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Fumetto

Il fumetto è vivo

...ma lotta insieme a noi?

Copertina dell'eternautaRicordate gli editoriali e la pagina della posta di Comic Art e L’Eternauta da metà anni ’90 in poi? Era come leggere ogni volta quello che in gergo giornalistico viene chiamato “coccodrillo”: un necrologio realizzato in anticipo e tenuto nel cassetto nell’attesa che il soggetto tiri le cuoia. E il soggetto in questione era il fumetto, di cui non ci veniva descritta l’agonia ma lo si dava praticamente per certo prossimo all’estinzione. All’epoca anche l’onda lunga del “nuovo miracolo italiano” targato Bonelli si stava esaurendo. I bonellidi autoinvitatisi al fastoso banchetto stavano per manifestare i sintomi di una brutta indigestione e di lì a pochissimo i più ci avrebbero pure fatto il bagno con questa indigestione, con la conseguenza naturale di rimanerci secchi.

Parlare di una prossima morte del fumetto, insomma, sembrava realistico. Soprattutto di quello d’autore. Chissà quant’è che non sentite questa definizione. Quelli che la aborrivano e consideravano chi la usava un nazista stupratore pedofilo (gli stessi che poi rivendicavano pari dignità del fumetto rispetto alle altre arti, e che evidentemente non avevano mai sentito parlare di “cinema d’autore”, “musica d’autore” e via di seguito) sono riusciti nel loro intento e da tempo questa terminologia è stata sostituita dalla più trendy “graphic novel”[1]. Così adesso ci troviamo con un sacco di ciarpame che facendosi vanto dell’appartenenza al “genere” graphic novel attua la sua politica di penetrazione del mercato (anche nelle edicole!). Ben ci sta.

Ma torniamo alla morte del fumetto. Io nell’ultimo scorcio del XX° secolo me la ridevo e aspettavo con ansia la dipartita del fumetto. Finalmente gli incompetenti che traducevano male e stampavano peggio i “miei” Breccia, Zanotto e compagnia (spesso anche censurandoli) si sarebbero estinti in favore di quelli che ne avrebbero curato l’edizione per pochissimi intimi. Con il clima che si respirava mi sembrava abbastanza realistica l’idea che mi sarei gustato a breve dei volumi cartonati rilegati a filo refe con carta patinata da 250 grammi in rigorosa scala 1:1 con le tavole originali, con un lettering creato all’uopo dagli ultimi amanuensi, senza nessun fuori registro e magari con le pagine serigrafate. Il fatto che poi sarebbe stato oppportuno distruggere ogni lastra e uccidere per sicurezza il tipografo (o al limite anche solo accecarlo) mi sembrava un prezzo accettabile da pagare per godere finalmente di tanta qualità.

A completare il tutto ogni pagina avrebbe dovuto essere numerata e firmata dall’autore e, qualora l’autore fosse stato ancora in vita, non sarebbe stato male avere in allegato una sua reliquia tangibile da venerare (una ciocca di capelli, un’unghia, parte della tovaglia su cui aveva sudato). Gli autori morti, invece, da questo punto punto di vista presentavano qualche difficoltà perché la riesumazione del cadavere e/o la cremazione coatta potevano presentare ostacoli legali e burocratici oltre che pratici. Ci avevo riflettuto seriamente e d’altra parte Mark Gruenwald l’aveva pensato, e messo in pratica, prima di me, se è vero che il tirage de tête del suo Squadron Supreme era stato stampato con inchiostro mescolato alle sue stesse ceneri. Ma figurarsi se all’epoca, con tutto il ben di dio che veniva pubblicato, avevo tempo o voglia di interessarmi di supereroi e della loro mitologia.

Tavola di Moebius

Una tiratura non superiore alle cifre sarebbero rispettivamente i 25 e i 50 euro di oggi: poca roba, forse, ma all’epoca erano quattrini. Come è andata poi a finire credo che se lo ricordino tutti. Quando le riviste d’autore cessarono le pubblicazioni i fumetti che ne costituivano l’ossatura furono dirottati sui volumi cartonati. Non proprio quelli che auspicavo io ma, insomma, il settore sopravviveva. Vabbè, la nicchia sopravviveva. E forse anche con un compromesso migliore rispetto a quanto temevo/speravo. Magari la stampa non era sempre il massimo, magari il primo volume di una serie di 12 rimaneva l’unico pubblicato in Italia, magari di un’altra serie di 12 volumi l’editore partiva con lo stampare il settimo (?!), sicuramente il lettering al computer era peggiore di quello fatto mano ma almeno i prezzi erano moderatamente accessibili.
Anche l’appassionato più pessimista poteva illudersi che ci fosse qualche speranza. Ma, appunto, era solo un’illusione. Intanto, però, il fumetto non era morto.

