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Scrittura

Rosaria Lo Russo

Una santa della poesia italiana

Luigi Nacci (LN): Poetessa, studiosa, saggista, traduttrice, performer o, come preferisce definirsi, poetrice. Rosaria Lo Russo è una figura rilevante nella poesia italiana contemporanea. Prima di ripercorrere alcune tappe salienti della sua carriera, vorrei chiederle: ti senti compresa, seguita, apprezzata dall’ambiente della poesia e della critica italiana?

Rosaria Lo RussoRosaria Lo Russo (RLR): Mi sento molto a mio agio in un certo ambiente della poesia nostrana, quello che viene genericamente denominato performativo, dove in realtà si raccolgono poeti, poetesse e poetiche diversissime fra di loro ma, per così dire, compatibili. Mi sento compresa, seguita e apprezzata da molti poeti trentenni, che a mia volta seguo e apprezzo. Per tacere dei miei coetanei, in particolare Voce e Frasca, che sono per me dei veri e propri interlocutori privilegiati. L’ambiente della critica lo conosco e frequento poco, non avendo un ruolo universitario. Conosco e sono conosciuta e apprezzata da poeti-critici, tu stesso, Sannelli, Berisso, Simonelli, Scaramuccia, e anche da critici importantissimi come Andrea Cortellessa e Cecilia Bello Minciacchi, e la loro bella scola dell’antologia Parola plurale.

Non ho proprio nulla da lamentarmi, insomma. Mi dispiace solo un po’ che non esistano studi linguistico-filologici sulla mia poesia, e vorrei che qualcuno lo facesse, visto che i due mini-tentativi in tale direzione, uno di Marco Berisso e uno di Lucia Valori, entrambi su Comedia, ebbero molto da insegnarmi e mi aiutarono a crescere stilisticamente, innanzitutto in consapevolezza di ciò che andavo facendo. E la cosa che più mi preme della mia attività artistica è la sua dimensione di ricerca, esistenziale e tecnica, la lingua e il suo potere immenso di creare una connessione affettiva tra persone. La capacità che ha la poesia di distogliere le persone dalla malvagità: dove finiscono le parole (condivise, scambiate) inizia la violenza, in tutte le sue forme.

LN: La tua formazione: in un intervento che hai tenuto nel 2003 alla tavola rotonda “Il Gruppo 63 e la ricerca poetica successiva” (all’interno del convegno “Il Gruppo 63 quarant’anni dopo”) nomini le persone che ti hanno influenzata, a partire dal tuo prof. di liceo, Domenico Greco (che preferiva Leopardi a Dante e che ti fece scoprire La ragazza Carla), passando per Piera degli Esposti (che ti formò teatralmente), Bigongiari e Macrì (tuoi docenti all’Università), Mucci, Piccini, Pignotti (che ti introdussero alla semiotica), e poi Berisso, Cepollaro, Voce (“gemelli sperimentatori e compagni di viaggio”), i redattori di “Semicerchio”. Mi fermo qui. Ciò che mi colpisce positivamente è il senso di genuina gratitudine che traspare dalle tue parole. Vorrei chiederti (pregandoti di metter da parte l’humilis animus): ti reputi, oggi, a tua volta, una Maestra? Se sì, in quali zone delle odierne scritture giovani credi si possa ravvisare maggiormente la tua influenza?

Rosaria Lo RussoRLR: Sì, mi reputo una Maestra, ma sui generis, o di antica specie maieutica. Svolgo la mia “maestria” attraverso l’esempio pratico. Non do lezioni ex cathedra, se non esplicitamente richieste, tengo laboratori, sì, però ritengo che la mia maestria si manifesti attraverso lo scambio amichevole di opinioni, specie con i poeti più giovani di me, che dimostrino interesse per il mio parere. Oltre all’esempio pratico della pratica performativa, che ha una parentela stretta con l’orazione. Attraverso l’affetto dell’amicizia, spira fra due persone il pneuma dell’entusiasmo poetico: mi diverto (dal male del mondo) e li aiuto a divertirsi (dal male del mondo).

