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Cinema

Eric Alexander

Doppio

In occasione dello scorso Festival Maremetraggio abbiamo incontrato Eric Alexander, doppiatore e attore, che ha presentato Doppio, il suo primo lungometraggio, caratterizzato da un sceneggiatura particolarissima e fortemente autobiografica.

Locandina del film Doppio di Eric AlexanderJimmy Milanese (JM): Su un film originale come Doppio ci sarebbero tantissime cose particolari da dire. È qualcosa di nuovo nel panorama cinematografico italiano, sei d’accordo? Che cosa puoi raccontarci di questo tuo lavoro?

Eric Alexander (EA): Ti ringrazio. Non dovrei dirlo io, si cerca di lavorare sempre un po’ contro il cliché. È la prima commedia ambientata interamente in uno studio di doppiaggio. Io sono principalmente un attore, faccio anche doppiaggio, e sono socio di una società di doppiaggio che in questo frangente ha prodotto il mio film. Ho studiato per un periodo negli Stati Uniti, soprattutto scrittura cinematografica, e mi sono trovato in questo ambiente, molto peculiare, in cui come attore-doppiatore doppiavo dai Puffi a Sentieri ai Pokemon. Vivevo in una fauna di colleghi talmente peculiare che era quasi inevitabile che scrivessi di questo. Allora ho scritto Doppio, la storia di due fratelli e del loro rapporto molto conflittuale, che trascorrono tre giorni all’interno di vari ambiti in uno studio di doppiaggio. Ovviamente si gioca con la metafora e il doppio senso. È particolare in questo senso, perché non è mai stato fatto niente di simile fino ad ora.

JM: Quindi un soggetto del tutto originale, così come è originale il tuo nome. L’avrai raccontato già mille altre volte, ma vale la pena spiegare il perché di questo Eric Alexander…

EA: Mi ritrovo con questo cognome dal sapore di cocktail alla vaniglia e cioccolato grazie al mio papà che è sudafricano. È un compositore, arrivato in Italia dopo una laurea in direzione di orchestra alla University of Capetown. Il progetto era quello di continuare e andare fino in Germania, invece ha conosciuto mia madre, italiana, interprete. Si sono sposati e siamo nati io e mia sorella. Abbiamo vissuto un po’ in America, però sono italiano al cento per cento.

JM: Quindi, abbiamo capito che gli ambiti culturali dove ti sei formato sono abbastanza eterogenei. Ma come hai maturato questa tua passione nei confronti del doppiaggio e della recitazione? hai seguito dei corsi? Come sei arrivato a questo tipo di carriera?

Eric AlexanderEA: Sono diplomato all’Accademia dei filodrammatici di Milano. Da sempre volevo fare l’attore, e quindi ho provato a entrare nella più prestigiosa accademia che c’era vicino casa. Ho avuto la fortuna di superare le selezioni. Non dico fortuna per fare il modesto, ci vuole molta fortuna in questo lavoro. E quindi ho finito l’accademia e ho iniziato a fare l’attore in teatro. Ho lavorato molto al Teatro stabile di Bolzano, con Albertazzi. Sono anche venuto al Teatro Rossetti e ho recitato un paio di volte con lo stabile di Bolzano. E nel frattempo continuavo a scrivere per il cinema. La passione per il cinema è sempre stata forte. Io non so scrivere, non dal punto di vista del personaggio, quindi la mia formazione da attore teatrale mi porta a scrivere storie che partono sempre dal personaggio e poi si evolvono. Amo molto la struttura, e ho dei miei miti che vanno da Robert McKay a Sid Field che ho seguito e seguo. Però sono anche abbastanza ancorato alla tradizione italiana, che è quella che poi culturalmente mi ha arricchito.

JM: Manca la radio?

EA: In radio lavoro come voce. Sai, i doppiatori usano un po’ la voce tout court. Quindi sì, lavoro anche in radio.

JM: Rimanendo in argomento doppiaggio, che è un mondo abbastanza particolare e interessante, perché peculiare in Italia — per esempio negli Stati Uniti non conoscono il doppiaggio, loro non hanno bisogno di doppiare — che cosa ci vuole per essere un bravo doppiatore? Raccontavi prima che la tua casa di doppiaggio riceve tantissime informative su persone che, più o meno, “potrebbero avere una voce che…” Qual è la diversità che c’è tra un doppiatore e un interprete? Facciamo un esempio: Monicelli fa doppiare praticamente quasi tutti i suoi film, pur avvalendosi di attori di un certo livello. Che cos’è che dà e che toglie il doppiaggio al cinema?