La teoria della mummia

Fine del flashback, arriviamo ad oggi. O meglio, al 2003. Repubblica dà alle stampe l’ormai mitica serie dei Classici del Fumetto ottenendo un successo impensabile (tanto che la collana dai 30 titoli previsti arriva a contarne 50) e aprendo così la strada a tantissime iniziative analoghe in cui si avventurano pressoché tutti i gruppi editoriali italiani. Un fenomeno che dura tuttora pur tra qualche isolata polemica sul mancato rispetto dell’integrità di alcune opere e sulla scelta canzonatoria di offrire ad un prezzo molto più basso fumetti che precedentemente avevano visto la luce su volumi più costosi, e in alcune occasioni anche meno curati.

Se dovessimo credere a quanto dicono gli editori dei fumetti “classicizzati” queste iniziative non servono a nulla dal punto di vista delle vendite dei rispettivi cataloghi. Certo, agli editori non bisogna mai credere e una prova è il fatto che solo la Panini, direttamente coinvolta nell’esperimento di Repubblica, ha dichiarato di avere tratto benefici in termini di vendite da questa operazione mentre gli altri editori hanno ammesso che tutt’al più una piccola spinta c’è stata sul brevissimo periodo. Insomma, le classiche strategie di pubbliche relazioni volte a riaffermare il proprio marchio o a screditare quello della concorrenza. In Italia non ci si indigna se un editore non paga un autore figuriamoci se lo facciamo per questi (legittimi) stratagemmi.

Ma il fatto che un lettore, una volta letto il volume dedicato a Dylan Dog, L’Uomo Ragno [2], o anche The Phantom, non si precipiti a collezionarne la serie (o almeno a cercarne altri) pare sia assodato. Quanti lettori avranno avuto i Classici di maggior successo? 50.000, 30.000, anche “solo” 20.000? Be’, ce ne fosse stato uno di questi benedetti lettori che sia diventato un “abituale”!

La situazione sembra alquanto paradossale ma a ben guardare non è l’unico paradosso fumettistico italiano. Se il fumetto è un settore in perenne crisi in un paese, l’Italia, in perenne crisi, mi spiegate come fanno a sopravvivere due testate come Fumo di China e Scuola di Fumetto che fumetti nemmeno ne pubblicano[3] ma semplicemente ne parlano? D’accordo, Fumo di China si basa su collaborazioni volontarie ma comunque la sopravvivenza di una rivista del genere con 36 pagine di grande formato (e da un po’ anche a colori) per soli 3 euro è quasi un miracolo: significa che a qualcuno i fumetti interessano sul serio!

Copertina di Scuola di FumettoE forse per Scuola di Fumetto varranno quei meccanismi di autopromozione che caratterizzano, ad esempio, le pubblicazioni di riviste o cataloghi contenenti concorsi di grafica et similia per cui lo “zoccolo duro” degli acquirenti viene già garantito dai partecipanti, ma qui parliamo di una proposta che costa circa 20 (se non 50) volte di meno rispetto all’esempio che ho preso come riferimento.
Insomma, lo so che sembra strano ma queste due realtà vendono. Probabilmente solo quel tanto per sopravvivere ma mentre riviste o collane di volumi di fumetti scompaiono in 6 mesi, queste riviste sui fumetti continuano la loro marcia. E le stranezze del panorama italiano non finiscono qui.

Sapete qual è il titolo più venduto nelle fumetterie italiane? Anteprima. Sì, è vero, costa solo 1 euro. Sì, è vero, il rilancio del 2006 è stato efficace. Sì, è vero, le fumetterie ne regalano alcune copie e questo sicuramente falsa il dato. Sì, è vero, Anteprima vive di inserzioni e non di copie vendute. Sì, è vero, è uno strumento di comunicazione e non presenta fumetti in senso stretto se non come (appunto) anteprime. Ciò non toglie che può contare su un numero di lettori che farebbe felice parecchie case editrici nostrane.

A parte i fortunati che possono permettersi uno strappo al budget mensile e per i quali Anteprima rappresenta effettivamente un catalogo da cui scegliere prodotti, la fetta maggiore di lettori è costituita da quelli che traggono un altro beneficio dalla lettura, ovvero l’informazione. È un po’ improbabile che gli appassionati di manga e supereroi si interessino d’improvviso alle proposte delle Edizioni Di o di Alessandro Editore (che oltretutto si confondono nel mare magnum di quelle 20 pagine centrali poco illustrate e ancora meno colorate), ma almeno hanno una testimonianza del fatto che esistono. E spesso è così anche per chi quei fumetti non “sparati” nelle prime pagine già li conosce e apprezza: una buona parte di queste proposte, infatti, è rappresentata da ristampe. Per il lettore che vent’anni fa leggeva Corto Maltese o L’Eternauta è un po’ come sfogliare un album dei ricordi. O far visita ai parenti trapassati al cimitero.

