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Omnia

La casa del sognatore (II)

Segue da La casa del sognatore (I)

La porzione di spazio costituita dal territorio, dalle terre, da ciò che è secco per etimo, si sta ricoprendo sempre di più di troppi-pieni, come se questi covassero la neanche più tanto segreta voglia di stendersi alla maniera di un lenzuolo (bucherellato) dappertutto, anche sui mari e sugli oceani (forse per equilibrare l’atavica aridezza delle terre?). La rapida “metropolizzazione” dello spazio fa pensare alla (fantascientifica) nascita di una metropoli globale senza più centro che, una volta estesasi sulla completa superficie del globo, dovrà andare a procacciarsi altro spazio in cielo, in un processo di espansione supportato dalle tecnologie più avanzate. D’altronde, metropoli è mèter pòlis, città-madre, la città greca che fonda altre colonie e resta un punto di riferimento per esse, come una madre, appunto.

Atlantide

L’idea provocatoria di un tempo in cui la Terra sarà occupata da una sola enorme Città-Madre è affascinante e immediatamente ci fa tornare con l’immaginazione ad Atlantide, l’enorme isola-continente sopra il quale — riferisce Platone — gli uomini avevano costruito suntuosi palazzi, templi, opere ingegneristiche di avanguardia. Ma l’etimo arabo di metropoli ha in sé anche l’idea di zampillio, slancio, disseminazione, azioni che concorderebbero con l’imago della metropoli contemporanea.

Che fare, dunque? Corboz sostiene che, di fronte a questo fenomeno di informe espansione, le soluzioni proposte sono inadeguate, «concepite con l’occhio al retrovisore. Si tessono le lodi della piccola città, delle comunità medievali, addirittura dei dörfli. Modelli del genere non sono solo inadeguati, costituiscono una pura e semplice mistificazione. La città medievale, sempre presentata quale ideale di armonia e di sviluppo regolato, era non meno contraddistinta da arretratezza economica, sanitaria e culturale, senza contare che incarnava una società rigidamente gerarchica e fondata sui privilegi»[13].

Dobbiamo imparare a non ragionare più visualizzando i vecchi concetti di centro e di armonia, in secundis dobbiamo fare un passo più in avanti e sfatare un altro mito, quello del “centro storico” idealizzato: anch’esso ha subito il passare del tempo, ha visto la trasformazione di molti suoi edifici, ha conosciuto incendi, demolizioni, bombardamenti, terremoti, politiche urbanistiche sciagurate. Il centro storico-modello di perfezione e vicinanza a Dio (si pensi a Pienza, la cittadina toscana voluta da Papa Pio II) è cambiato strutturalmente e si è svuotato per far posto ai turisti e ai manager. Tutt’intorno si sono in pochissimi anni costruiti dei “sistemi di tangenziali” in cui è possibile vivere senza mai fare visita al centro-città: dal mega-iper-mercato alla mega-discoteca, dal mega-centro-fitness al mega parcheggio, dal mega-residence al mega-stadio, ogni cosa è mègas, per contrastare la minutezza dell’antico centro storico e la sua vocazione all’esaltazione e alla tutela dei particolari.

Centro

Ma se il centro non è più centro, che senso ha ostinarsi a parlare di periferia?
C’è ancora un fatto da prendere in esame, a proposito della differenza fra lo spazio metropolitano nordamericano e quello europeo. In America l’attuale conformazione fisica, sociale e amministrativa si è realizzata sopra a uno spazio-substrato vergine: il progetto di griglia territoriale (la Land Ordinance del 1785) architettato dal fisiocratico Thomas Jefferson è palesemente antiurbano e egualitario, la città di stampo inglese sede dei vizi e della corruzione viene rifiutata a favore di un sistema in cui ogni membro ha la stessa facoltà di fruizione della terra. Come in un gioco di società, un vasto territorio di cui si ignorano esattamente le dimensioni e le conformazioni, viene ritagliato in quadrati uguali e spartito. Ecco perché in America non esiste nell’immaginario collettivo l’idea del centro/Sole come forza motrice che irradia i suoi raggi; l’America è nelle parole di Baudrillard una iper-realtà, un’utopia vissuta fin dall’inizio come realizzata, fuori/al riparo dalla Storia, e il divario con l’Europa è abissale.

