premessa a Il principo speranza. Ed è con tale afflato che a mio parere va affrontata la questione europea (un afflato che bisognerebbe estendere a tutti i campi dell’esperienza): non guardare indietro, alle guerre che per secoli hanno attraversato le nostre terre, né agli anni forieri di trattati comuni, né alle crisi e gli stermini balcanici di fine Novecento, né all’allargamento/ingrassamento (oggi a 27 membri, domani?). Non dobbiamo, come ci dice Bloch, ripiegarci platonianamente nella contemplazione di ciò che è stato (conoscere è ricordare), né farci lusingare dal (facile) fascino maudit del Nulla, né allo stesso tempo possiamo protrarre all’infinito il nostro sognare: l’Utopia, questo nessun luogo che meriterebbe spazio/spazi nelle mappe, è lo squarcio che lacera il nostro quotidiano e ci proietta nella reale essenza (non statica, ma in continua trasformazione, proprio come ci avverte il messaggio evangelico: dobbiamo imparare non a essere, ma a diventare fanciulli) delle nostre esistenze.

Sotto una prospettiva del genere, non solo non può spaventare l’entrata nell’Unione Europea di nuovi paesi dell’est (e ci si chiede: est rispetto a quale centro? Si potrebbe adottare il meridiano di Greenwich, ma in quel caso anche noi italiani saremmo gente dell’est), ma nemmeno la candidatura (Croazia, Macedonia, Turchia) o la potenziale candidatura (Albania, Bosnia-Erzegovina, Montenegro, Serbia) di altri, può intimorire o lasciare perplessi.

Bisogna gettare lo sguardo più in là: pensare, citando ancora Bloch, è attraversare. Dopo che tutti i paesi un tempo sotto la sfera dell’ex Unione Sovietica saranno “entrati” (come se ora fossero fuori, chissà dove) cosa farà la Russia dai lunghi confini? Sarà il cittadino della fredda Vladivostok europeo tanto quanto il melanconico abitante di Lisbona? E dopo la Turchia, il Medio Oriente? E l’Islanda, seppur separata dal mare, no? Oppure sarà l’Asia(/Eurasia?), come sarebbe più logico fosse (almeno demograficamente parlando), che ci ingloberà trattandoci da sub-regione? I confini geo-politici cambiano, sotto i colpi delle guerre e degli accordi alla luce e all’ombra del sole. Dobbiamo guardare oltre le siepi: la società globalizzata ha superato i vincoli territoriali: il senegalese che vive in Italia non è forse europeo? E se torna in Senegal, non porterà un pezzo d’Europa in Africa? Una filippina che torna nel suo paese, dopo avere vissuto da noi per anni, avere imparato le nostre lingue e le nostre leggi, le nostre storie, non porterà l’Europa a casa sua? I popoli si spostano e così facendo spostano i confini, li confondono, esattamente come Zeus confondeva le sue vittime (tra le quali Europa) per possederle.

Hic sunt leones

L’Europa è destinata a sparire, l’Europa come la viviamo oggi, e cioè con categorie passate, non resisterà. Il sogno, il progetto che è mosso dalla speranza di cambiamento verte non sul luogo, ma su chi lo abita: il desiderio è, marxianamente, quello di rovesciare tutte le situazioni in cui l’uomo è un essere umiliato, assoggettato, abbandonato, spregevole, affinché nessuno possa più dire: hic sunt leones. Sperare di convertire gli umori depressi e increduli dei plautini, dei machiavellici calcolatori burocrati, coloro che pensano all’Europa e al Mondo come un agglomerato di terre, arie, cieli, mari e consumatori da consumare e delimitare, regolamentare, scartare.

Spostiamo il nucleo della discussione: che senso ha parlare dei problemi della città, delle nostre placide città e cittadine europee, se la città non esiste più? Più di un miliardo di persone nel mondo – cifre delle Nazioni Unite – sopravvive nelle baraccopoli, i cosiddetti slum (cfr.: Mike Davis). Crescono a ritmi vertiginosi le megalopoli: Città del Messico nel 1950 contava 3 milioni scarsi di abitanti, nel 2004 più di 22; San Paolo ha fatto un balzo da 2, 4 a 19,9; Lagos da 0,3 a 13,4; l’europea Istanbul da 1,1 a 11,1 (e c’è chi dice che abbia già superato i 16); la lista è lunga. Queste fantasmagoriche città(fantasma)diffuse sono oramai composte da antichi centri limitatissimi che cercano di difendersi dalle sterminate periferie/discariche di baracche: chi, cosa il centro; chi, che cosa la periferia?

Se ancora oggi la campagna ospita la maggior parte dei poveri del mondo, entro il 2040 le cose non staranno più così: a quel tempo (non fra molto, no?) spetterà agli slum urbani ospitare la maggior parte degli ultimi del pianeta (un dato odierno sconvolgente, tanto per tarare le conclusioni da tirare: oggigiorno a Bombay la metà della popolazione non possiede un gabinetto). Evidenziare tali cartine di tornasole – come quelle del clima – non significa dichiarare la propria devozione ai profeti apocalittici dei media internazionali, bensì individuare le priorità: prima viene l’Uomo, poi – ma poi davvero – viene lo Stato, poi viene la Confederazione o l’Unione o quel che sia.

Sfollati di una qualsiasi metropoli

Gli ultimi arrivano con i barconi da sud, nascosti nei camion da est, presto arriveranno con gli aerei low cost o con i sommergibili dell’ex flotta sovietica da nord e spinti dalla corrente del Messico sbarcheranno ad ovest. Che farà l’Europa: alzerà i muri, come sta facendo la Spagna sulle sue coste? Come sta facendo Israele? Come da anni fanno gli Stati Uniti? O si doterà di una forza militare atta a respingere da ogni dove gli invasori morti di fame e di sete? O ingloberà sempre più paesi-cuscinetto per tenere lontani i barbari da Roma?

La soluzione non sta, credo, nella difesa ad oltranza. L’Europa si potrà difendere con le unghie e con i denti ma prima o poi cadrà, anche se guidata da mille Carlo Martello, cadrà sotto il peso delle nuovi genti che si riproducono come noi non sappiamo e non vogliamo più fare. Gli slum dell’Africa, della Turchia, del Medio Oriente non tarderanno ad arrivare, striscianti, fino ai nostri usci. Non ci resteranno che due possibilità: combattere in nome dell’Europa Patria, o abbattere mura e cortine. In un modo o nell’altro, l’Europa non sarà più la stessa.

Se invece, in nome di quel principio speranza di cui si è detto all’inizio, la meta fosse quella dell’abbattimento delle disuguaglianze e dello sfruttamento, delle epidemie, della costruzione di luoghi umani in cui vivere e non sopravvivere soltanto, del pensare non all’Europa ma al Mondo come alla nostra casa, forse potremmo evitare l’arrivo tragico e tragicomico insieme dell’onda-tsunami di ultimi che seppellirà noi e le nostre eurocentriche certezze.

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