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Arte

Storia della video arte (II)

Nam June Paik

Segue da Storia della video arte (I)

I Padri. Nam June Paik

Nam June PaikComunemente si usa individuare la nascita della video arte con le prime sperimentazioni dell’artista coreano Nam June Paik e del tedesco Wolf Vostell. Le attività dei due si incontrano più volte e in differenti situazioni, dando vita a quesiti ancora aperti su influenze, presenze e contaminazioni espressive.
Dal punto di vista della cronologia, secondo gli studiosi non esiste una data concorde che possa definire con precisione i natali delle esperienze video nell’arte contemporanea, proprio a causa di queste pratiche incrociate, e parallele, generate da una situazione eterogenea e complessa, che coinvolge non unicamente l’arte, ma anche la musica, e chiaramente l’evoluzione elettronica dei media.

La situazione artistica della Germania, sede di queste prime sperimentazioni, è molto vivace, e già immediatamente dopo la fine del secondo conflitto mondiale mostra di avere grandi risorse di ricostruzione di un’identità culturale e di attenzione alle proposte internazionali: non va dimenticato infatti che a Kassel nasce proprio nel 1955 la manifestazione Documenta, con l’intento di investigare l’evoluzione delle pratiche artistiche, e che soprattutto dalla fine degli anni Sessanta diventa uno dei massimi riferimenti del contemporaneo.
Oltre alla costituzione di grandi rassegne, la politica culturale tedesca ha una complessa struttura che vede fortemente impegnati enti privati e pubblici, e che offre, tramite le kunsthalle, spazi temporanei adatti alla sperimentazione e alla ricerca dei giovani artisti.

In questo ambiente, che oltretutto cerca con assiduità di ricostruire una propria identità culturale e sociale, ha luogo l’incontro tra uno dei padri della video arte, Nam June Paik, e le più importanti ricerche in corso sulla trasmissione e produzione audio e sonora del momento.
“Indeterminazione, casualità, partecipazione del pubblico, gioco: sono i concetti su cui si basa tutta la produzione artistica di Paik”[1]; con queste parole Simonetta Cargioli definisce la poetica dell’artista coreano, la cui prolifica longevità è protagonista di tutta la seconda parte del XX secolo.

Nam June Paik nasce a Seul, in Corea nel 1932, e diciottenne si trasferisce con la famiglia prima ad Hong Kong e poi in Giappone, a causa della guerra, scoppiata nel 1950. Gli anni giapponesi lo vedono impegnato negli studi: nel 1956 infatti Paik si laurea presso l’Università di Tokyo, nei corsi di Storia dell’arte e Storia della Musica, con una tesi su Arnold Schönberg. Paik inoltre in Giappone entra a contatto con le sperimentazioni che in quegli anni a Tokyo, come in Europa e negli Stati Uniti, sono orientate verso la musica elettronica: infatti dal 1951 viene costituito, intorno alla figura di Toru Takemistu, il gruppo Laboratorio sperimentale (Jikken Kôbô). Immediatamente dopo la laurea Paik si trasferisce in Germania, a Monaco, dove fino al 1958 prosegue i propri studi musicali con Thrasybulos Georgiades e Wolfgang Fortner, entrando in contatto con grandi personalità come il compositore Karlheinz Stockhausen (1928-2007), uno dei padri della musica elettronica.

Il compositore fa parte del gruppo che dal 1951 dà vita al progetto di uno studio di musica elettronica presso il Nordwestdeutscher Rundfunk di Colonia, nato “dalla volontà del compositore Herbert Eimer di esplorare i mezzi offerti dalla sintesi elettronica del suono”[2]. Quindi, nel momento in cui Paik arriva in Germania, le ricerche sulla musica elettronica sono radicate e stanno ottenendo importanti risultati, come dimostrano le composizioni di Stockhausen della fine degli anni Cinquanta e l’interesse dimostrato da musicisti internazionali che fanno di Colonia un punto di riferimento imprescindibile.

Una delle opere di Nam June PaikLa ricerca musicale, elemento chiave della formazione e dell’impianto creativo di Paik, alla fine degli anni Cinquanta si rivolge all’elettronica, cercando in essa nuovi spunti di innovazione creativa e nuove soluzioni tecniche. A partire da questo momento infatti, le ricerche di Paik, già profondamente fondate sull’interdisciplinarietà artistica-musicale, vengono infatti a contatto con le istanze della musica seriale (le composizioni Kreuzspiel e Formel di Stockhausen sono della fine del decennio), già introdotte nella scuola di Darmstadt da Olivier Messiaen e Anton Webern, entrambi insegnati di Stockhausen.