Con davvero nulla umiltà mi vien da dire insomma che più che una maestra sono una santa della poesia italiana: d’altronde, sin da bambina, l’afflato poetico per me si è sempre mischiato ad una sensazione fisica di compassione, nel senso di questo termine che accomuna il cristianesimo, il buddismo, l’induismo, ma in pratica tutte le religioni: il sentire insieme all’Altro, il perdersi in quanto Io per ritrovarsi in quanto Spirito, senza fedi, anche l’ateismo è pieno di Spirito. Un’arte senza santa compassione spirituale la trovo fredda e mi resta indifferente Sono una passionale, e ritengo che l’arte debba avere la funzione sociale e civile di migliorarci il più possibile e in continuazione: la santità è anche sacrificio, fare sacra la nostra vitaccia.

LN: L’estro uscì nel 1987 (Cesati). Come valuti, a distanza di ventun’anni, il tuo esordio?

RLR: Ero una ragazzina ispirata, dolce, sola, anoressica, piena di paure, che viveva in un mondo magico di parole per sfuggire alla dura realtà: insomma ero un’adolescente femmina qualsiasi, e L’estro lo racconta con delicatezza ma con efficacia. Tutto sommato penso per ciò sia stato un dignitosissimo libro di esordio, molto giovanile, ma anche molto onesto. Voglio un gran bene a quelle paroline sperdute.

LN: Gli anni Novanta sono stati per te densi di pubblicazioni: Vrusciamundo (I Quaderni del Battello Ebbro, 1994), Sanfredianina (in Poesia contemporanea. Quinto quaderno italiano, Crocetti, 1996), Comedia (Bompiani, 1998), Dimenticamiti Musa a me stessa (Edizioni Canopo, 1999). Cecilia Bello Minciacchi, nel saggio che introduce la tua selezione antologica in Parola plurale (Luca Sossella Editore, 2005), scrive che a partire da Vrusciamundo si fanno più nitide e definite le componenti cultuali, linguistiche, antropologiche, biologiche, e il mistero della tua poesia: «il farsi verbo della carne», il corpo come «fulcro dominante, gaudioso e doloroso». La domanda: qual è il ruolo giocato dal corpo, dai corpi, nella tua poetica?

RLR: La poetica del corpo è il tormentone dell’ultimo trentennio (e oltre, in precedenza!) poetico e in particolar modo a riguardo della poesia scritta da donne. Io non fo’ eccezione. “Poesia e/è corpo” potrebbe essere il mio slogan. Innanzitutto poesia è voce, e la voce è una funzione corporale; poi la poesia, in quanto nasce e prospera dal/sul ritmo, è anch’essa una funzione del cervello in quanto corpo pulsionale, non (solo) in quanto capacità di astrazione logica. Molta della mia poesia si fa o si fece lavorando di linguaggio le pulsioni ritmiche (del cuore, della pancia, del cervello). La poesia è stata anche per me il modo primario (sic!) di accedere al corpo della Madre e dell’Altro. Roba da finire in manicomio, ma molto favorevole alla produzione di versi.

Anne SextonLN: Tra i tuoi bersagli, sia nella teoria che nella prassi poetica, ci sono la “Lingua” e la “Tradizione dei Padri”. Marco Berisso lo spiega bene, nella postfazione a Lo Dittatore Amore. Melologhi (Effigie, 2004; i Melologhi, tra l’altro, hanno vinto la prima edizione del Premio Delfini, nel 2001), parlando di un percorso «attraverso il quale l’Io-Lei tenta di scrollarsi di dosso il “Bello della Donna” per ritrovare una propria “donnità”, un io-io», che è supportato da diversi elementi: «l’esperienza narrata delle mistiche medievali, interpretata come liberazione ossessa e persino scomposta dalla pulsione erotica»; un gruppo di “sorelle”: «Saffo, Amelia Rosselli, Anne Sexton e, più in generale, una linea di poesia-femmina»; «le vestigia matriarcali recuperabili nelle “donne del Sud”, in un passato antropologicamente remoto di cui il folclore è traccia». Mi piacerebbe che tu approfondissi questa questione, e che facessi poi dei nomi di Padri, Zii, Fratelli da non frequentare…