Nel frattempo, mentre il sogno di molti nordamericani è di vivere in un sobborgo nordamericano fornito dei servizi e delle comodità tipicamente nordamericane a cui faccia da contraltare un nucleo simile al centro storico tipicamente italiano, in Europa avviene specularmente il contrario: lo spazio “generico” nordamericano, costellato di luci e spot, mitizzato (anche grazie a/a causa del cinema), ci ha sedotti (e abbandonati a noi stessi). L’abisso forse sta tutto nella quantità di Storia contenuta/stratificata nel territorio europeo di contro alla leggerezza dell’utopia americana, laddove anche agognare un centro significa desiderarne le sue ricercate raffinatezze architettoniche, i suoi musei, i suoi monumenti, i suoi ristoranti e i suoi squarci di bellezza stendhaliana, ma non la sua fisiologica pesantezza, la mole delle sue contraddittorie e/involuzioni, la sua arroganza accentratrice e assolutistica.

Il centro si è sfaldato, il kéntron -pungiglione non punge più, non è più il punto centrale di un circolo né la parte mediana di alcuna figura. Anche la figura non ha più senso se oramai il foggiare, il tastare, il maneggiare, il plasmare che sono alla radice del suo significato hanno perduto e continuano a perdere terreno, a vantaggio dell’immagine, e per di più non l’immagine fotografica — che mantiene un forte legame con la pellicola e il suo trattamento, con la materialità delle ombre e delle luci — bensì quella elettronica, anch’essa disinteressata alle dicotomie (quale la copia, quale l’originale nell’immagine elettronica?).

Il senso del tatto, come quello dell’olfatto, è un nemico della società dei consumi: l’odorato — l’aveva visto chiaramente Freud — è una “regressione” strettamente collegata a un piacere organico, ad una dimensione dell’uomo più vicina all’animale che al civilizzato: come abbiamo visto prima, chi mette davanti alla propria immagine il proprio (acre) odore non solo mette una barriera, asserisce nemmeno tanto implicitamente la preferenza per un tempo e uno spazio di libertà, un ritorno allo stato infantile, ad una fase “anale” della propria vita. Non solo: gli odori (cfr. Proust) possono fendere il flusso del tempo e catapultarci nel nostro profondo. Gli odori, insomma, sono porte di accesso alle stanze della memoria (e della sessualità), e non ai magazzini intonsi degli iper-mercati. In essi invece l’uomo/utente/consumatore non fa altro che deambulare e subire passivamente il bombardamento di luci al neon e offerte promozionali visualizzate su insegne intermittenti. Non manipola più i cibi prima di acquistarli (se lo fa, è per un attimo, e armato di guanti di plastica), dal momento che nessuno gli ha insegnato a valutare nel palmo della mano la consistenza di un frutto, e anche se fosse dotato di questa abilità, si dovrebbe comunque confrontare con una quasi totalità di cibi già imbustati, inscatolati, sterilizzati. Il tatto e l’olfatto sono sensi che distolgono dal presente, e la società del consumo non lo può accettare: per compensare l’azzeramento di questi sensi fornisce tuttavia la (fallace) illusione di uno spazio pullulante di immagini sfavillanti e suoni ininterrotti che concorrono a incrementare la sensazione del troppo-pieno.

Centro commerciale

Tuttavia, anche l’oggetto del consumo si ribella alla dittatura igienistica e all’asetticismo nel momento in cui viene consumato/scartato: «il rifiuto come male necessario è talmente presente che costituisce monti, colline, altopiani, discariche, mucchi e ammucchi. Essi sono il rimosso della città, l’inconscio “vergognoso”, le vergogne, il perturbante troppo familiare (proprio nel senso dell’unheimlich freudiano) della vita civile. Per questo motivo essi sono diventati luoghi di un non toccato, non detto. Sono diventati certo “non luoghi”, ma in un senso che ricorda anche i luoghi sacri»[14]. Queste stra-ordinarie discariche a cielo aperto ingrassano e ingrossano in maniera direttamente proporzionale alle metropoli: più è alto il tasso di crescita più è alto il tasso di produzione di rifiuti.

Se davvero stiamo andando incontro alla formazione della Città-Madre Globale, andremo necessariamente incontro anche alla Città-Discarica Globale. La prima sorretta da un’economia materialistica, radicata nel micro-presente, frammentata ma uniformata, levigata e inodore; la seconda fondata su un animismo che pone cose (o resti di cose) e uomini (o resti di uomini: si veda l’originalissimo film di Kurosawa, Dodeskaden) sullo stesso piano, dove non esiste l’azione dello scartare né quella del produrre ma solo il trasformare, il ri-ciclare e il ri-ciclar-si, la possibilità di essere partecipi e primi spettatori alla creazione del mondo, uno spazio tanto più maleodorante e frastagliato quanto più paradossalmente edenico. Similmente al pensiero mitico che — citando un passo noto di Lévi-Strauss — si serve di frammenti e residui di eventi per definirsi, la Città-Discarica si dà una forma, si plasma con i rifiuti che provengono da insiemi strutturali differenti: se il bricoleur chiede agli oggetti del suo bricolage che cosa essi significhino per lui, l’uomo della Discarica fa altrettanto, e ogni volta che si pone una domanda del genere, le risposte che vengono generate sono frammenti di un racconto che, virtualmente, è già mito.