EA: Il doppiatore è un interprete, però deve interpretare tenendo conto della persona che ha di fronte. Quindi, deve essere anche un attore. Poi io ho un rapporto molto conflittuale con l’idea di doppiaggio. Pur facendolo, non lo amo molto perché lo ritengo — i miei colleghi mi odieranno per questo- molto mestiere e poca arte. Però, è uno straordinario mestiere, è un grande lavoro di artigianato, che noi italiani facciamo in modo egregio. È un po’ diverso dal recitare, non è un caso che grandi doppiatori non spesso siano grandi attori al teatro o al cinema, così come tanti grandissimi attori in cinema e in teatro di fronte ad un microfono sono completamente disarmati e risultano quasi stonati.

Eric Alexander

Tante volte capita di vedere un film con l’attore italiano che si doppia, e tutte le altre voci, invece, di doppiatori veri. C’è un gap pazzesco, e l’attore sembra quasi un cane. Non è colpa sua, il fatto è che siamo abituati a sentire tutte queste convenzioni, questi toni, quello che noi in gergo chiamiamo il “doppiaggese”. Ormai anche la casalinga di Voghera capisce che c’è qualcosa di strano, perché è abituata a quel capire tutto fino all’ultima parola.

Per rispondere alla tua domanda, insomma, sono convinto che per essere un doppiatore, devi essere prima un attore. Fino a oggi, che il doppiaggio non era ancora così “lanciato”, capitava agli attori di teatro e di cinema di fare il doppiaggio. Se entri dentro ad un certo giro, ti dà anche economicamente una sicurezza che il teatro e il cinema non ti danno. Adesso sta cambiando, ci sono delle persone che nascono e vogliono fare i doppiatori. Tra i grossi doppiatori che conosco, e che lavorano doppiando i più grandi personaggi italiani, non c’è nessuno che è partito volendo fare il questo mestiere.

JM: È un ripiego? Quando non si riesce a recitare, si doppia un film?

Eric AlexanderEA: Inizialmente può essere così, poi doppiare diventa anche divertente, diventa un bel gioco, diventa gratificante e ti arricchisce. Però sei sempre “servo” di chi stai doppiando. Un ripiego è sbagliato, forse all’inizio la scelta di fare il doppiaggio lo è. Almeno, per me lo è stato, e per tanti amici… si recita la sera e ti chiamano per fare dei doppiaggi. Cominci, vinci un provino perché piace la tua voce al distributore, e allora ti chiamano sempre di più. E non si guadagna male se si lavora tanto. E poi vieni preso dal vortice perché in una giornata di doppiaggio guadagni magari come per un mese di lavoro a teatro.

JM: Ci sono diversi tipi di doppiaggio, per esempio qui siamo a Trieste e, nella scuola dell’est Europa, il doppiaggio è una specie di voce off, cioè una voce che sta sopra il parlato. Pensi che il doppiaggio sia destinato a scomparire, magari con l’aumento delle persone in grado di comprendere una seconda lingua, tipicamente l’inglese, oppure pensi che avrà ancora senso, visto che resiste in Italia anche se sta scomparendo in tanti altri paesi?

EA: Non credo che stia scomparendo in tanti altri paesi. In Italia è sempre in ascesa per una semplice ragione economica. Infatti, il doppiaggio è più business, è più un’industria. Un film sottotitolato non viene visto abbastanza quanto un film in presa diretta. E, comunque, nessun italiano che è cresciuto in Italia potrà avere una cognizione o un capire una lingua quanto un madre lingua, quindi il doppiaggio è inevitabile soprattutto per certi generi cinematografici. Lo stesso Hitchcock preferiva che i suoi film fossero ben doppiati piuttosto che sottotitolati perché, ovviamente, faceva un cinema molto d’immagine, col quale mal si accorda il sottotitolo, che spesso ti costringe a leggere la sceneggiatura del film e solo a intravedere il film dietro. Anzi, la sceneggiatura riassunta, perché il sottotitolo è riassuntivo. Non penso che scomparirà il doppiaggio, a meno che non scompaiano le lingue, allora sì.

JM: Dopo il film Doppio, hai qualche progetto del quale puoi parlare?

Eric AlexanderEA: Certo, ho tre progetti diversi. Uno inerente a Doppio perché c’è l’interesse di un piccolo pool di produttori a creare una serialità televisiva dal progetto film, e ci stiamo proponendo alle reti per vedere un po’ cosa ne viene fuori.
Il secondo progetto è una storia vera su cui sto lavorando, e posso parlare poco di questa perché c’è anche un discorso di diritti sulla sceneggiatura. Si tratta di un soggetto per un film di finzione che riprende una storia autobiografica. Però, in questo iter, si sta tentando di fare un documentario che porti al film, nel senso che lo studio, l’analisi e la ricerca per questo film, potrebbero già essere un documentario, quindi stiamo lavorando su quello e anche su tempi abbastanza brevi. Anzi, ho già iniziato la ricerca, ma non le riprese.