Questi tre fenomeni sono riconducibili ad un unico atteggiamento di base: ci piace riappropriarci di qualcosa che conoscevamo e apprezzavamo (o ci avviciniamo per curiosità a un titolo di cui abbiamo tanto sentito parlare — I Classici del Fumetto di Repubblica), vogliamo conoscere i retroscena del mondo del fumetto (Fumo di China, Scuola di Fumetto), ci informiamo su “cosa esce” (Anteprima) ma, cazzo, di comprare fumetti propriamente detti non se ne parla!

E badate che l’uso della prima persona plurale ha una valenza puramente retorica ed espositiva e, visto che può risultare fuorviante, tanto vale specificare chiaramente che in realtà “noi” che i fumetti li compriamo ancora (ogni tanto, almeno…) siamo i discendenti di quella razza che Luigi Bernardi a seguito di un sondaggio su Orient Express riteneva troppo assurda per esistere, cioè gli appassionati lettori che comprano pressoché tutto e che, se non ne fanno già parte, ambirebbero a entrare nel sistema produttivo del fumetto. E invece esistiamo eccome, e siamo rimasti gli unici a far vendere copie agli editori. Il lettore occasionale non conta più nulla: è lui ormai a non esistere praticamente più.

Copertina di Comic ArtEppure il fumetto, come dicevamo prima, non è morto; anzi, mai come in questi ultimi anni sta dimostrando una grande vitalità. Ma per i fumetti è un altro discorso… abbandono la semantica e mi spiego, tanto sono fenomeni che sono già stati rilevati da altri. Le fucine creative che si occupano della creazione dei fumetti, oggi come ieri, vengono impiegate per creare un immaginario. Ma nel mondo globalizzato la traduzione in fumetti veri e propri di questo immaginario non è più la finalità ultima di questi procesi creativi. È questa la rivoluzione degli ultimi anni: il fumetto ormai serve da combustibile per altre industrie creative, che con il licensing costituiscono il vero motore del settore; che poi i fumetti vendano o meno non conta più nulla (o comunque conta molto, molto meno di ieri).

Non sarebbe male approfondire il discorso sulle trasposizioni in oggettistica dell’immaginario fumettistico, ma l’ambito in cui il fenomeno si manifesta con una penetrazione sociale maggiore (e che quindi si presta ad essere preso come riferimento più immediato) è senz’altro il cinema. Gli esempi si sprecano e sono sotto gli occhi di tutti, quindi non servirà aggiungere molto altro se non che l’industria cinematografica è riuscita veramente a cannibalizzare il fumetto di ogni tipo e latitudine (voglio dire, sono riusciti persino a trarre un film dall’American Splendor di Harvey Pekar).

Per spiegare quindi il titolo sibillino di questo capitolo, parliamo proprio di cinema. André Bazin aveva formulato l’ipotesi che il cinema fosse l’ultimo anello di quella catena ideale che cominciava con le pitture rupestri e passava anche, appunto, per le mummie. L’uomo è l’unico animale cosciente di dover morire e pertanto sente istintivamente la necessità di lasciare una traccia di sè, una testimonianza del fatto che è esistito.

E così si finisce per acquistare la collezione dei Classici (o equipollente) per riappropriarsi di un pezzo di infanzia o adolescenza, o tutt’al più per partecipare al tributo ad un’opera famosa di cui si è tanto sentito parlare; e si sfogliano Fumo di China, Anteprima e Scuola di Fumetto tanto per avere un segno tangibile del fatto che i fumetti esistono ancora. E questo lo fanno anche i non appassionati, che però non guardano (cioè non comprano) oltre il loro orizzonte fumettistico. Il fiore sulla tomba del nonno l’hanno già portato.

Triste, solitario y final

Se penso a quello che è successo alla grande scuola argentina mi sento come Rorschach in Watchmen. L’ultimo della sua stirpe che non si rassegna a consegnare le armi. Forse farò la sua stessa fine, chissà. Ok, il paragone è troppo magniloquente per calzare: diciamo che la situazione è più quella di Jefferson B. Pritchard nella conclusione de Le Falangi dell’Ordine Nero. E magari la sua fine l’ho già fatta e non me sono accorto.