Nel 1956-8, anni in cui Paik è a Monaco, Stochkausen infatti collabora al progetto dello Studio fur elektronische Musik, organizzato dalla emittente radiofonica di Colonia Nordwestdeutscher Rundfunk, dove nel 1956 realizza Gesang der Jünglinge, uno dei maggiori risultati delle ricerche sulla musica concreta e premessa alle sperimentazioni sulla spazialità musicale. Dal 1958 anche Paik approda alla WDR, e inizia a collaborare con lo Studio fur elektronische Musik. Qui, inoltre, egli ha modo di incontrare John Cage, altro grande composito del XX secolo, e responsabile dal 1951, con David Tudor, dello statunitense Project of Music for Magnetic Tape di New York.
Da queste esperienze emergono alcuni caratteri che influenzano direttamente le ricerche di Paik: la serialità della musica, l’utilizzo di elementi concreti (intesi secondo le premesse del compositore francese Pierre Schaeffer) per realizzare composizioni musicali, e un certo approccio dada.

Nel quinquennio che va dal 1958 al 1963 Paik assorbe gran parte di queste esperienze e entra a contatto con l’universo elettronico che si muove intorno al suono e ovviamente intorno all’immagine. L’ambiente artistico tedesco è in questi anni al centro dell’attenzione internazionale per le proposte del gruppo Fluxus, nato nel 1961 dall’idea di Georges Maciunas: un momento di contatto immediato tra poesia e musica, intorno a cui si muovono le espressioni artistiche. Nel 1962 Maciunas è in Germania, dove conosce Paik, che l’anno successivo partecipa all’evento annuale Fluxus. Internationale Festspiele neuester Musik, organizzato dal gruppo Fluxus a Wuppertal. L’elettronica, la ripetizione, la sonorità degli elementi concreti sono alla base dell’intervento di Paik, che qualche mese dopo, nel 1963, partecipa alla Exposition of Musik / Electronic Television, presso la Galerie Parnass di Wuppertal, la prima manifestazione artistica che ospita dei televisori.
A partire da questo momento ha ufficialmente inizio la video arte. La poetica di Fluxus filtra attraverso tutta la produzione di Paik, che approfondisce in particolare l’idea di avvicinamento tra artista e fruitore e la creazione di modelli artistici ed estetici innovativi, fondati sulla compenetrazione dei linguaggi.

Una delle opere di Nam June PaikContemporaneamente Paik rileva la possibilità di manipolare gli schermi televisivi tramite l’applicazione di magneti. L’immagine televisiva interessa Paik in maniera marginale, poiché ciò lo colpisce maggiormente è l’idea di disturbo, nonché la componente elettronica del mezzo, la modalità di funzionamento. Non tanto cosa si vede, quindi, ma come si fa a realizzarlo. La padronanza tecnica del mezzo diventa per Paik un passaggio necessario, perciò egli inizia a condurre esperimenti con l’ausilio di un ingegnere di elettronica, Shuya Abe; l’azione espressiva passa quindi, come con la musica, tramite la manipolazione elettronica dell’oggetto. Così come le campionature trasformano la registrazione sonora, Paik sente la necessità di trasformare la immagine visiva attraverso il disturbo della frequenza e della composizione.

Paik, alla mostra di Wuppertal, presenta l’opera 13 Distorted TV-sets, ossia, secondo la descrizione Armando Giorni “13 monitor sintonizzati su trasmissioni televisive e collegati a dispositivi elettronici in grado di disturbarne la ricezione dell’immagine video variandone l’intensità luminosa, creando interferenze, distorcendola”. Un’azione tale genera un quesito sull’effetto ottenuto, ossia se il risultato raggiunto da Paik possa in qualche modo annullare il ruolo di diffusione dell’immagine della televisione. La risposta è: “No”. Nella maniera più assoluta Paik nega o annulla la televisione, poiché modificando la ricezione dell’immagine, ne mette in luce l’aspetto conclusivo di un determinato processo di creazione dell’immagine.

L’immagine distorta, il cui senso scompare, o viene annullato dalle pratiche di Paik, non fa che evidenziare come la televisione non contenga le immagini (informazione ovvia e risaputa, ma non assimilata a livello concettuale) ma ne sia un semplice “proiettore”. L’azione del tubo catodico diventa, in Paik, elemento di una poetica tutta elettronica, in cui l’immagine finale non è che un effetto, in continua e necessaria mutazione. L’involucro televisivo diventa oggetto di interesse per Paik che decostruisce l’oggetto televisione, per dare vita a forme scultoree in cui l’elemento TV viene ripetuto numerose volte, come in Tadaikson (1988), monumentale videoinstallazione realizzata per i giochi olimpici di Seoul e oggi conservata al Museo d’arte Moderna.

