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Scrittura

Caterina Serra

Tilt

Non vedere nessuno, è questa la cosa peggiore, non puoi sapere cosa vuol dire non vedere nessuno. Ti vengono in mente tutti quelli che avresti potuto incontrare quando ne avevi voglia, ma hai detto: Sono stanco, troppo affannato, non ho tempo. Ogni giorno mi viene in mente qualcuno che avrei voluto toccare, che avrei potuto annusare. Anche solo vedere, sai, solo vedere. Perché adesso non posso più

Copertina di Tilt, di Caterina Serra, edito da EinaudiI protagonisti raccontati da Caterina Serra in Tilt , recentemente pubblicato nella collana “I coralli” di Einaudi, sono affetti da quella che è stata definita “l’allergia del secolo”: una malattia immunotossica causata dall’inquinamento e dall’esposizione ai prodotti chimici di sintesi, che colpisce milioni di persone ma di cui non si parla; una malattia in cui tutti possiamo riconoscere il nostro presente, la nostra condizione di vita, la nostra personale intolleranza al mondo. La Mcs, Sensibilità chimica multipla, nella sua fase iniziale, viene anche definita Tilt — Toxicant induced loss of tolerance (perdita di tolleranza indotta da sostanze tossiche) — a sottolineare il cosiddetto punto di non ritorno che il nostro organismo raggiunge.

Ogni storia inizia con una serie di divieti e racconta come si può vivere evitando il contatto con il mondo: niente profumi e deodoranti, niente roba appena lavata o nuova, niente saponi, creme, trucchi, niente plastica, niente farmaci, pochissimi alimenti, niente odori e sapori artificiali… Sono storie di solitudine e di invisibilità, di lontananza da tutto ciò che si ama. Eppure corre lungo ciascuna di queste pagine, in questo coro continuo di voci, la stessa creativa, ostinata, sorprendente capacità di inventare ogni giorno un modo nuovo di adattarsi all’esistenza. La stessa fierezza. Perché alla fine vivere è tutto ciò che conta: «Sono deodorata, decolorata, sprofumata, ripulita, struccata, degassata, svuotata, decontaminata, disintossicata… Malata, viva».

Cristina Favento (CF): Tilt racconta con grande sensibilità il vissuto di alcuni malati di MCS, gli stravolgimenti avvenuti nelle loro vite, le difficoltà che quotidianamente devono affrontare. Come mai ha deciso di trattare l’argomento?

Caterina Serra (CS): Cercavo di raccontare la storia di un personaggio, un personaggio di invenzione che conosce, e vede, quasi, attraverso il naso. Ho scoperto che esisteva veramente qualcuno che sentiva tutto in maniera straordinaria, che vedeva gli odori avvicinarsi quasi fisicamente, che riconosceva il limite, il pericolo, il rischio di morire attraverso il senso dell’olfatto acutizzato dalla malattia.
Ho trovato delle persone. Mi è apparso subito chiaro che la realtà era più interessante della mia immaginazione.

Caterina Serra

CF: Ho letto che l’idea è nata quando ha vinto il premio Paola Biocca nel 2006 per il miglior reportage, di che cosa si era occupata allora? Come sono collegate queste esperienze?

CS: All’inizio mi sono messa in viaggio. Ho fatto una vera e propria inchiesta, un reportage. Mi sono avvicinata a una donna malata da molti anni. Il racconto in prima persona della sua esperienza è diventato il reportage che ha vinto il premio Paola Biocca. Quella stessa persona è poi diventata un personaggio del libro.

CF: Come si è preparata e documentata per Tilt? Per due anni ha raccolto decine di testimonianze in tutta Italia, com’è riuscita a rintracciare le persone intervistate?

CS: Ho cercato di seguire il filo che le persone stesse mi indicavano via via. Ogni persona che riuscivo a contattare mi dava il nome di un’altra. C’era bisogno di un patto di fiducia. In Italia esiste un’associazione fondata da alcuni malati di Mcs, l’associazione Amica. Ho parlato inizialmente con una delle fondatrici, poi ho seguito le ‘indicazioni’. Mi sono avvicinata aderendo a un rituale di avvicinamento rigido, fatto di regole precise, mi sono spogliata, lavata, rivestita dei loro vestiti. Un modo concreto di mettersi nella pelle dell’altro. Sono andata a vedere, ad ascoltare, a toccare.

CF: Per entrare in contatto con le persone incontrate, anche lei ha accettato, seppur per periodi di tempo limitati, di sottoporsi alle stesse rinunce alle quali sono quotidianamente sottoposti i malati. Come ha vissuto queste esperienze dal punto di vista umano?

CS: È stato più facile arrivare a quell’esperienza, paradossalmente, e aderirvi completamente, che tornare indietro. Ci ho messo molto più tempo a prendere una distanza che ad avvicinarmi. È stata un’esperienza di spaesamento, di alterità, ma anche di grande prossimità e vicinanza. Entrambe le cose. Credo di essermi lasciata attraversare da ciascuna storia. Nel libro c’è un personaggio che non parla, che non interviene, che non reagisce.