Juan ZanzottoZanotto è morto 3 anni fa. Alberto Salinas lo ha seguito pochi mesi dopo. Nel frattempo era scomparso anche Lucho Olivera, convinto peraltro che «un crítico llamado Lorenzón, Luca Lorenzón» lo disprezzasse[4]. Enrique Breccia è ormai di casa negli Stati Uniti e comunque si vede pochissimo. Mandrafina starebbe disegnando nuovi episodi di Cayenna, qualcosa per Bonelli e l’ormai leggendaria (saranno più di dieci anni che ci lavora!) Carnes Blancas su testi di Trillo. Lo stesso Trillo sembra sia ancora attivissimo ma su progetti per l’infanzia che in effetti abbiamo intravisto anche in Italia ma che pare siano solo la proverbiale punta dell’iceberg (iceberg che sarebbe più pingue se la Marvel non gli avesse sottratto le matite di Juan Bobillo). Altuna è sparito. Garcia Seijas ha disegnato un numero di Julia e porta avanti con una flemma invidiabile un Texone. Alcatena sembra riservare a Lanciostory e Skorpio solo i ritagli di tempo. Slavich scrive ormai da anni solo per la televisione e Mazzitelli chissà se scrive ancora. Con 100 Bullets Risso è diventato una star richiestissima negli Stati Uniti conteso tra DC e Marvel. Meglia ha fatto un’incursione in Francia e poi più nulla. Muñoz può permettersi di rarefare i propri lavori ma con Charyn al posto di Sampayo non è la stessa cosa. Gimenez (almeno lui!) continua a produrre opere coerenti con la sua storia e la sua professionalità ma con i placidi ritmi del mercato francese.

La scuola argentina sta morendo. E non è solo una questione di inevitabile avvicendamento generazionale, cui purtroppo in questo caso manca l’anello successivo, i giovani che dovrebbe raccogliere il testimone. È proprio un certo modo di fare e intendere il fumetto che sta sparendo, anzi probabilmente non esiste già più. L’ultimo rappresentante della “linea latina” ad essere emerso è stato Carlos Gomez, che comunque lavorava già da un sacco di tempo, avendo esordito diciassettenne come assistente di Victor Hugo Arias, con cui venne messo in contatto dal nipote, suo compagno di scuola[5]. Rimarrebbe da includere forse anche Taborda tra i “nuovi” argentini ma se non l’ho fatto è per ragioni anagrafiche (tranquilli, ci arrivo dopo) e perché in Taborda non sono ravvisabili tutte le caratteristiche della scuola argentina.

Quali sono dunque queste caratteristiche delle historietas, lo specifico che differenzia la scuola argentina dalle altre correnti e scuole mondiali?
Il fumetto, al pari di pittura e illustrazione, opera una mediazione tra il soggetto raffigurato e il fruitore dell’opera veicolata tramite le competenze e i mezzi tecnici dell’autore. Il fatto che nel fumetto la riproduzione debba avvenire sistematicamente e con maggiore frequenza porta inevitabilmente all’instaurarsi di codici rappresentativi fissi dettati più dalla necessità di velocizzare il lavoro (o di inserirsi in un dato filone) piuttosto che da una volontà precisa e consapevole di sviluppare uno stile personale. Prendiamo ad esempio la classica mano di Magnus vista di lato e con l’indice alzato: una volta che si è stabilito che le mani in quella posizione “si fanno così” il lavoro procede molto più speditamente. Nella storia del fumetto non sono mancati i disegnatori che hanno voluto e potuto applicarsi per una rappresentazione il più possibile realistica limitando gli interventi interpretativi, ma sono stati una tale minoranza da non avere influito minimamente nella storia del fumetto se non come curiosità (penso a Luis Garcia e a Gal, ma quest’ultimo propendeva già di più per l’interpretazione).

Sono quindi tutti gli accorgimenti e le soluzioni che un disegnatore ha adottato per dare la sua interpretazione della realtà a costituirne lo stile. È una ovvietà, certo, ma è proprio così. Logicamente adesso sto parlando solo per quel che riguarda i fumettisti di stampo realistico e non per quelli umoristici (anche se si potrebbe fare un discorso analogo) o di matrice astratta, impressionista, espressionista o quant’altro.

Horacio Altuna

Lo “stile”, dicevamo. Se prendete un Lanciostory del, mettiamo, 1980 e lo paragonate con gli stessi prodotti contemporanei usciti in Italia ma di scuola italiana, nordamericana e francese (sia su rivista che su albo singolo) noterete che laddove gli altri fumetti esprimono dichiaratamente la base di riferimento da cui hanno tratto ispirazione, per gli argentini non è così. Ognuno dei grandi maestri argentini fa storia a sè. E anche ognuno di quelli che poi maestro non lo è diventato, se è per questo. Non c’è un D’Antonio, un Romita sr. o un Giraud a costituire la base di partenza per il loro mestiere di fumettisti. Altuna, Del Castillo, Mandrafina, Zanotto, Breccia, Garcia Seijas, Salinas partono dalla visione della realtà a cui si sovrappone la loro visione della realtà arrivando a sviluppare una personalità ben definita senza perdere leggibilità. E costituendo spesso a loro volta oggetto di ispirazione altrui, che poi si svilupperà ancora una volta autonomamente.