Oltre alla ripetizione, emerge anche una grande attenzione alla decostruzione in chiave ironica del medium televisivo in base ai propri contenuti; è il caso di TV Buddha, opera realizzata in differenti versioni fin dalla metà degli anni Settanta, come è il caso della videoinstallazione del 1976, presentata alla Kunsthalle di Brema. La presenza della statua di Buddha rinvia alla dimensione spirituale orientale, (che alla fine degli anni Sessanta era molto in voga negli ambienti della cultura alternativa, così come molte altre teorie religiose e filosofiche orientali), che rappresenta anche il background di provenienza di Paik, mentre la televisione è la rappresentazione di una illuminazione che non ha nulla di trascendente, ma che anzi si pone davanti allo spettatore con la propria versione del reale visibile e accessibile tramite la sola accensione elettronica.

Una delle opere di Nam June Paik

Queste prime sperimentazioni raggiungono l’apice nel 1965, anno in cui convenzionalmente si data la prima operazione di videoregistrazione di un evento con finalità dichiaratamente artistiche. Nam June Paik, infatti, negli ultimi dodici mesi ha lavorato in Giappone e sta proseguendo i propri esperimenti sull’elettromagnetismo e sul colore; in questo momento parte per gli Stati Uniti, portando con sé il proprio bagaglio di esperienze e raggiungendo un ambito in cui un altro artistica tedesco (quanto meno di origini) è noto per le proprie ricerche sull’oggetto televisivo: Wols Vostell.

A New York Paik inizia inoltre una collaborazione che durerà negli anni con una musicista già partecipe dell’esperienza Fluxus a fianco di Maciunas, la violoncellista americana Charlotte Moorman.
E sempre a New York, dall’ottobre 1965 è disponibile per la prima volta sul mercato la versione Portapack della videocamera Sony, a dimensioni (il registratore era grande come una valigia da portare a tracolla e la telecamera si portava a spalla) e prezzi assolutamente più modesti e contenuti di quanto prima non fosse possibile.

La possibilità di registrare in presa diretta gli eventi utilizzando con autonomia di mezzi e di risorse muta in maniera sostanziale la contemporanea ricerca degli artisti sul video; Paik ne dà una prova immediata con Café Gogo, 152 Bleeker Street, October 4 and 11, 1965, una registrazione del traffico e della realtà cittadina di New York nei giorni della visita negli States del pontefice Paolo VI. Il primo video d’artista mai realizzato nella storia.

Al suo interno emergono alcune delle esperienze parte del percorso di Paik: c’è la processualità del vissuto, premessa di molte pratiche Fluxus, così come una certa visione dada del tempo-spazio presente, con i propri eventi-avvenimenti a cui l’artista attinge come ad un magazzino, ad una discarica o semplicemente inciampandovi, in una ideale ripresa dell’object trouvé duchampiano e della sua versione musicale, creata da John Cage a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta.

Una delle opere di Nam June PaikL’idea del documentario inoltre sottolinea quella che sarà nel tempo la pratica a cui la tecnologia meglio si sposa, ossia la possibilità di una ripresa dal vivo di situazioni reali senza la complessità strumentale dello studio televisivo. A questo proposito la storica del video Maria Grazia Tolomeo, facendo riferimento all’operazione di Paik, afferma: “Paik sarà il primo di una serie di artisti che faranno del reportage amatoriale un evento artistico effettuando una ripresa in esterni e mostrandola la sera stessa in una galleria privata”[3]. La simultaneità diventa infatti in qualche modo un aspetto fondamentale delle pratiche video connesse alle possibilità offerte dalla tecnologia del Portapack: registrare e poi mostrare, senza la mediazione obbligata di un montaggio narrativo o la qualità del mezzo, segna inoltre il confine tra la video arte e il cinema.

È il 1965, Paik è a New York, e la sera della realizzazione del video Café Gogo, 152 Bleeker Street, October 4 and 11, 1965, collega la propria strumentazione alla televisione e ne offre la visione diretta presso il Café à Gogo e poi presso la Galleria Bonino, sede della sua prima personale statunitense, dal titolo Electronic Art.

Paik in questi anni consolida il proprio linguaggio espressivo, dando vita a produzioni video incentrate sul dialogo tra le icone televisive e musicali e la distorsione del loro prodotto creativo. È il caso di Untitled (1968) [esposta nel 1968 presso la Galleria Bonino di New York e poi nel 1993 per l’esposizione Video Time/Video Space che raggiunge Svizzera, Germania e Austria], che esemplifica parte della produzione artistica dalla fine del decennio: in questo caso, similmente a Zen for TV (1963), Paik altera il funzionamento interno del televisore fino alla realizzazione di una banda diagonale che corrisponde alla trasmissione di un’immagine altamente compressa. Sempre nel 1968 partecipa alla mostra The Machine as Seen at the End of the Mechanical Age presso il MOMA di New York.

