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Scrittura

Utz: il collezionismo e il regime (I)

Le tematiche di Bruce Chatwin

Principali temi nella narrativa di Bruce Chatwin

Foto di Bruce ChatwinÈ stato notato da molti che ogni nuovo libro di Chatwin costituisce una reazione a quello precedente. In particolare, la regola che l’autore pareva seguire era quella di alternare a un libro “di viaggi”, nutrito di grandi spazi e spostamenti e di ambientazioni esotiche, un romanzo europeo e “claustrofobico”[1]. Così, dopo In Patagonia e The Viceroy of Ouidah, Chatwin, anche per levarsi di dosso la poco gradita etichetta di scrittore di viaggi[2], stupì i propri lettori con la descrizione della vita di due fratelli gemelli interamente trascorsa tra le colline del Radnorshire. Nel romanzo successivo, The Songlines, l’alter ego-narratore Chatwin si muove nelle enormi distese del deserto australiano per poi tornare, con Utz, di nuovo in Europa a indagare l’esistenza, condotta in un piccolo appartamento praghese, di un eccentrico collezionista di porcellane di Meissen.

Se questa alternanza è certamente innegabile, va però subito notato come, al di là di queste continue contrapposizioni, vi sia in tutta l’opera di Chatwin una costanza nei temi letterari che caratterizza tutta la produzione dello scrittore inglese, delineandone la figura di autore. Ci riproponiamo qui di tentare una classificazione e un’interpretazione dei principali temi chatwiniani, che costituiranno la base per ogni successivo tentativo di lettura critica di Utz.

Immobilità e movimento

Il tema relativo al nomadismo rappresenta il nucleo centrale e sicuramente il più noto della narrativa chatwiniana. Dopo aver abbandonato il posto di lavoro da Sotheby’s e interrotto la propria carriera di studente di archeologia a Edinburgo, Chatwin si dedicò ad allestire una mostra sull’arte dei nomadi. Successivamente intraprese la scrittura di un libro che avrebbe dovuto trattare in maniera esaustiva e completa il tema del nomadismo attraverso lo studio di diverse popolazioni ed epoche storiche.

Il libro, un saggio storico-antropologico dal titolo L’Alternativa Nomade, non venne mai pubblicato ma le tesi dell’autore sul nomadismo, e più in generale sul movimento, attraversano tutta la sua produzione narrativa. Chatwin, infatti, non riuscendo a dare un’adeguata veste scientifica alle proprie teorie, si inventò una vera e propria metafisica del viaggio. Così, dopo dieci anni trascorsi senza scrivere altri libri (ma continuando a scrivere come giornalista del Sunday Times), pubblicò In Patagonia, un’opera in cui il movimento ha un ruolo centrale nelle tematiche e strutturale nella costruzione del libro.

È lo stesso alter-ego-narratore a intraprendere un viaggio[3] e tutta la narrazione è un susseguirsi di osservazioni e racconti che seguono l’ordine in cui si presentano ai suoi occhi o alla sua memoria. Il libro risulta dunque privo di un nucleo narrativo principale e ciò che tiene assieme i vari filoni narrativi è, apparentemente, solo il girovagare del narratore[4]. In realtà, le numerose vicende che compongono In Patagonia sono tutte riconducibili alle varie tematiche di cui si occuperà questo capitolo e, tutte o quasi, all’opposizione immobilità-movimento. Come già si diceva, è l’autore-narratore ad aver effettivamente intrapreso un viaggio ma, allo stesso modo, il capitano Charley Milward — zio dell’autore —, Butch Cassidy, Sundance Kid e gli esuli gallesi — personaggi estremamente diversi tra loro — sono accomunati dal fatto che tutti, in un modo o nell’altro, sono stati trascinati in Patagonia dall’impulso al movimento, tanto importante nelle opere di Chatwin.