È questa la cifra caratteristica della scuola argentina. La fisionomia, l’anatomia, la recitazione, le scenografie sono perfettamente riconoscibili in quanto tali ma lo è anche lo stile di ogni singolo autore. Non ci sono infiniti cloni di Jim Lee o Jacques Martin. E anche quelli che ci sono stati hanno poi preso una loro strada personale. All’inizio sia Balbi che Gil (due disegantori oggi dimenticati) imitavano Enrique Breccia e, dalla testimonianza diretta dei fortunati studenti che la frequentarono, alla Escuela Panamericana de Arte vigevano due tendenze: la Prattiana e la Brecciana, cosa che non ha impedito a quella fucina di talenti di generare personalità molto diverse tra loro, come ad esempio Zanotto e Durañona.

Tavole di Mandrafina

Lo so che può sembrare un discorso partigiano e che calcando la mano si può applicare questo schema interpretativo a qualsiasi disegnatore che non faccia parte di una catena di montaggio, eppure se andate a guardare ogni singolo elemento delle tavole degli argentini noterete che anche le maniglie delle porte disegnate da Mandrafina hanno una loro personalità, che una nuvola disegnata da Enrique Breccia è inevitabilmente brecciana e così via. E non imputo la causa di tanta qualità ad una supposta predisposizione genetica degli argentini. O meglio, c’è senz’altro un fattore legato alle doti personali e all’importante esempio dei maestri precedenti, ma al pari degli scienziati indiani (che i poveri di spirito vorrebbero dotati di un patrimonio genetico superiore che li spinge all’eccellenza nei campi della fisica e dell’ingegneria!) ciò che più ha contribuito allo sviluppo della scuola argentina è stato semplicemente il supporto economico e morale di chi l’ha seguita. Se alla fine degli anni ’50 lo sviluppo economico dell’Argentina ha consentito a tante pesonalità di emergere e di crescere è stato poi il mercato internazionale in cui si erano affermati tanti autori a determinarne la nascita di nuovi. Oggi non è più così.

Solano Lopez, Garcia Duran, Angel Fernandez, Falugi e Pedrazzini tengono ancora duro (pur tra esiti altalenanti e in alcuni casi tendenti al basso) ma questi ultimi 10/15 anni hanno visto emergere una sola personalità che possa vantare ancora le caratteristiche della scuola argentina: Carlos Gomez. Parlo ovviamente di età “professionale” e non semplicemente anagrafica visto che il percorso artistico di un disegnatore verso la maturità poteva essere un po’ tortuoso fino a qualche anno fa. Prima ci si facevano le ossa nello studio di un professionista affermato (Taborda presso Medrano/Martinez e Gomez da Arias e poi da Fernandez[6]) e appena possibile si coglieva l’occasione di esordire da soli, cosa che per Taborda avvenne prima che per Gomez e che gli ha permesso di dedicarsi ad affinare uno stile talmente personale e stilizzato da arrivare negli ultimi lavori a usare addirittura dei model sheet delle figure umane cambiando solo pochi dettagli, cosa semplicemente impensabile per un disegnatore come Garcia Seijas[7]. Visto che Gomez ha esordito da solo nei primi anni ’90 ma è maturato artisticamente solo a cavallo del millennio, credo si possa cosiderarlo più giovane in tal senso pur essendo quasi coetaneo di Taborda (di cui anzi è più vecchio di un anno): quest’ultimo si era visto pubblicare già nel 1995 Il Pellegrino, opera che ne sanciva definitivamente lo statuto di autore affermato e autonomo, con uno stile ormai definito.

Spaghetti brothersCapristo, Domingues e Meglia non sono della partita avendo aderito sin dall’esordio (Capristo) o dopo anni di pratica come assistenti di Oswal (Domingues e Meglia) ad uno stile cartoonesco preconfezionato che cancella con un colpo di spugna un secolo di storia delle historietas.
… E potrei continuare a dare la caccia agli argentini ancora in attività, oppure parlare di quelli che sin dagli esordi lavorano direttamente per il mercato nordamericano, o ancora a dissettare sulle raccapriccianti esibizioni di un Goiriz o di un Meriggi (da me ritenuto fino a poco fa persino più bravo di Alcatena!), ma è arrivato il momento di spostare l’attenzione su un altro fenomeno collegato alla lenta decimazione della scuola argentina. Fenomeno che si può riassumere con una semplice domanda, e che farà da stura a un altro vaso di Pandora; con cosa riempie oggi l’Eura Lanciostory e Skorpio?