Caterina Serra

Eppure non è meno presente, è il tu a cui loro si rivolgono, è il tu che li ascolta, è un personaggio spogliato di tutto, un personaggio che si fa simile, che lascia i suoi punti di riferimento, le sue parole al di là della soglia: è tutto occhi, orecchie, naso… è ridotto ai sensi, quelli che loro hanno così acutizzati e al contempo così mortificati. Credo che in quel personaggio ci sia molto di me.

CF: Com’è cambiata la sua vita dopo? Ci sono stati dei cambiamenti nelle sue abitudini e nel suo modo di rapportarsi concretamente al mondo “petrol derivato” che ci circonda?

CS: Tengo gli occhi aperti, le orecchie tese, e il naso molto molto in allerta.

CF: C’è una storia in particolare che l’ha colpita più delle altre?

CS: No, non proprio. Le singole storie dei personaggi del libro raccontano in verità un’unica storia, quella di esseri umani che faticano ad adattarsi a un mondo divenuto intollerabile. Quello che racconto nel libro è la storia di una malattia che diventa espressione di una inaccettabilità: è inacettabile che l’essere umano abbia dei limiti di adattamento a un mondo che ha contribuito a rendere intollerabile al suo corpo, alla sua sopravvivenza.

CF: Quanto è diffusa oggi la MCS in Italia?

CS: Non ci sono dati ufficiali. Al momento, dati non ufficiali registrano 400 casi diagnosticati, ma migliaia sono quelli non censiti o in fase di accertamento. La quasi totale assenza di informazione sulla Mcs impedisce il riconoscimento di moltissimi pazienti.
I dati, le informazioni più aggiornate e utili sulla Mcs sono forniti dalla Associazione A.M.I.C.A. — Associazione per le Malattie da Intossicazione Cronica e/o Ambientale — e dai malati stessi.

CF: Gli episodi riportati sono perfettamente aderenti al vero oppure le testimonianze sono state uno spunto evolutosi in altro? Quanto c’è di suo nelle storie che ci ha raccontato?

MolecoleCS: Non credo che tra immaginazione e realtà ci sia alcuna contraddizione. Il fatto reale e quello letterario si toccano. La cosa più difficile in questa mia esperienza di scrittura è stata trovare le parole, trovare le parole per raccontare qualcosa, questa malattia, che per lo più è disconosciuta, negata, innominata. Trovare le parole per nominare qualcosa che non ha nome, o che non si vuole sentir nominare. È stato un po’ come strappare dall’ombra, dal silenzio, una storia incredibile, che fa paura. Dovevo trovare il linguaggio, le parole, oltre alle voci. Per dire qualcosa che nessuno dice, ci volevano le parole, dovevo inventarmi un linguaggio. E i personaggi hanno un loro linguaggio per ridefinire il vivere, che non è solo fatto di parole, ma anche di gesti, di atti mancati, di corpi che reimparano a muoversi, a difendersi, ad amare, corpi che si inventano un’esistenza. C’è qualcosa di eroico, il loro destino è in qualche modo eroico, è l’eroismo omerico: l’essere capaci di invenzione.

CF: Quali obiettivi si è posta nella stesura del testo? Andavano più nella direzione del romanzo o del reportage?

CS: Le storie che racconto sono storie vere, le vite sono reali, ma sono piene di particolari, di dettagli, di situazioni inventate. Il confine tra scrittura documentaria e narrativa è sottile.
Nessuno di questi personaggi è di fantasia: esistono. Sono storie uniche, come lo sono le persone che ho incontrato. Ma non è una cronaca, né una raccolta di testimonianze, è una storia.

CF: Rispetto ad un “reportage corale”, ha considerato l’ipotesi di focalizzarsi piuttosto su un unico personaggio, magari portavoce delle altrui storie? In altri termini, ha considerato la possibilità di avvicinarsi ad una costruzione narrativa più uniforme e maggiormente “romanzata”?

Caterina SerraCS: Sì, ho addirittura pensato di farne un romanzo di fantascienza. Ma racconto una storia che parla di un tempo presente, anche se sembra parlare di un mondo futuro.
Tilt è un libro di voci. Sono le voci delle persone che ho incontrato e che sono diventate i personaggi del libro. Sono loro a raccontarsi, a raccontare la loro storia. Solo loro, mi sono detta, sanno di sé, hanno esperienza della loro condizione, sanno la fatica, il dolore, la dignità che ci vuole, la forza, la capacità di reinventarsi ogni giorno.
Non c’è un loro e un noi, tuttavia, quell’io plurale siamo noi.

CF: Lei lavora anche come giornalista, di che cosa si occupa abitualmente? Come influenza la sua scrittura il suo essere giornalista? Lo vive come un impegno etico e civile necessariamente da rispettare anche in ambito “narrativo” oppure si pensa capace anche di lavori di pura invenzione più “leggeri” e disimpegnati?