E poi ho un grossissimo, titanico progetto in lingua inglese, però girato in Italia, a cavallo tra l’America — il Missouri dei giorni nostri — e l’oltre Po pavese del ’44, nel periodo della Repubblica Sociale. È un progetto molto grosso, in costume, che ha bisogno di tanti soldi. Una cosa certa è che non potrò più auto-produrmi e quindi è importante che ci sia qualcuno dietro che abbia anche una visione un po’ distaccata del progetto. Doppio è una storia mia, autobiografica: l’ho scritto, l’ho diretto, ho interpretato il protagonista, ho cantato una canzone. Il montaggio è stato seguito da Pier Paolo De Fina, però l’ho ultimato io stesso, ho seguito tutto il suono, il cinque più uno… E così è veramente troppo. Il cinema è un gioco di squadra, se diventa una monarchia non ha molto senso.

JM: Questo tuo progetto mi dà l’opportunità di farti l’ultima domanda. Quali sono i problemi che hai incontrato e che sai esistere nel mondo della cinematografia? Quali quelli che vorresti risolti per dar più spazio e più credibilità al cinema, e magari più importanza all’Italia?

EA: Qua ci vorrebbe la ricetta magica che forse non esiste. Quello che penso è che, tutto sommato, si faccia poco sforzo per creare un’industria, per volere un’industria. In questo gli americani ci insegnano tanto. Noi siamo molto più piccoli, quindi dobbiamo proporzionare le nostre risorse per tutto, però io credo molto nel fatto che tutto nasca dalla sceneggiatura. Penso che oggi giorno non si possa delegare dei neo laureati o a dei critici cinematografici — e sappiamo i pallini che danno ai film che funzionano e ai film che non funzionano al botteghino — la scelta di una sceneggiatura per una casa di produzione ad esempio. Una buona sceneggiatura può essere oro.

Eric Alexander

È difficilissimo leggere sceneggiature, addirittura lo è per molti registi che non sono in grado di farlo. Però, oggi giorno abbiamo amche tanti maestri come Robert McKay, Sid Field, John Truby, Linda Seger, Michael Hauge. Non si può scrivere di cinema senza aver studiato questi. Poi si può essere in pieno disaccordo, buttare via — anzi, ben venga questo — però l’analisi di una struttura e di quello che ha sempre funzionato nei vari generi cinematografici va fatta. Noi italiani, invece, questo passaggio lo saltiamo e, secondo me, è un’errore che si ripercuote economicamente. Perché, un bellissimo romanzo è bellissimo a leggerlo ma non è necessariamente un buone testo cinematografico. Ci sono sceneggiature che sono bellissime da leggere ma impossibili da realizzare, non hanno una dimensione filmica… La stessa cosa succede anche a teatro: ci sono dei registi — e non faccio nomi — eccezionali, con delle doti fantastiche, che mettono in scena magari determinati romanzi. Non ha senso, il pubblico non li apprezza perché non è quello il loro linguaggio.

JM: Non credi che l’offerta cinematografica in Italia possa essere, supponiamo come ipotesi, superiore alla domanda? Cioè, che la richiesta di cinema da parte degli spettatori sia inferiore rispetto all’offerta di cinema? Non credi che il cinema italiano possa essere in una situazione di questo tipo visto l’enorme quantitativo di film che vengono prodotti e non distribuiti? Anche a causa della qualità di certi film che sono distribuiti, che non è una gran qualità. Si può considerare questo tipo di critica, diciamo, da parte dello spettatore piuttosto che da parte dell’operatore che si lamenta per una scarsità di mezzi, di produzione, di distribuzione?

Eric AlexanderEA: Personalmente credo che di cinema non ce ne sia mai troppo. Il problema è che ci sono troppo pochi bei film, e troppo poche case di distribuzione, e produttori in primis, in grado di riconoscere quali di questi film possono avere un potenziale di pubblico, e quindi arrivare a toccare le pance della gente. Non parlo solo dei Vanzina perché è giustissimo che esistano e che lavorino in quel settore. Grazie a dio ci sono i Vanzina, perché è auspicabile che parte di quei soldi possano andare verso altri generi cinematografici.

JM: Come il progetto di Cattleya, che produce un film da botteghino e un film, invece, di qualità…

EA: Esatto, Cattleya ha una visione industriale del cinema, o almeno vuole averla. Però pochissimi ce l’hanno. E comunque non c’è neanche un tentativo, una ricerca di mettere delle persone preposte alla selezione della sceneggiatura con gli strumenti per farlo. Non puoi mettere un critico cinematografico a scegliere, come non puoi mettere un neo laureato, pur con la laurea ad indirizzo cinematografico, perché non è preparato per farlo.

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