Il progetto, dichiarato qualche anno fa, di realizzare dei contenitori che fossero per un terzo argentini, per un terzo francobelgi e per un terzo italiani è ancora ben lontano dal realizzarsi compiutamente. E forse ormai non c’è più nemmeno l’interesse a realizzarlo. Dopo il successo dei monografici di Dago e Martin Hel, l’Eura ha tentato la carta di un bonellide di produzione italiana. John Doe non è stato il Pecos Bill del terzo millennio, non ha avuto cioè un successo di proporzioni tali da tenere testa agli albi della Sergio Bonelli Editore, ma ha rappresentato un caso esemplare nel panorama nostrano. Oltre ad essere stata l’occasione per fare esordire parecchi giovani disegnatori, cosa per la quale dovrebbe essere dedicato un monumento a Bartoli e Recchioni, e ovviamente anche all’Eura che li ha foraggiati.

John DoeJohn Doe non è stato il primo albo 16×21 di 96 pagine extra-Bonelli a tentare la sorte nelle edicole (l’esempio più riuscito in tal senso rimarrà probabilmente il Lazarus Ledd della Star Comics, anche se andrebbe valutato il contesto ben diverso dei quasi 15 anni che separano una testata dall’altra) ma la sua forza risiede nella profonda autorialità che lo pervade. Mai come in questo caso l’identificazione tra personaggio e autore(i) è così stretta. Eppure vende. Credo che questo abbia portato l’Eura a riconsiderare la sua produzione italiana. Con Detective Dante prima e con Unità Speciale adesso, l’Eura sta cercando nuovi sbocchi e ormai Lanciostory e Skorpio sono tornate ad essere quello che hanno rappresentato per molti autori negli anni ’70 e ’80: delle “palestre” in cui farsi le ossa per passare alla serie A, sia essa rappresentata da Bonelli, dalla DC/Vertigo, da un qualunque contatto col mercato francobelga o dalla promozione “interna” a uno dei mensili monografici dell’Eura. Perché in questi tempi di precariato selvaggio avere una consegna per 96 pagine è una manna rispetto a mendicare 12 misere tavole, un po’ come avere un contratto annuale di lavoro presso una banca piuttosto che una sostituzione maternità.

E anche per l’Eura immagino sia più interessante investire in un disegnatore che si occupi dei monografici, suscettibili di essere poi rivenduti come raccolte e comunque con un tempo di esposizione quadruplo rispetto ad un settimanale, piuttosto che pagare la prima stampa di tavole che nascono e muoiono su Lanciostory e Skorpio. Per questo prima accennavo al fatto che l’interesse di occupare il 33% di spazio sui settimanali possa ormai essere relativo, sia per gli autori che per l’editore, e dettato comunque da ragioni diverse rispetto all’affermazione professionale (che non sia appunto indirizzata a mettersi in luce per passare ai monografici).
E visto che siamo entrati in tema di precariato…

Mi(ni)serie italiane

Copertina DemianUna cosa che ho sentito ripetere costantemente dagli addetti ai lavori nelle fiere di fumetto dalla seconda metà degli anni ’90 in poi è che gli editori italiani dovevano andare molto cauti nell’uscire con un nuovo titolo perché non esisteva, come in America, il formato della miniserie che facesse da apripista alle nuove collane tastando il gradimento del pubblico. Ogni nuovo progetto nasceva, quindi, da un’attenta analisi delle sue possibilità di sopravvivenza (o dopo aver trovato uno schema o un personaggio da copiare…) e la sua vita editoriale veniva intesa come sperabilmente infinita[8].

Bene, oggigiorno le miniserie sono una realtà consolidata anche in Italia ma abbiamo visto a cosa servono: all’intrattenimento mordi-e-fuggi, allo sfruttamento della novità e ad occupare disegnatori meritevoli in attesa di trovare loro una destinazione più coerente col loro stile. Non si tratta più di porre le basi per costruire qualcosa. Quella delle miniserie è stata sì la grande novità del panorama italiano (certo, non sono nato ieri, so che Bonelli aveva fatto uscire Bronco e Bella, I Protagonisti e gli speciali di Cico, ma qui parliamo di prodotti pensati con la medesima progettualità ben definita) ma mette impietosamente a nudo il livello di attenzione e di interesse del pubblico attuale, abituato a ritmi più compressi dal cinema, dalla tv e anche dai fumetti di altre nazionalità e non più disponibile a “legarsi” ad una storia (o meglio ad un susseguirsi di storie con lo stesso protagonista) potenzialmente infinita.