CS: Non lavoro come giornalista. Una grandissima scrittrice, Marisa Bulgheroni, dice che scrivere è cartografare l’ignoto. Sono convinta che scrivere abbia a che fare con la scoperta, la ricerca, l’esplorazione. Scrivere, e riscrivere, serve a capire meglio, aiuta a ‘essere più aderenti al tempo in cui si vive’, per citare uno dei miei scrittori più amati, John Berger.

CF: È vero che il libro è stato stampato senza utilizzare quelle sostanze chimiche che avrebbero impedito ai protagonisti di leggerlo? A chi va il merito di quest’iniziativa?

CS: Sì, è vero, è stampato su carta prodotta senza uso di cloro. La casa editrice ha aderito al mio invito con entusiasmo, naturalmente.

CF: La scoperta di questa malattia fa riflettere sul fatto che l’adattamento umano possa arrivare ad un certo limite di tolleranza dopo il quale c’è un crollo e si raggiunge un tragico punto di non ritorno. Come dire che normalmente, nel quotidiano, l’uomo si adatta a condizioni e fattori dannosi e nocivi per la nostra salute.

realtà ipertecnologizzata

Tilt non significa semplicemente Toxican induced loss of tolerance (perdita di tolleranza indotta da sostanze tossiche, nda) ma implica significati attinenti che rimandano ad una realtà quotidiana ipertecnologizzata, frenetica e artificiale; richiama il concetto di sovraccarico, di blocco totale, di un sistema “saltato”, che ha passato il limite e non funziona più. Il titolo scelto, quindi, è anche una sorta di implicito invito alla riflessione sul mondo nel quale viviamo?

CS: Ho cercato di mettere in relazione il mondo in cui viviamo e noi: non siamo immuni, invulnerabili, e il mondo circostante è incompatibile con un essere umano che per vivere ha bisogno di quel mondo. C’è una relazione tra ciò che siamo e dove viviamo, o come viviamo.
Non credo sia più possible tornare a un mondo per così dire del tutto naturale, quel mondo ha perso gran parte dei suoi elementi costitutivi. Credo ci sia bisogno di invenzione, semmai. Una delle persone intervistate mi ha detto: per andare avanti a volte bisogna fermarsi.

CF: Qual è, secondo lei, la distinzione tra superficiale e necessario?

CS: Non so cosa intenda per superficiale. Ho bisogno della superficie così come ho bisogno della profondità. Quanto a necessario, credo abbia a che fare con il desiderio.

CF: Qual è il suo rapporto con la tecnologia?

CS: Nessun rapporto di dipendenza, e quindi nemmeno di piacere. Non ho fanatismi. Per scrivere Tilt ho usato il computer, naturalmente, ma molte pagine hanno avuto origine dai miei taccuini scritti a mano.

Charlie Chaplin in Tempi Moderni

CF: Felici coloro per i quali la sventura entrata nella loro carne è la sventura del mondo stesso nella loro epoca recita Simone Weil. Spesso, però, le persone affette da MCS pur indubbiamente vittime della loro stessa epoca, hanno dovuto scontrarsi con la mancanza di comprensione, di conoscenze da parte della “gente”, incluse le persone loro più vicine. Si sfiorano anche il tema del labile confine tra malattia e follia, spesso ingiustamente e dolorosamente valicato. Quali sono, secondo lei, le cause della generica disinformazione sull’argomento a livello di massa?

CS: Direi la paura, e l’ignoranza. Ma spesso le due cose stanno insieme.

CF: Nelle sue intenzioni il libro è anche un atto di denuncia? Qual è la sua opinione sull’industria chimico farmaceutica, e sulla ricerca medica ad essa vincolata, che nel libro vengono accusate di esser poco propense ad interessarsi ad una malattia che non prevede cure chimiche e quindi poco redditizia?

CS: No, non credo sia un libro di denuncia, almeno non nel senso che l’ho scritto con questa intenzione. È una storia, una possibile storia di chi siamo, di cosa facciamo di noi, di cosa a volte fa di noi la società dei consumi a cui apparteniamo da almeno tre decenni. Ivan Illich diceva, esattamente trent’anni fa, che siamo una società medicalizzata: l’essere umano che si ammala è solo un consumatore di anestesie, che rischia di perdere identità, unicità, di perdere il proprio nome per assumere quello della malattia stessa, di affidarsi al racconto che un altro fa di sé, il medico, rischiando di affidarsi alle sue parole, alle sua previsioni di vita e morte, perdendo la propria capacità di parola e di ricerca di sé.

Hannah ArendtCF: Riferendomi alla citazione di Hannah Arendt, a quali possibili innovazioni possiamo aspirare?

CS: Hannah Arendt diceva che non si può cambiare il mondo, poiché non si può essere cittadini del mondo. Una delle cose più innovative oggi sembra essere quella di assumersi una piccola responsabilità, attraverso un piccolo atto, piccolo ma sufficiente a creare uno spostamento, una variazione, o una deviazione.

CF: Progetti futuri?

CS: Un libro. Ma è presto per parlarne. Il viaggio è appena cominciato.

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