RLR: Partiamo dalla fine. Non credo ci siano dei poeti, più o meno grandi, da evitare. Si deve evitare solo di leggere la cattiva scrittura, quella cioè che non è supportata dalla cultura. Ebbene sì, non credo affatto alla validità dei naives. Credo profondamente che, per scrivere letteratura, che è quello che si deve fare quando si scrive poesia, perché la poesia è una forma particolare di letteratura orale-scritta, bisogna avere una cultura letteraria il più profonda possibile, ovvero non aver evitato di studiare, anche i poeti che ad istinto ci attraevano meno. Perché il linguaggio dei Padri Fratelli Zii è il lessico che ci deve essere familiare se vogliamo comunicare nella loro stessa lingua, attraverso il loro stesso mezzo. Il Codice Letterario esiste e va conosciuto. Se lo conosci e lo eviti, fai letteratura, se non lo conosci e perciò lo eviti, fai una bischerata che non riguarda nessun altro che la tua piccola individualità. Sobbarcandomi sin dalla scuola media inferiore, più o meno volentieri, tutto il programma di Italiano, ad un certo punto, attraverso la pratica della poesia scritta (da me) e orale (attraverso la mia fonè di reading-performer), mi resi conto che il cuore-cervello-pancia della nostra Tradizione Letteraria, Maschile per ragioni storiche, pulsava intorno alla questione Lirica dell’Io Maschio e del Tu Femmina, intesi come Soggetto Attivo e Oggetto Passivo del poetare. Struttura basilare su cui c’era molto da riflettere e far riflettere: e cerco di farlo ormai da molti anni.

LN: Un altro cardine della tua ricerca: l’oralità. Tutti i tuoi testi nascono già, passami l’espressione, in bocca (tutti, ma in particolare penso a Sequenza orante, del 1995, e Penelope, del 2003). Sono attraversati da voci che parlano e cantano lingue/dialetti/memorie molto differenti, voci dissonanti che si incarnano nella tua voce rigorosa (Nevio Gambula, in una recensione a Lo Dittatore Amore, apparsa su “Absolute Poetry” il 13 marzo 2007, parla di voce stentorea, che non eccede troppo nei cambi di tonalità, dotata di un timbro senza luce che destabilizza e insieme attrae). Dal punto di vista della pratica performativa, quali sono i tuoi modelli, e quali le colleghe e i colleghi che stimi di più o che segui con attenzione?

Demetrio StratosRLR: Io da grande volevo fare l’attrice. Studiavo e studio spesso per attrice, ovvero voce, tecniche vocali, faccio anche la speaker. I miei modelli e talvolta maestre, sono stati/e: Carmelo Bene, Demetrio Stratos, Piera Degli Esposti, Gabriella Bartolomei, Anna Montanari. Gente di teatro, attori, con una coscienza poetica notevole, a differenza dei loro più mediocri colleghi. Quanto ai miei colleghi poeti performer, pur felicissimi spesso nell’inventiva, altrettanto spesso mancano di tecniche vocali, coscienza della voce. Non hanno ancora capito che per stare su un palcoscenico bisogna imparare a farlo. Eredità un po’ cialtronesca della performatività diffusa degli anni Settanta. Molto spirito libertario, e questa è già oggigiorno un’inestimabile ricchezza artistica e esistenziale, ma poca incisività performativa, nel senso specifico di questo termine, spesso ignorato anche dai suoi solerti praticanti!

LN: Hai pubblicato da poco un libretto intitolato Crolli (Battello stampatore, 2006), anticipazione di una raccolta in progress che si preannuncia importante. Ho l’impressione che la tua poesia si stia facendo più introversa, più silenziosa, meno affollata di citazioni. È un’impressione errata? Se non lo è, credi si tratti di una svolta?

RLR: Crolli sono poesie nate dopo cinque anni di silenzio poetico assoluto. Credevo che non avrei più scritto poesia perché sentivo morta quell’emozione che precede di pochi secondi la scrittura. Che poi invece è tornata a farsi sentire. I primi Crolli sono indubbiamente più silenziosi del mio more solito, però quelli più recenti hanno ripreso a vociferare. Insomma continuo a non essere una poetante lirica. Invece il citazionismo — come calco e nutrimento dalla poesia dei Padri — è finito davvero. Se qualche citazione c’è, non è incriptata, è commentata, è “telefonata” e in versione non parodica, come era in Comedia e Lo Dittatore Amore (lo aveva notato giustamente Cortellessa per Comedia), ma, direi, piuttosto narrativa, restando con ciò nel generico. Ancora non so molto di Crolli, si stanno evolvendo nel tempo ma, rispetto al dittico Comedia-Dittatore, è certamente una svolta.