Ora, mentre il povero/mendicante dello spazio metropolitano è costretto a mettere in scena, a rappresentare platealmente la propria miseria (finchè ci sarà un mendicante, ci sarà il mito, diceva Benjamin), il povero/mendicante della Città-Discarica non lo deve più fare: egli è all’interno di una comunità che conosce la sua storia, e la sua condizione di povertà è un destino/scelta nel quale la comunità si rispecchia, come un oracolo, o ancora meglio, come un marabout: uomo pio, guida spirituale, venerato e servito da tutti i discepoli musulmani della confraternita, colui che indica la strada per la salvezza, il folle saggio che vive ai margini dello spazio e del tempo.

Mendicante metropolitano

Jean Nouvel ha già prefigurato l’architettura di questo spazio alternativo: «nelle bidonville è più facile trovare un’automobile o un televisore piuttosto che un lavabo…
Sogno dunque un programma che cerchi di utilizzare i materiali meno cari, i più leggeri, i più flessibili, i più facili da tagliare, da assemblare, da perforare, da manipolare… come le lamiere ondulate, le plastiche con nervature, i profili alleggeriti, i cavi, le tele; un programma che integri gli equipaggiamenti, piccole macchine ready-made prodotte a milioni che utilizzino al meglio il nostro sapere sull’autonomia energetica… Sogno pacchi-habitat da paracadutare con qualche utensile senza che sia prefigurata in essi la forma di un’architettura»[15].

La Città-Discarica-Globale immersa nel reale, ombra della Città-Madre-Globale, abitata da uomini creatori, nominatori, progettatori, edificatori e da scarti dotati di anima, pezzi integranti della nuova Natura-bricolage, abitata dalla parola dei cantori marabout, labirintica e desertica, questo spazio periferico e centrale allo stesso tempo che minaccia la certezza della modernità, che pare essere al di fuori di ogni spazio e di ogni luogo pur essendo localizzabile, e induce l’individuo a trascendere la realtà, potrebbe forse rispondere alle caratteristiche dell’eterotopia foucaultiana.

Che lo scenario appena descritto sia o no fantascientifico poco importa. A noi preme capire, anche solo a livello teorico, quali potrebbero essere gli sviluppi. Ipotizzare se, nel solco del pensiero di Prigogine, da uno spazio magmatico e caotico, sostanzialmente anarchico, quello della Città-Madre, fatto di troppi-pieni generici e di discariche-ombre, potrà nascere un ordine inaspettato; oppure se l’attenzione dovrà focalizzarsi sullo sviluppo esponenziale della discarica-ombra, la quale, metaforicamente intesa come acervo di aporie/anomalie espulse dal sistema centrale/Città-Madre, raggiungerà una dimensione sufficiente a rovesciare il sistema mediante una rivoluzione di matrice kuhniana. Va da sé che le ipotesi potrebbero germinare, ma non altererebbero la nostra condizione: sebbene i cicli e le tendenze si possano riconoscere, tale discorso non vale con i cambiamenti; inoltre, se le previsioni vengono prese troppo sul serio, c’è il serio rischio che esse si verifichino a cuasa del nostro tentativo di modificare gli accadimenti.

Torniamo indietro alla luce di quanto detto. Abbiamo visto che per fondare/abitare lo spazio bisogna perdersi, trovare nuove mappe e sistemi di orientamento e avventurarsi verso la “caverna recondita”, abbandonare parte del/il proprio Io e, trasfigurati, partire per la fondazione di un centro. Ma come segnare il proprio centro in uno spazio che è a-centrato, svenduto a pezzettini al miglior offerente, de-sacralizzato? Quale rito attuare che non sia riducibile a un’erogazione di denari? Una chance può essere data da una marchiatura spaziale fatta con il corpo, oppure dall’emigrazione nella città-ombra(luna), la discarica in cui finiscono i prodotti consumati ma non finiti (e forse anche il senno, direbbe Astolfo). Oppure, ed è l’ultima opzione che contempliamo, per fondare spazio nella Città-Madre senza esserne esclusi socialmente (senza cioè ingrossare le fila della basagliana “maggioranza deviante”), si deve andare alla ricerca di quella che Bachelard definisce la “dimensione poetica” dello spazio: farsi trasportare dalla fantasticheria — la rêverie — mentre si attraversa lo spazio reale, abbandonarsi (non è detto che ciò avvenga, visto che ci troviamo nell’ambito della spontaneità/involontarietà: non è l’Io che se ne va dalla realtà, ma la realtà che se ne va per conto suo) al sogno ad occhi aperti