Vecchia cartina Patagonia

Il movimento è costantemente opposto al suo contrario, l’immobilità, e sono proprio gli esuli gallesi a poter illuminare questo aspetto del problema. Chatwin, infatti, scopre che i gallesi, per quanto ormai non siano più in grado di parlare la loro lingua originaria, vivono sospesi in un tempo immobile, un ideale Galles dell’Ottocento, di cui cercano di riprodurre usi, riti e tradizioni come se i loro avi, diverse generazioni prima, non fossero mai partiti. Ad un originario movimento è seguita dunque una rigida immobilità, e questa è da considerarsi una tematica costante nella produzione di Chatwin. Il movimento è spesso una possibilità negata da forze che lo contrastano e forse, a ben vedere, l’unico vero nomade è Chatwin stesso, quasi a suggerire che, se esiste la possibilità di scegliere il movimento, si tratta di una scelta che può essere solo individuale.

Nel suo libro successivo, The Viceroy of Ouidah, si ritrova un’ulteriore conferma di questa tendenza nelle vicende del protagonista, Francisco Manoel da Silva che, nel libro, più volte “ricominciò i suoi vagabondaggi solitari. Convinto che ogni cosa fatta di quattro pareti fosse una tomba o una trappola, si sentiva attirato dagli spazi aperti più desolati” [5].

Vari vagabondaggi portano il protagonista fino in Africa, nel Dahomei, a fare il mercante di schiavi, attività che presto lo conduce alla ricchezza. Altrettanto presto, però, il benessere si trasforma in prigionia ed in una nuova immobilità a cui dom Francisco potrà solo sperare di sfuggire, sognando un nuovo viaggio per tornare a Bahia.

Chatwin inOn The Black Hill, il suo terzo romanzo, riprendendo il fortunato tema letterario del doppio, assegna a due gemelli identici, Lewis e Benjamin, il compito di incarnare la polarizzazione tra immobilità e movimento. Se il primo rappresenta la mobilità e lo slancio vitale (indicativa, tra le altre cose, è la sua passione per gli aerei), al secondo spetta la parte della “zavorra” che, col suo carico di paure, l’amore omosessuale latente verso il fratello e il culto feticistico verso la madre morta, impedisce non solo a se stesso ma anche al fratello di vivere la propria vita. In questa dinamica di forze, a vincere è ancora una volta la staticità: i due fratelli trascorrono interamente la loro esistenza nella fattoria “La Visione”, dove il tempo della storia pare fermarsi per lasciare spazio a quello ciclico delle stagioni e a quello, interiore, dei ricordi.

Il libro dove Chatwin rende al massimo grado esplicita la propria teoria del viaggio, della migrazione o della mobilità che dir si voglia è, com’è noto, The Songlines, un’opera concepita in maniera estremamente originale, che mescola in sé elementi del saggio e del racconto di viaggio, intervallati da interi capitoli di aforismi e annotazioni riportati in ordine sapientemente casuale.

La parte più propriamente narrativa del libro è incentrata sul viaggio del narratore, Bruce, (come sempre un alter ego di Chatwin) nel deserto australiano, accompagnato da Arkady, un attivista impegnato nella difesa dei diritti e della cultura degli aborigeni australiani. Attraverso un serrato dialogo tra i due protagonisti, e i vari incontri che questi fanno durante il loro cammino, viene descritta la cultura aborigena, o quanto meno ciò che Chatwin potè capire e scelse di raccontare di essa. L’autore, mescolando suggestioni provenienti da varie materie e soprattutto dall’antropologia e dalla paleontologia, aveva formulato una propria teoria: la vera natura dell’uomo sarebbe stata votata in origine al nomadismo e solo in un secondo tempo, dopo l’acquisizione della capacità di governare il fuoco e quindi di difendersi dai predatori naturali, sarebbero nate le prime comunità stanziali. Questa nuova condizione di stabilità territoriale, se da un lato fu garanzia di sicurezza e ricchezza, dall’altro avrebbe soffocato per sempre l’istinto migratorio dell’uomo, configurandosi come la fonte principale dell’irrequietezza umana[6].

