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Arte

Dalle tracce del sacro alla sacralità del quotidiano

Villa Manin è un antico e prezioso borgo che si erge nel verde della campagna friulana. Il Centre Pompidou, un mostro di vetro dal cui tetto è possibile ammirare tutta Parigi.

Main Dream Quoq Iang

Nulla in comune quindi, se non il fatto di essere due centri d’arte contemporanea di straordinaria importanza. Che hanno scelto di occuparsi proprio nello stesso periodo del medesimo argomento. Non scontato, poiché facile sarebbe piombare nella banalità: il rapporto tra arte e religione. Due viaggi diversi sullo stesso pianeta, due modi di vedere e interpretare la relazione tra arte e misticismo che ci permettono stimolanti confronti.

God & Goods — Spiritualità e confusione di massa — Villa Manin

L’arte si è affrancata dal giogo delle opere su commissione da pochi secoli. Così facendo ha smesso di rispondere alle esigenze della Chiesa, ma non smette certo per questo di rispondere alle esigenze dei credenti, alle esigenze di misticismo e trascendenza che la rendono così scrupolosamente anelante. Abbiamo tutti bisogno di fissare in alto, e se in alto non brilla più nulla, allora ci guardiamo di fianco ed aspettiamo che qualcosa accada. La selezione di opere esposte in Villa Manin fa capo ad una scelta ben precisa: la religione non ha più molto a che fare con il trascendente. Spinoza lo disse in modo diverso molto tempo fa, e probabilmente sarebbe sinceramente stupito di come il suo principio di immanenza si sia a tal punto concretizzato. L’apparire degli oggetti in quanto eventi, in quanto fenomeni la cui apprensione è delegata alle logiche percettive, ci fa immancabilmente sperare che dietro tale fugacità vi sia anche, ancora, una qualche essenza, strutturalmente diversa, matrice di senso.

Dalle faglie delle nostre percezioni e dalla disillusione religiosa nasce quindi la ricerca di una dimensione trascendente dentro le cose, grazie alla quale le cose stesse acquisterebbero spessore, divenendo miti da idolatrare. Ma è una trascendenza cui non pertiene nulla di vigoroso, sono elementi fragili, delicati ad incarnarla. I miti dei farmaci o delle sigarette, nell’apoteosi del loro fascino, mostrano tutta la debolezza della logica contemporanea del consumo, secondo la quale gli oggetti si affrancano da qualsiasi sistema valoriale (Jean Baudrillard). Se il titolo traces du sacré lascia ben intendere l’obiettivo della ricerca artistica della mostra parigina, in God & Goods (traduzione: Dio e Merci, nda) le opere non rappresentano né intendono cercare tracce del sacro: esaltando la mercificazione della cultura di massa, marcano la sua assenza.

Manin christyouknowitainteasy lucasCosì il giallo fosforescente di cui è ricoperta la Madonna di Katharina Fritsch (Madonnenfigur, 1987) metamorfizza l’oggetto sacro in oggetto di consumo, mostrandone il potenziale di mercificabilità piuttosto che il valore religioso.
Un Cristo interamente composto di sigarette è invece l’interpretazione del dogma di Sarah Lucas (Christ You Know It Ain’t Easy, 2003), che mette a confronto le pene del Cristo in croce e le pene dell’uomo. Siamo tutti condannati, una volta messo piede su questa terra, a soffrire e combattere contro qualcosa che troviamo ingiusto. Il mito della sigaretta, simbolo della salvezza e della via di fuga illusoria, viene quindi a sostituire l’antica speranza della vita eterna. Il principio di credenza resta intatto: è difficile smettere di credere così come è difficile smettere di fumare. Ma il paragone non può certo lasciare indifferenti. Il tempo della sigaretta è il tempo breve, il tempo delle pausa tra un impegno e l’altro, è il tempo vuoto, zingaro, celibe. Il tempo della credenza era lo spazio infinito di meditazione, in cui l’essere si raccoglieva in sé per trovare la propria ascesi.

Tale fragilità la mostra Richard Prince con Untitled (cowboy), 1989. Egli prende il cowboy divenuto famoso in quanto simbolo scelto dalle sigarette Marlboro ed incarnante di valori di virilità, libertà, coraggio, e lo spoglia di tutto lo spessore mitico che il simbolismo della pubblicità aveva creato attorno a lui: non ne resta che un cowboy che vaga solitario, e si potrebbe dire anche un po’ sconsolato, per la steppa, alla ricerca della perduta aurea. Il mito quotidiano si costruisce facilmente e altrettanto facilmente può crollare.