Un’interessante e approfondita analisi del fenomeno visto dall’interno la troviamo qui, resta da capire però quale sia l’obiettivo, economico e di immagine, che le case editrici si sono prefissate di ottenere con questo tipo di prodotto. Ho parlato poco sopra di “intrattenimento mordi-e-fuggi” intendendo con questa definizione la volontà di monetizzare il più possibile sfruttando la curiosità del pubblico per la novità. Ma un altro grande vantaggio offerto dalla formula delle miniserie è la durata predefinita che assicura al lettore un suo coinvolgimento economico “a termine”. Non solo. Una miniserie permette qualcosa di irrealizzabile con la vecchia struttura eterna, ovvero la possibilità di eliminare comprimari (o addirittura potagonisti) con assoluta libertà.

A questo punto, però, viene da chiedersi (e gli editori se lo chiederanno fino a perderci il sonno) quanto influisca per il successo della miniserie il semplice fattore novità e quanto influiscano invece altri fattori. Perché quello della miniserie è virtualmente un ottimo meccanismo per produrre flussi di cassa: tra lettore ed editore si instaura una sorta di “patto” per cui alla fedeltà del primo corrispondono gli sforzi del secondo di offrire una storia compiuta e di non abbandonarlo a metà strada quali che siano gli esiti commerciali del fumetto.

Copertina di Detective DantePenso soprattutto a Detective Dante: perché una miniserie non dovrebbe avere successo? Chiaramente la mia è solo una domanda retorica e non pretendo di trovare risposte che i responsabili di marketing cercano disperatamente… È probabile però che molto (secondo me quasi tutto) si giochi nelle fasi iniziali dell’uscita di una miniserie, anzi addirittura ancora prima, quando viene pubblicizzata e presentata alle fiere e nelle riviste di settore. Basta che l’ambientazione, i protagonisti o gli autori coinvolti risultino congeniali al pubblico perché questo si impegni nell’acquisto. La prima impressione è fondamentale, ma poi il pubblico bisogna essere in grado di tenerselo. E in tal senso assistiamo ad un’altra importantissima evoluzione del fumetto popolare italiano.

Ormai le testate potrebbero anche smettere di essere intitolate al protagonista (anzi, scommettiamo che tra un po’ sarà così?) perché ciò che conta è la storia, la tensione verso un fine ultimo che viene a costruirsi di numero in numero. Grazie alle miniserie e alla loro struttura “a scadenza”, oggi come oggi, possiamo anche nutrire dei dubbi sulla sopravvivenza dei protagonisti (vedi in particolare Volto Nascosto e Detective Dante): si può imbastire un’intera serie su un mistero o comunque una situazione su cui fare luce (direi un po’ tutte ma in particolar modo Nemrod), si possono addirittura articolare delle micro-sequenze all’interno della miniserie stessa (Nemrod, Detective Dante, Khor se fosse durato di più), si possono prendere stereotipi e svilupparli in modo divertito come non si potrebbe con una serie “eterna” (Brad Barron e Demian su tutti). Ma al contempo si possono anche sfruttare ambientazioni e contesti assolutamente inediti nel fumetto italiano o sufficientemente originali da pensare che, come base per una serie regolare, sarebbero stati insuccessi (Volto Nascosto e Cornelio, anche se quest’ultimo ha dalla sua il fondamentale viatico della fama del nume tutelare Carlo Lucarelli).

Copertina Brad BarronConsiderato che nuove miniserie già si intravedono all’orizzonte e che di alcune sono addirittura stati realizzati dei seguiti (Brad Barron con lo speciale e Nemrod con una nuova miniserie), è chiaro che la formula funziona. Non riesco ancora a spiegarmi lo scarso successo di Detective Dante, ma a questo punto credo che il flop della seminale Formula 4 [9] fosse dovuto non tanto al suo “precorrere i tempi” (come si dice impietosamente in questi casi) quanto al non aver compreso le potenzialità che il formato della miniserie offre. Tutto sommato Poe e Leo Morgan non facevano altro che riprendere ed esasperare i soliti clichè, anche se, a mio avviso, la seconda era nettamente superiore alla prima, senza approfittare delle possibilità che abbiamo visto sopra, come ad esempio giocare con le aspettative di vita del protagonista o ideare un contesto originale (Rascolinicov era invece parecchio “folle” ma dato l’insuccesso di Formula 4 venne dirottato su Skorpio e non sapremo mai quali avrebbero potuto essere i suoi esiti come monografico).

Quale che sia la vera scintilla germinale delle miniserie (mera analisi di mercato? Ispirazione alle serie programmaticamente “chiuse” come il Sandman di Gaiman come sostengono alcuni? O ispirazione alla struttura degli onnipresenti manga come sotengono altri?) a questo punto non sembra più che si tratti di un semplice tentativo o di una moda passeggera. Non siamo più ai tempi di Napoleone, quando il successo della miniserie si traduceva nella sua promozione a serie regolare: Brad Barron, Demian e gli altri nascono con un futuro già scritto anche se questo non impedisce ovviamente agli editori di resuscitarli una tantum qualora abbiano le vendite dalla loro parte.