LN: «La modernità è sradicamento, coazione al mutamento continuo, creazione di bisogni che diventano nuove schiavitù, e basterà ricordare la telefonia mobile come mania di essere sempre connessi. Proprio per questo una modernità diversa, e forse utopica, dovrà sì accettare il mutamento ma non in modo cieco e indiscriminato. Non è più “moderno” chi si sposta continuamente o chi è in contatto permanente con il globo intero, ma chi è capace di conservare quelle cose — idee, luoghi, affetti — che meritano invece di durare; e perciò riesce a trattenere ancora per un attimo il mondo prima che sparisca. Saprà la nostra critica letteraria mostrarsi adeguata a un compito del genere?». Così si conclude il Dizionario della critica militante di Filippo La Porta e Giuseppe Leonelli (Bompiani, 2007). Vorrei che vestissi i tuoi panni di letterata e che provassi a rispondere a quella domanda. E aggiungo: chi sono, in poesia, i critici migliori in circolazione, e quali, invece, quelli che fai fatica ad apprezzare?

Copertina del libro Lo Dittatore Amore di Rosaria Lo RussoRLR: La critica militante è poca perché la poesia è troppa. Non tutti hanno l’energia di Cortellessa o di Sinibaldi di stare appresso all’enorme mole di “buona poesia” che esce. Siamo molto più colti che in passato, in linea di massima la cultura del poeta medio è superiore ad un tempo e dunque buona e decente poesia ce n’è davvero tanta. Ragion per cui, credo che il bravo critico di oggi in Italia debba rinunciare all’idea di “genio” e ragionare in termini di “collettività di scriventi”, se vuole essere informato e informante. Nonostante si lamenti da più parti la morte delle scuole di poesia e pensiero, la morte delle linee poetiche, delle correnti, eccetera, nonostante ciò, la poesia diffusa è il vero fenomeno di questi ultimi venti anni o giù di lì.

Se penso ad un possibile commento alla pagina che mi proponi, mi viene da dire che fotografare il mosaico attuale è forse l’unica possibilità di fare critica militante. E poi ai posteri l’ardua sentenza su chi dura o chi non dura. Oppure, che è poi la mia scelta, avere delle preferenze nette e dichiarate: a me interessa la poesia scritta da donne (per motivi tematici) e la poesia cosiddetta performativa (per motivi stilistici). Il resto lo ignoro, ammettendo il mio limite e la mia ignoranza, ma non riuscirei ad occuparmene seriamente. Così è più facile che segua quella critica che si occupa di questi settori poetici, ed ignori invece altra critica, forse quella legata ad un’idea di poesia “pura”, tipo “Anterem”, che è una bella rivista, ma ha il limite della “letterarietà”. Io mi sento più vicina alle contaminazioni, alla multimedialità, nel senso meno coglione del termine. Per intenderci, la mia collana ideale di poesia (perché la poesia non è che una parte di un Tutto) è “Fuoriformato” della casa editrice Le Lettere, diretta da Cortellessa egregiamente.

LN: Ultima domanda. So che sei una lettrice onnivora: a parte la poesia, quali sono le opere di narrativa e saggistica uscite negli ultimi anni che consideri di valore, e perché?

RLR: Non so mai bene cosa sia uscito negli ultimi anni. Ho un rapporto strano con librerie e biblioteche. Non cerco i libri, aspetto che mi chiamino. Non compro quasi mai libri, poi arriva un giorno che ne compro venti, il cui titolo magari me lo ero appuntato mesi o anni prima.

Copertina del testo di Bargellini su DanteCerto i miei gusti si orientano piuttosto sulla saggistica che sulla narrativa (non riesco più a leggere romanzi, e me ne rammarico), sul teatro, sulla poesia. Saggistica: storia, psicoanalisi, critica letteraria, filosofia, mistica, mistica, mistica. Poesia, la valanga di libri che mi investono e poi — luce luce luce! — i classici, antichi, moderni, contemporanei. Ma il polso della situazione attuale faccio fatica a tenerlo. Sono una sognatrice, non appena ho un libro in mano. Adesso, per esempio, leggo con voracità gaudente, la Vita di Dante scritta da Piero Bargellini: molto poco alla moda (il buon vecchio Bargellini, intendo, che a Dante ci pensa Benigni)!

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