Contemporaneamente la collaborazione con Charlotte Moorman si fa sempre più intensa, e conduce alla nascita di note azioni performative come TV Bra for a Living Sculpture (1969), videoregistrazione sonora in cui la Moorman suona il proprio violoncello indossando al posto del reggiseno due mini televisori che trasmettono le immagini modificate dalle frequenze dei suoni prodotti dalla musicista.

Una delle opere di Nam June Paik

Questi interventi, che mettono in discussione la sessualità, non sono nuovi per Paik che fa tesoro di quanto dichiarato da Manfred Eichel: “Il principi dei media sono: sesso,
violenza, avidità, vanità e Deception”, e da qui si muove nella realizzazione di opere come la Young Penis Composition, in cui dieci uomini fanno attraversare una tenda di carta ai loro peni a tempo di musica, e l’Opera Sextronique, in cuiCharlotte Moorman esegue la composizione in topless; la performance in questo caso viene interrotta dalla polizia, e termina con l’arresto della musicista e di Paik. Il 1969 è un anno chiave per la diffusione del linguaggio video e delle opere di Paik, che, insieme ad altri videoartisti, viene chiamato a partecipare al programma sperimentale The Medium is the Medium, realizzato sul canale americano WGBH e sponsorizzato dalla Rockefeller Foundation.

Qualche mese dopo si inaugura in America la prima grande mostra dedicata alla videoarte: TV as a Creative Medium, presso la Howard Wise Gallery. Nel 1970 la collaborazionetra Paik e l’ingegnere Abe produce i suoi frutti: insieme inventano un video sintetizzatore, che permette di manipolare i colori, le forme, e le sequenze in movimento di videocassette e programmi televisivi. Negli anni Ottanta e Novanta Paik prosegue la propria attività partecipando a numerosi eventi internazionali e vedendo riconosciuto il proprio percorso da premi e numerose retrospettive, che ne approfondiscono e diffondono l’operato, come l’esposizione del 1982 presso il Whitney Museum of American Art di New York. Nel 1992 partecipa alla XLV Biennale di Venezia con Hans Haacke, in rappresentanza della Germania; l’ultima esposizione in ordine di tempo è The Worlds of Nam June Paik realizzata presso il Solomon R. Guggenheim Museum di New York nel 2000, e poi portata in Corea.
Nam June Paik muore nel 2006. Pochi mesi dopo, il MOMA gli dedica una importante video retrospettiva.

Segue con Storia della video arte (III)

L’autrice ha sviluppato un percorso storico sull’origine, l’evoluzione e le differenti pratiche della video arte. Dai suoi protagonisti alle grandi rassegne, fino al ruolo degli autori che ne hanno tracciato la storia. Questo secondo approfondimento è dedicato alla storia e alla produzione del padre della video arte, l’eterodosso artista coreano Nam June Paik.


Note:


[1] In S. CARGIOLI, Sensi che vedono, p. 18, Pisa, Nistri-Lischi, 2002
[2] M. BATTIER, Colonia e l’avvento dei laboratori di musica, in Enciclopedia della Musica, Le avanguardie musicali del Novecento, vol. III. , p. 407, Torino, Giulio Einaudi editore, 2001
[3] In P. SEGA SERRA ZANETTI, M. G. TOLOMEO, La coscienza luccicante : dalla videoarte all’arte interattiva, Roma, Gangemi, 1998


Bibliografia:


R. ALBERTINI, S. LISCHI, Metamorfosi della visione : saggi di pensiero elettronico, Pisa, ETS, 1988
S. BORDINI, Arte elettronica, Firenze, Giunti, 2004
S. BORDINI, Videoarte & arte : tracce per una storia, con interventi di Bruno Di Marino, Marco Maria Gazzano, e una postfazione di Anna Ludovico, Roma, Lithos, 1995
E. DE MIRO, Cinema off e videoarte a New York, Genova, Bonini, 1981
S. FADDA, Definizione zero: origini della videoarte tra politica e comunicazione, Genova, Costa & Nolan, 1999
Il giocoliere elettronico : Nam June Paik e l’invenzione della videoarte, Palazzo Cavour, Torino, 14 settembre-17 novembre 2002; mostra e catalogo a cura di Lucio Cabutti, Denis Curti, Marisa Vescovo; Torino, Hopefulmonster, 2002
A. MADESANI, Le icone fluttuanti : storia del cinema d’artista e della videoarte in Italia, introduzione di Vittorio Fagone, Milano, B. Mondadori, 2002
P. SEGA SERRA ZANETTI, M. G. TOLOMEO, La coscienza luccicante: dalla videoarte all’arte interattiva, Roma, Gangemi, 1998

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