Manin_untitled(cowboy)-prince

Barthes sosteneva che compito della semiologia era distruggerlo per mostrare come esso celasse e contemporaneamente nutrisse ideologie borghesi. L’arte ci mostra oggi come esso sia solo surrogato di un bisogno di sacralità, che ci spinge ad immaginare spessori divini dietro agli oggetti quotidiani. Ma la purezza e l’incanto delle piccole cose non viene distrutto da tale sconfessione. La bellezza della fragilità resta intatta malgrado la disillusione ed anzi prende vita da essa, poiché il senso estetico rinasce liberato dalle pastoie del trascendente. Gli oggetti fluttuanti di Cai Guo-Qiang (Dream 2002) sembrano vaghi ricordi che emergono da civiltà sommerse, il paesaggio invernale fatto di aspirina di Koo Jeong-A spunta dal buio con l’incantevole delicatezza di una fiaba appena sussurrata. Finché cercheremo negli oggetti qualcosa che li trascende, non troveremo che un’assenza. È nel loro nudo impianto estetico, nelle loro spontanee vibrazioni che emerge tutta la sacralità dal quotidiano.

Traces du sacré — Centre George Pompidou

“Nada”, niente, recita un messaggio che porta un cadavere tornato dall’oltre tomba in un disegno di Goya (1820). Il vuoto ha annunciato la sua comparsa, sostituendo il divino all’inizio del XIX secolo e Traces du sacré, mostra organizzata da Jean de Loisy al Centre Pompidou, mette in luce come l’arte abbia affrontato questa mancanza.

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Il cielo rimpiazza “i cieli” nell’opera di Caspar David Friedrich, dove un uomo impotente osserva l’immensità della natura (Viandante sul mare di nebbia, 1818). Immensità vuota, priva di senso, dove le rovine dei templi segnano che del sacro non sono rimaste che tracce. Il nuovo infinito è quello del prospettivismo nietzschiano, dell’impossibilità di vedere al di fuori del nostro punto di vista, pur consapevoli della molteplicità di dimensioni del senso. È l’indeterminatezza delle prospettive che si apre all’uomo, ed egli dev’essere capace di riempire quel vuoto con nuovi orizzonti, sempre necessariamente relativi, quelli della psichedelia, del misticismo, o della scienza.

Mirabile spaccato sull’arte moderna e contemporanea, l’esposizione parigina si compone di una selezione di opere di grandissima levatura; tra gli artisti presenti: De Chirico, Kandinsky, Klee, Dix, Boccioni, Fontana, Ray, Beuyes, Brancusi, Bacon, Mondrian e molti altri. Faraonica e interdisciplinare, mescola abilmente arti visive, teatro e cinema, include quattro tematiche separate e poggia su uno straordinario apparato concettuale, presente sia nelle spiegazioni in loco, sia nei cataloghi, sia nei supporti multimediali (rimandiamo al sito del museo colmo di interviste e percorsi critici). Nella vertigine dell’accumulo di opere e temi che vanno dall’apocalisse alla beat generation, al Centre Pompidou troviamo intere sequenze dei Nibelunghi di Fritz Lang o di Nosferatu di Murnau, ma anche riprese di performance teatrali di Grotowski.

Permeata da un senso di nostalgia, in Traces du sacré si passa gradualmente dalla sparizione dei valori, al tema escatologico (l’apocalisse e la guerra, straordinari nel grande trittico di Otto Dix: Schwangeres Weib, 1919) e alla ricerca di altre forme di trascendenza. La relazione tra il trionfo del relativismo e l’inquietante vertigine del vuoto si fa allora indissolubile. Come sembra dirci Munch (Friederich Nietzsche, 1906), dall’annuncio della morte di Dio può derivare un tramonto ma al tempo stesso una rinascita: il sole tiepido dietro la figura del filosofo è infatti interpretabile sia come un declinare del sole che come un’aurora; “Non si sa se si tratti della fine di un’umanità credente o dell’inizio di una nuova epoca, capace di superare la morale. E la persona che può reinventare un nuovo mondo è proprio l’artista” secondo Jean de Loisy.