Tramonto e uccelli in volo in Patagonia

In questo quadro può essere letto l’interesse di Chatwin verso la cultura degli aborigeni, tutta regolata da viaggi rituali che costituivano il momento culmine della spiritualità e, nel contempo, fungevano da materia di scambio sociale e da appropriazione, materiale e spirituale, del territorio. Questa cultura, tutta incentrata sul viaggio e sul movimento, era vista da Chatwin, o quanto meno dal suo alter ego narratore — difficile, qui più che altrove, non confonderli —, come la traccia di un passato che doveva essere stato comune a tutta l’umanità. Una riedizione moderna, insomma, del mito del buon selvaggio che forniva all’autore, finalmente, la giustificazione che inseguiva da anni alle sue teorie.

Certamente tali teorie non ebbero successo all’interno del mondo scientifico[7]; Chatwin non possedeva né il rigore né la preparazione necessari ad affrontare un lavoro degno di essere preso in considerazione dagli studiosi di antropologia e, d’altra parte, il fallimento del precedente esperimento editoriale sui nomadi, L’Alternativa Nomade, a tal proposito parla chiaro. Proprio in merito alla farraginosa preparazione antropologica di Chatwin, Salman Rushdie disse: “La sua tesi è folle ma in qualche strana maniera non importa, perché ha una sua verità poetica, una convalida mistica ”[8].

In un certo senso, è stato Chatwin stesso ad autorizzarci a questa lettura, con la sua insistenza nel volere che The Songlines fosse classificato come un romanzo e non come un saggio né, tanto meno, come un libro di viaggio. Sicuramente questo approccio esclusivamente letterario al testo dell’autore non è l’unico possibile per tentare una lettura di The Songlines, e più in generale del tema del movimento, ma ci appare come il più adatto anche per poter istituire confronti fra quest’opera e le altre.

Immagine di un Moleskine

Non si vuole cioè negare il fatto che Chatwin abbia inseguito per tutta la vita queste teorie e che in qualche misura vi credesse, esiste tuttavia anche una dimensione del libro che appartiene al campo della fiction, spesso trascurata dalla critica ma che consente di evidenziare elementi di continuità tra The Songlines e gli altri romanzi dell’autore.

Oggetti

Chatwin riconosceva agli oggetti un’importanza e una forza simbolica decisiva. Questo interesse è dato in primo luogo dalla preponderante dimensione visiva della sua scrittura che si traduce, ad esempio, nella descrizione degli oggetti ricercati e preziosi che Chatwin amava. Forse, però, il motivo più importante di una così ampia presenza degli oggetti risiede nel potere quasi magico che questi sembrano esercitare sugli eventi e sulle persone.
È estremamente probabile che questo tema sia stato ispirato all’autore dall’esperienza dei suoi anni alla Sotheby’s e dalla conseguente frequentazione del mondo dei collezionisti. Si sa infatti che Chatwin si allontanò dal mondo del mercato di opere d’arte disgustato dalla mancanza di scrupoli di chi vi lavorava e dalla malattia di possesso dei collezionisti. La brama di possesso e il fascino magico che gli oggetti esercitano sulle persone sono tra gli aspetti che Chatwin rappresentò più frequentemente nei suoi libri.

Un rapporto un po’ più sereno con gli oggetti sembra delinearsi nella prima opera, In Patagonia; questo romanzo inizia con la descrizione di un pezzettino di pelliccia di un presunto brontosauro (che si rivelerà poi essere un bradipo gigante), posseduto dalla nonna del narratore. Chi scrive sembra esserne ossessionato e la ricerca di questo insignificante pezzettino di pelle appare come la vera e propria causa del viaggio in Patagonia.

Anche in questo caso, dunque, ad un oggetto e al desiderio di possederlo è riservato un ruolo decisivo, tuttavia, il rapporto che si instaura tra l’individuo e l’oggetto in questione è meno tormentato che altrove e si delinea come un ricordo della fanciullezza a cui è legato un intero universo di fantasie infantili. Anche gli esuli patagonici sembrano riservare talvolta una certa importanza agli oggetti, che appaiono in certi casi come veri e propri simulacri della patria d’origine. Ad esempio, il narratore, giunto in visita ad una fattoria di scozzesi, non può non notare appena entrato in casa che “una scatola di latta di caramelle Mackintosh era stata posta con rispetto sotto la fotografia della regina” [9].

