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Arte

Giacomo Verde

Video metafore

Per una creatività di tutti

Giacomo VerdeGiacomo Verde, parteno-toscanaccio o tosco-partenopeo, questo non si è capito ancora, è un uomo di una simpatia dilagante. Vero e proprio deus ex machina in poli-poesia dell’Absolute Poetry, con incredibile abilità, ha tradotto le immagini dei videofondali in evocazioni estetiche care alle metafore poetiche. Con Giacomo i collaboratori di Fucine Mute hanno legato ben al di là degli eventi artistici, tirando tardi, raccontandosi aneddoti, divertendosi un sacco… e l’intervista, anche in video, che proponiamo così come la proponiamo, nella sua totale naturalezza e spontaneità, ci pare un bel modo per rendergli omaggio.

Paolo Ghiotto Marin (PGM): Per Fucine Mute in Absolute Poetry, un’intervista speciale a Giacomo Verde, che non ha nulla di verde però…

Giacomo Verde (GV): Si comincia malissimo questa intervista, come alle elementari, e meno male che s’era concentrato!

PGM: Scherzi a parte, questa intervista sarà un’intervista bellissima, perché Giacomo Verde è una persona bellissima.

GV: Sì? Scusa non ho capito la domanda, mi ero distratto un attimo a guardare le puppe di…

PGM: Ti prego Giacomo…

GV: Scusami, non le guardo più.

PGM: No, no, andiamo avanti così, invece, perché è così che la metteremo in rete. A parte le vincitrici morali del Grande Slam, il capostipite dei vincitori morali di questa manifestazione sei proprio tu. Per capire meglio il perché, spiego chi è Giacomo Verde: Giacomo è l’anima di tutti i video e dei videofondali che, all’Absolute Poetry, passano, sono passati e passeranno alle spalle dei poeti durante le loro performance; quindi sei una sorta di jazzista dell’immagine. Però io dovrei rivolgerti delle domande piuttosto che farti delle apologie, ti pare?

GV: Fammi le domande, allora, vediamo un po’..

PGM: Intanto vorrei sapere — seriamente — cosa ti lega in una certa maniera alla poesia, cioè cosa c’è in Giacomo Verde di poetico, o cosa piace a Giacomo Verde della poesia.

GV: Cosa piace della poesia a Giacomo Verde? La poesia! Però non tutta la poesia, chiaramente, ma in generale. Io devo la conoscenza della poesia, lo confesso, a Lello Voce, o poeta. Ci siamo conosciuti tanti anni fa: io facevo video, ho visto il suo modo di lavorare, lui mi ha introdotto nel mondo di questa poesia, in questa poesia del dire che io non conoscevo. Così ho iniziato a fare i videofondali per lui, cioè per le sue poesie, per i suoi reading, e poi da lì mi sono avventurato a lavorare anche con gli altri. Però, come dire, mi sono trovato, diciamo così ‘facilmente poetico’, ossia vicino alla poesia perché il tipo di video che facevo, già da prima, era un modo di realizzare le immagini molto metaforico, che è la caratteristica principale della poesia, quella cioè di creare metafore: usare la parola non per dire semplicemente quello che la parola vuol dire, ma per far suonare tutti gli altri significati che la parola può avere. Con le immagini ho sempre lavorato così, non ho mai pensato che quello che inquadravo e che facevo vedere era quella cosa lì, bensì la rappresentazione di qualcos’altro. Quindi, questo incontro è stato facile. Ho risposto bene?

PGM: Ma sei bravissimo, e ti voglio pure bene per questo. Ti voglio bene perché rispondi bene! Il tuo lavoro, che è di programmazione — nel senso di uno studio e di una costruzione quasi architettonica del lavoro, si basa molto, però, anche sull’improvvisazione…

GV: Che fai? Ti sei impallato? Si basa sull’improvvisazione perché mi hanno costretto a basarmi sull’improvvisazione. Veramente tutto è nato a Tokyo, dove ero andato per fare un videofondale dedicato ad alcuni poeti italiani; avevo chiesto un set video pazzesco — perché, mi dicevo, a Tokyo c’avranno tutto — e invece siamo arrivati lì e non c’avevano niente!