Ma la perdita di punti di riferimento fissi del relativismo non può che portare l’uomo al “disincanto” e alla conseguente confusione tra il bene e il male. Se in Rothko (Untitled, 1976) il sublime è cercato in ciò che resta dopo la catastrofe, Maurizio Cattelan, con il senso dello spettacolo che lo contraddistingue, ci offre la perfetta riproduzione di un bambino che prega inginocchiato. Non fosse che il volto di quel bimbo è quello di Hitler (Lui, 2004). Il diavolo non solo era ben pettinato, sembra dirci Cattelan, ma quando si trasmette male, si trasmette il male. La riflessione verte dunque sul mezzo stesso della rappresentazione e sulle sue intrinseche possibilità di rinviare alla trascendenza.

Pompidou-lui-cattelan

Ma è in 1st Light (2005) di Paul Chan che il Pompidou si fa straordinariamente vicino a Villa Manin. Chan proietta sul pavimento un video dove le ombre di un insieme di oggetti quotidiani ascendono lentamente verso il cielo. Tra questi, macchine, lavatrici e I-pod le cui dimensioni falsate (auricolari giganti e treni giocattolo) mostrano la sacralizzazione del quotidiano. E mentre questi banali oggetti galleggiano verso l’alto, ombre di esseri umani precipitano rapidamente verso terra. Il consumismo assume allora il valore più alto, ascende nell’ultraterreno, mentre l’uomo sprofonda. E le ombre ricordano drammaticamente quelle di chi si gettava dalle Torri Gemelle l’11 settembre.

Conclusioni

La mostra di Villa Manin resta coerente sul tema della mercificazione della religione/arte e della conseguente sacralizzazione della merce: gli oggetti assumono allora nell’immanenza una dimensione di sacralità. L’esposizione del Centre Pompidou invece, a costo di una non indifferente confusione, mescola le carte e si presenta come uno sguardo sull’arte del XX secolo, una sorta di messa in prospettiva dove il tema del sacro è l’interpretante che offre un nuovo punto di vista sulla mutazione dell’arte. Paradossalmente, dalla constatazione della scomparsa del divino la mostra giunge all’affermazione della sua necessità. Se la secolarizzazione separa il sacro dalla vita quotidiana, l’ombra di Dio è sempre presente e il bisogno di trascendenza prende altre forme.

In Traces du sacré non si sottolinea allora il modo in cui l’arte può rappresentare l’irrappresentabile, ma si opera un pleonasmo, fin dal titolo. La trascendenza ha nella sua stessa definizione il carattere di darsi attraverso le proprie tracce. Appunto esterno al mondo, l’unico modo per riferirsi al sacro è attraverso le impronte che ne presentificano l’assenza. Si tratta proprio di quell’ambiguità tra la presenza del rappresentante e l’assenza del rappresentato che è stata in un certo senso superata dall’arte contemporanea mettendo in crisi il concetto stesso di rappresentazione. Con la crisi del divino, sembrano dirci entrambe le mostre, l’arte non ha più il compito di significare il valore ma piuttosto di mostrarne la relatività. Arte che, per dirla con Deleuze, non rende il visibile ma rende visibile.

Rothko-14-1960

Note bibliografiche:


Baudrillard, Jean, Lo scambio simbolico e la morte, Milano: Feltrinelli, 1976
Baudrillard, Jean, La sparizione dell’arte, Milano: Politi, 1988
Barthes, Roland, Miti d’oggi, Torino: Einaudi, 1970
Deleuze, Gilles, Francis Bacon. Logica della sensazione. Torino: Einaudi, 1995
Nietzsche, Friederich, La gaia scienza, Milano: Adelphi, 2001


Traces du sacré
Centre George Pompidou


Organizzata al Centre Pompidou di Parigi la mostra Traces du sacré ha avuto luogo dal 7 maggio al 11 agosto 2008. Curata da Jean de Loisy ha accolto circa 350 opere di 200 artisti tra i più notevoli del XX secolo. Pluridisciplinare, è stata organizzata con la collaborazione di molte istituzioni che ruotano attorno al Pompidou, tra cui la Bibliothèque Publique d’Information e l’IRCAM (istituto di ricerca sulla musica contemporanea). Attualmente l’esposizione si è trasferita a Monaco di Baviera (Haus der Kunst, dal 10 settembre al 10 gennaio 2009).


God & Goods – Spiritualità e confusione di massa
Villa Manin


Dal 20 aprile al 28 settembre il Centro d’arte contemporanea di Villa Manin (UD) ha presentato God & Goods – Spiritualità e confusione di massa. La mostra, curata da Francesco Bonomi e Sara Cosulich Canarutto, proponeva circa una trentina di artisti che si sono confrontati sul tema del sacro.

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