Lo spazio metropolitano consente di sognare ad occhi aperti?
Il sogno ad occhi aperti è per Bachelard uno stadio intermedio tra coscienza e in-coscienza, non un vuoto ma uno stato di pienezza dell’anima in cui il soggetto si depura dei suoi desideri, sublimando. Acciocché la rêverie possa sgorgare liberamente occorre però uno spazio (un centro, diremmo noi) che protegga il “sognatore”, e questo spazio si identifica con la casa. Lo spazio della casa è uno dei più potenti elementi di integrazione per i pensieri, i ricordi ed i sogni dell’uomo; oltre alla casa, Bachelard si sofferma sul “rotondo”: esso è a suo dire la centralizzazione di una vita protetta da ogni parte, e nel paesaggio arrotondato tutto sembra riposare.
La casa, la rotondità salva-guardano il nostro centro, il passaggio verso la Terra-Madre, il grembo in cui possiamo senza timori lasciarci andare alla fantasticheria (esiste un riparo più confortevole del grembo materno?).

Bidonville

Lo spazio metropolitano riempie ogni centimetro cubico disponibile di materia e rumore. Ma con un po’ di pazienza e tempo libero (derogando alle leggi del consumo) ci si può dare alla perlustrazione. Come fa Wim Wenders, ad esempio: «[in un’intervista sul suo film, Il cielo sopra Berlino, il regista racconta della scena girata a sud della Friedrichstadt, un zona degradata dal punto di vista urbanistico/architettonico] A Berlino abbiamo cercato per settimane un luogo dove montare il circo, e quella mi sembrava la piazza più vuota della città. In una città centrifuga come Berlino rappresentava il centro di quiete, l’occhio dell’uragano. In quella piazza regnava un silenzio immenso, all’improvviso spuntavano conigli, topolini, e anche il nostro elefante poteva muoversi liberamente. Dei bambini giocavano, c’erano i sentieri, e tutt’intorno la città sembrava un libro di storia aperto. […] Quella piazza mi sembrava un sogno all’interno della città […]. La qualità della vita di una città, a mio avviso, è anche direttamente proporzionale all’assenza di pianificazione»[16]. Wenders ci esorta a snidare i “punti ciechi”, quegli spazi che ad un tratto interrompono il nostro tragitto e ci scombussolano, dissonanze, ritrovamenti casuali dovuti alla serendipity, la scoperta imprevedibile, l’inaspettato che costringe Horace Walpole a coniare un’espressione atta a descrivere la sensazione di chi va cercando una cosa e ne trova un’altra.

«Quando c’è troppo da vedere, quando un’immagine è troppo piena o quando le immagini sono troppe non si vede più niente. Dal troppo si passa molto presto al nulla, come certo sapete. E conoscete anche un certo effetto: quando un’immagine è spoglia, povera, può risultare talmente espressiva da soddisfare interamente l’osservatore, e così dal vuoto si passa alla pienezza. […] Dobbiamo batterci per conservare tutto ciò che è di piccole dimensioni, che conferisce alle grandi cose una visuale, una prospettiva. […] Il deserto offre il migliore distacco per osservare la vita urbana; conosco i deserti americani e australiani, dove ogni tanto ci si imbatte in qualche resto della civiltà: una casa, una strada in rovina, una linea ferroviaria dismessa, anche un distributore di benzina abbandonato o un motel. […] In Australia incontrai uomini che da quarantamila anni vivevano nel deserto come nomadi. Erano gli aborigeni, e credevano in qualcosa di essenziale: credevano di appartenere a quella regione, e si sentivano responsabili dei luoghi, ciscuno per una precisa zona. Erano effettivamente una parte del territorio. Il pensiero opposto, ovvero che qualcuno potesse possedere un pezzo di terra, era per loro inimmagginabile. Ai loro occhi, la terra era la proprietaria degli uomini, mai viceversa. La terra possedeva autorità. […] Le città hanno reso invisibile la terra, quasi per nascondere i loro sensi di colpa»[17].