E così molti autori possono continuare a lavorare, i giovani hanno una possibilità di esordire ed al pubblico italiano viene garantito il solito vantaggiosissimo rapporto qualità/prezzo (le 96 pagine pagine a 6 vignette nostrane sono molto più impegnative della 24 americane o di quelle ipertrofiche giapponesi) coniugato però, stavolta, a svolte narrative impensabili fino a poco tempo fa.
Viva la miniserie, quindi? Ma certo, viva la miniserie. Simbolo e sintomo anch’essa di questa nostra società alla deriva.

Postilla del 19 settembre 2008

Carlos MegliaQuando dieci anni fa scrissi il mio primo pezzo per Fucine Mute mi trovai a lamentarmi con Massimiliano Spanu del fatto che avrei dovuto continuare a riscriverlo anche quando era già stato pubblicato perché nel frattempo erano intervenute delle novità. Lui mi rispose che è la maledizione della carta stampata (anche se siamo su internet): appena finisci di scrivere qualcosa è già vecchia. Durante la realizzazione di questo Il Fumetto è vivo è venuto a mancare, a soli cinquant’anni, Carlos Meglia. Ho preferito mantenere inalterato il testo per potere ricordare adeguatamente qui un altro pezzo della grande scuola argentina che non esiste più.

Note


[1] Quando Will Eisner coniò il termine per il suo Contratto con Dio secondo me voleva prenderci in giro: difatti Contratto con Dio non è un romanzo ma una raccolta di racconti. Fa niente, tanto questa è una di quelle opere che si citano senza averle necessariamente lette.
[2] Pardon, oggi si dice Spider-Man. Aldilà di ogni altra considerazione sul cambio del nome credo che un grave danno sia l’attuale impossibilità di sfornare parodie porno come la deliziosa Donna Ragna, Spider-Woman c’è già…
[3] O meglio, ne pubblicano, ma l’occasionale (Fumo di China) o regolare (Scuola di Fumetto) presenza di fumetti non è certo il “core business” di queste testate, non è quello su cui puntano per vendere
[4] www.rebrote.com/spanish/reporte.htm
[5] Dal fondamentale Historia de la Historieta di Trillo e Saccomanno (ProGlo Edizioni, 2007 per la tanto sospirata edizione italiana) evinciamo che Oesterheld, il quale non ha mai amato i fumetti, ha iniziato la sua carriera di scrittore tramite un compagno di classe figlio di un editore a cui lo presentò. Così come Alan Moore riuscì ad esordire grazie ai buoni uffici di David Lloyd (cfr. postfazione al volume V for Vendetta, faccio qui riferimento a quella delle edizioni Rizzoli – Milano Libri ma credo sia reperibile pressochè in ogni ristampa). E Jean Van Hamme fu presentato alla Dupuis dal vicino di casa Dany (cfr. Bodöi n° 48). L’elenco potrebbe continuare: «Come il nipote del tuo vicino [raccomandato presso Dick Giordano, editor della DC comics, da Will Eisner], mi ero attaccato a Neal Adams portandomi sempre dietro il portfolio, e per un po’ non aveva fatto altro che ripetermi che non c’era niente da fare. Poi, un giorno, cedette e chiamò un editor alla Gold Key Comics. La parola chiave è “accesso”. L’accesso è tutto.» così Frank Miller a pag. 255 di Eisner/Miller – Conversazione sul Fumetto (Kappa Edizioni, 2005)
[6] Su internet si trovano biografie di Gomez che asseriscono che abbia lavorato come “ghost” anche per Lalia. Poiché non esistono commenti ufficiali dell’uno o dell’altro che supportino questa dichiarazione (io almeno non li ho trovati) la prendiamo ovviamente col beneficio del dubbio.
[7] A dire il vero anche Pratt raccontava che per velocizzare il lavoro su El Sargento Kirk si era costruito un timbro con la faccia del protagonista. Vabbè, appunto, lo raccontava lui…
[8] Unici casi di miniserie ante-litteram che ricordo: Hammer della Star Comics e la prima incarnazione di Mondo Naif dopo il disastro Dinamite. Ma anche in questi casi è chiaro che nelle speranze degli autori e dell’editore ci fosse la possibilità di continuare le uscite qualora avessero avuto successo: difatti Mondo Naif rinacque come trimestrale (mentre Hammer ebbe invece parecchie difficoltà a raggiungere quel minimo di conclusione preventivata).
[9] Testata mensile dell’Eura uscita nel 1994 su idea di Carlos Trillo che presentava miniserie di 4 numeri ognuna, da cui il titolo. Ne uscirono solo 8 numeri e la terza proposta, Rascolnicov, venne serializzata su Skorpio.

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