Giacomo VerdeSono riuscito a noleggiare soltanto un monitor, e per fortuna m’ero portato la telecamera da casa. A quel punto ho riciclato quella che era la mia esperienza del tele-racconto, cioè l’inquadrare piccoli oggetti per farli diventare mondi. Ho chiesto ad ogni poeta di darmi un oggetto che inquadravo e che finiva per fargli da sfondo. Anche lì improvvisando, perché non avevo la più pallida idea di come si sarebbe realmente evoluta la cosa.

A Tokyo la cosa ha funzionato, poi chiaramente l’ho sviluppata, l’ho approfondita. Mi diverte molto improvvisare, però, per sviluppare l’improvvisazione bisogna sempre essere all’interno di un contesto, di un discorso, di un’idea: non si può prendere e andare lì con qualsiasi cosa. Mi piace sapere almeno il titolo della poesia per sapere cosa usare, altrimenti diventa un dramma.

PGM: Il tuo è un punto di osservazione molto particolare. Credo che siamo diventati amici in questo ambito, e in pochi giorni, proprio perché dalla platea ti ho visto spesso ridere e divertirti. Il personaggio che probabilmente si è divertito di più, all’Absolute Poetry, è stato proprio Giacomo Verde. In tal senso, volevo passarti un’impressione tutta mia e rilanciartela: nel mondo della letteratura, di solito, e parlo di scrittori di letteratura e di libri, gli autori tradiscono sempre l’aspettativa della bellezza che trovi nei loro lavori. I poli-poeti, invece, come li vedi?

GV: I poli-poeti sono omini anche loro, direbbe Benigni…

PGM: Te lo chiedo perché a me sono sembrati molto più umani.

GV: Esatto, sì, sono molto più umani. Non so se sono più umani degli altri poeti, perché in realtà conosco solo poli-poeti, frequento questa genìa, e quindi anche all’interno di ‘sta genìa ci sono quelli più umani e quelli meno umani, come dappertutto: sono persone, in fin dei conti. Però devo dire che c’è veramente molta sintonia, sia che si tratti di facilità nell’amicizia, di simpatia reciproca, sia di un dialogo che parla e supera le maschere e gli schemi. Tutto questo c’è sicuramente, anche perché, se non ci fosse stato questo tipo di rapporto, sicuramente non sarei riuscito a lavorare con loro.

PGM: E su un tipo d’arte che, invece, è molto strutturata. Sembra proprio che, nonostante la struttura dell’arte, in realtà, esistano una semplicità e un’umanità anche molto più sciolte, almeno a parere mio, rispetto al rapporto tra il libro e il suo autore, dove il libro magari ti sorprende per le qualità che poi non ritrovi nell’autore…

GV: Ma no, non sono così sicuro di ‘sta cosa che dici, perché anche tra i poli-poeti c’è chi se la tira, dai! Diciamocelo…

PGM: Facciamo un nome?

GV: Se hai fatto le interviste, forse è venuto fuori da sé.

PGM: No, non l’abbiamo intervistato

GV: Allora non saprete mai chi sono quelli che se la tirano.

PGM: L’ambiente è molto divertente! È il mio primo Absolute Poetry come nullafacente precario, e una cosa che mi ha colpito molto è stato il video di Michele Cinque, presentato durante la prima giornata. È una cosa di cui abbiamo già parlato dietro le quinte: nel video, dedicato al lavoro, esiste una specie di confessione da parte degli stessi artisti, che spesso denunciano una certa precarietà. Io vorrei utilizzarti come araldo di tutti loro, creando un collegamento, in diretta, con il dietro le quinte. Vorrei che ci raccontassi tu, per quel che ti riguarda, o per quel che riguarda la realtà degli artisti in senso più generale, se c’è e come viene vissuto l’aspetto del precariato.

GV: È buffo, perché spesso sono stato scambiato io stesso per un tecnico. Con i tecnici io vado molto d’accordo, sono degli amici e, tra l’altro, anch’io ho fatto il tecnico quando per sopravvivere bisognava far qualche cosa. So affrontare i problemi tecnici della scena, o del teatro in generale. Per questo ho un dialogo molto aperto e confidenziale con tutti i tecnici.