Stanare la terra nella superficie cementificata della Città-Madre, l’interstizio che è destinato ad essere ricoperto e risucchiato nel fiume del generico, e lottare per la sua conservazione, per le sue sterpaglie, la sua trascuratezza. Lì piantare il bastone in un punto, solcare una circonferenza sbilenca che lo protegga, quasi si stessero innalzando le mura maestre della casa del sognatore. Aprire quello spazio agli spazi che lo attraverseranno, ai corpi che giungeranno spinti dal caso. Come hanno teorizzato gli Stalker, allestire quello spazio come fosse un caravanserraglio, luogo dell’accoglienza al viandante, allo straniero, al non-cittadino, al nemico, luogo del transito ospitale in cui i corpi e le storie dialogano (toccandosi), opposto alla sala d’aspetto dell’aeroporto o della stazione, all’autogrill in cui dobbiamo esibire il passaporto per farci ri-conoscere e l’unico contatto fisico lecito è con il metal-detector.

La casa del sognatore così “eretta” è il luogo in cui ognuno può provare a piantare il bastone (la spada) nella terra, poi proseguire il cammino intrepidamente ma con il sollievo di avere una bussola indicante un centro/stella polare rispetto al quale orientare i percorsi.
Lontana dalle geometrie che incasellano e sezionano il matematico mondo di Flatlandia (vedi Edwin Abbott Abbott) o il rigido ordine statale della città di Ferdinand Bordewijk (vedi il racconto Blocchi), la geometria che dovrebbe disciplinare la casa del sognatore è più conforme alle reti di Ottavia, l’invisibile città-ragnatela di Italo Calvino: C’è un precipizio in mezzo a due montagne scoscese: la città è sul vuoto, legata alle due creste con funi e catene e passerelle. Si cammina sulle traversine di legno, attenti a non mettere piede negli intervalli, o ci si aggrappa alle maglie di canapa. Sotto non c’è niente per centinaia e centinaia di metri: qualche nuvola scorre; s’intravede più in basso il fondo del burrone.

Questa è la base della città: una rete che serve da passaggio e da sostegno. Tutto il resto, invece d’elevarsi sopra, sta appeso sotto: scale di corda, amache, case fatte a sacco, attaccapanni, terrazzi come navicelle, otri d’acqua, becchi del gas, girarrosti, cesti appesi a spaghi, montacarichi, docce, trapezi e anelli per i giochi, teleferiche, lampadari, vasi con piante dal fogliame pendulo.
Sospesa sull’abisso, la vita degli abitanti d’Ottavia è meno incerta che in altre città. Sanno che più di tanto la rete non regge[18].

Illusioni ottiche, città deformata

Se è vero come dice Foucault che la nostra è l’epoca dello spazio, allora dovremmo dare ascolto a Heidegger quando afferma che lo spazio va prima abitato, e solo in seguito viene il costruire. L’abitare precede il costruire. Abitare deriva dal latino habitare, frequentativo di habere, avere, ovvero “continuare ad avere”, “avere consuetudine con”. Uno spazio diviene luogo abitabile dopo una certa frequentazione, un tempo in cui conoscersi reciprocamente, imparare ad accettare la voce, l’odore, il corpo dell’altro, fino a quando chi abita e chi è abitato, essendo carichi di senso l’uno per l’altro, possono scambiarsi i ruoli.

La casa del sognatore sta, come Ottavia, in bilico, conscia di essere lì e lì per precipitare nel burrone. Pur monca di fondamenta e di pilastri, esposta ad ogni genere di calamità naturale e artificiale, scomoda e invivibile, micro-luogo incastrato alla meno-peggio negli spazi-mega, essa ci appare meno incerta di altre case, saldamente dondolante nell’abisso, confortevole e spaziosa al di là di ogni più ragionevole apparenza.

[13] A. Corboz, Ordine sparso. Saggi sull’arte, il metodo, la città e il territorio, op. cit., p. 218.
[14] F. La Cecla, Non è cosa. Vita affettiva degli oggetti, Milano, Elèuthera, 1998, p. 98.
[15] J. Baudrillard – J. Nouvel, Architettura e nulla. Oggetti singolari, op. cit., p.55.
[16] W. Wenders, L’atto di vedere. The Act of Seeing, Milano, Ubulibri, 2002, p. 97 (prima edizione 1992).
[17] W. Wenders, L’atto di vedere. The Act of Seeing, ivi, pp. 92-93.
[18] I. Calvino, Le città invisibili, Milano, Mondadori, 1993, p. 75 (prima edizione 1972).

Commenti

Un commento a “La casa del sognatore (II)”

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