Anche gli artisti, quelli che considero più svegli, conoscono l’importanza dei tecnici di quinta: c’è la consapevolezza o l’idea che, quando tu fai una cosa, e il tecnico la guarda, lui è il primo a capire se va bene; se è soddisfatto, quello è il primo segno che la cosa che stai facendo funziona. Se il tecnico non te la guarda, e pensa ai cazzi suoi, c’è da preoccuparsi.

Il tecnico è il primo spettatore. Questo lo dice anche Robert Le Page — che è un regista di teatro tecnologico canadese, uno famosissimo, importantissimo — ed ha ragione, è vero insomma. Io mi ritrovo, da sempre, a condividere la scena con i tecnici perché ho questo tipo di rapporto così, molto concreto, reale.. Quindi non saprei… ma cosa vuoi sapere…pettegolezzi?

Giacomo Verde intervistato da Paolo Ghiotto con l'aiuto di Beatrice Biggio

PGM: No, in realtà vorrei essere molto serio stavolta, vorrei che tu raccontassi, come magari dietro ad una professionalità anche seria… Vabbè, ma se lo fai raccontare a me!

GV: Cioè? Dietro a una professionalità anche seria, che c’è?

PGM: C’è magari una vita un po’ più difficile.

GV: Ah, ma in questo senso qua, cioè del lavoro… Si, ma questo non mi viene…

PGM: Allora, rispondi o no?

GV: Cosa rispondo?

PGM: Io sapevo che andava a finire così…

GV: Meno male che lo sapevi, va… Allora, la difficoltà del lavoro nel senso che a fare gli artisti non vuol dire che a uno va sempre bene, e fila via tutto liscio. Assolutamente no. Ti dicevo prima che ho un po’ di difficoltà a parlarne perché mi sembra scontato, soprattutto per quanti hanno deciso di fare un lavoro artistico diverso, veramente diverso, che è alternativo a quella che è l’arte più o meno dominante, più o meno diffusa, in quanto utilizza un tipo di comunicazione artistica di una certa qualità, o meglio, inclassificabile in una determinata tipologia.

C’è la difficoltà di sopravvivere in questo mestiere. Io ne parlo anche se un po’ mi fa strano, perché è ovvio, do per scontato che si sappia che con questo mestiere non si possa guadagnare più di tanto, specialmente se cerchi di fare un tipo d’arte che non è quella dominante, appunto. E che cos’è l’arte dominante sostanzialmente? L’arte dominante è quella che mette avanti all’opera l’artista, il nome dell’artista, che ne costituisce sostanzialmente la mitologia, non del fare arte, ma di colui che la crea. E allora? Questa è un’arte dominante che fa comodo al sistema perché è un’arte che sottolinea il culto della personalità. È il culto della diversità dell’essere creativo, mentre l’essere creativo è una cosa che appartiene a tutti, non è una cosa per pochi eletti, per dei geni creatori, no. Esiste, invece, un modo di fare arte che punta sull’opera, e non sull’artista, sul suo nome, o sulla strategia del farsi un nome, ma sul creare forme di comunicazione che creano pensiero, che creano incontro tra le persone, che fanno giocare fregandosene di dar lustro al proprio nome.

Giacomo VerdeSpesso dico: una cosa è lavorare per fare la storia dell’arte, un’altra cosa è fare arte: è proprio un’altra cosa, sono due cose diverse! Se tu vuoi fare la storia dell’arte devi preoccuparti di collegarti: devi metterti in contatto con certi critici e stare attento a certi comportamenti, a quello che si potrebbe pensare di te. Se, invece, vuoi fare arte, ti comporti di conseguenza, in modo diverso. Sei in una dimensione dove non è più importante guadagnare, dove è più difficile trovare la maniera di sopravvivere perché il tuo lavoro lo riferisci a una base diversa, a delle persone, a delle istituzioni, a delle associazioni che stanno e sono la base, e che quindi hanno poca economia. Finché vuoi rimanere su un certo standard di vita, diciamo così, modesta e onesta, va benissimo, ma se vuoi diventare ricco devi venderti. Veramente ti devi vendere in una maniera che sembra inimmaginabile da dire, ma purtroppo vera.

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