Foto ChatwinSi possono citare altri simili casi — come ad esempio il tentativo di far sopravvivere un cardo ad ogni costo perché quella pianta ricorda la patria gallese — tuttavia non è In Patagonia l’opera in cui l’autore sviluppa in modo compiuto la propria ricerca: è con The Viceroy of Ouidah che matura definitivamentela concezione chatwiniana degli oggetti.
L’antenato Francisco Manoel da Silva diventa oggetto di un vero e proprio culto per i suoi discendenti ed il suo corpo è conservato esattamente come una reliquia: a ben centodiciassette anni dalla sua morte giace ancora nel suo letto a baldacchino, sorvegliato da una statua di san Francesco e venerato dai suoi successori. La reliquia è quotidianamente accudita da Yaya Adelina, discendente di Francisco Manoel, e la stanza con la salma appare come un vero e proprio altare consacrato.

I da Silva, potendo vantare come capostipite un negriero bianco, si sentono autorizzati a chiamare negri le persone leggermente più scure di loro[10] benché abbiano perso ormai da generazioni il colore della pelle di Francisco Manoel. Il loro ritrovo annuale è un autentico rito che riafferma l’appartenenza al clan familiare.
Essere discendenti di un bianco concede ai da Silva uno status sociale superiore rispetto agli altri abitanti del Dahomey e questa differenza si direbbe quasi legittimata dal possesso delle reliquie e dall’istituzione di un vero e proprio culto nei confronti dell’antenato.

Per la prima volta in un’opera di Chatwin, con il culto delle reliquie del Viceré, ci troviamo di fronte ad un oggetto materiale a cui viene assegnato un valore particolare, quasi magico, e il cui possesso dona uno status differente a chi lo possiede. I discendenti di Francisco Manoel vivono in una dimensione astorica: mentre la radio continua a trasmettere i discorsi del presidente del Benin, un dittatore da operetta ma pur sempre pericoloso, i da Silva continuano a ripetere un rituale sempre uguale a se stesso ed ormai privo di senso.

Questa tipologia di personaggi, che sembrano vivere in una dimensione temporale differente, ha un ruolo centrale nella produzione di Chatwin. E molto spesso queste vite condotte in un presente alterato rispetto alla realtà quotidiana passano appunto attraverso il possesso di oggetti-simulacro. Anche un altro aspetto dell’interesse chatwiniano per gli oggetti viene indagato in questo libro: la molla che spinge dom Francisco a partire per Ouidah è il desiderio di possesso: “Francisco Manoel non riusciva quasi a rendersi conto di tutto quello che vedeva. Mai avrebbe pensato di poter possedere più dei suoi coltelli e di qualche finimento per cavalli decorato d’argento. Ora non c’erano più limiti alla sua sete di beni ”[11].
Ecco quindi che Francisco, abbandonato il suo povero bagaglio da nomade e comincia a vedere e a desiderare oggetti materiali. Presto per lui cominceranno i guai e abbandonata la via felice del vagabondo diventerà il ricco ma immobile, e dunque infelice, Viceré di Ouidah.

Nel libro successivo, On The Black Hill, alla morte del padre dei gemelli, Amos, ogni oggetto appartenutogli viene conservato al suo posto: “Niente venne sostituito, neppure una tazza da tè; e la casa prese ad assomigliare ad un museo ”[12]. Allo stesso modo, la sera della morte della madre, i due gemelli si approprieranno della camera da letto dei genitori e delle vecchie camicie da notte del padre lasciando ogni cosa uguale a se stessa. Così come era accaduto in The Viceroy of Ouidah, i personaggi di Sulla Collina Nera attuano la loro rinuncia al tempo della storia per condurre la loro vita nel tempo della memoria (e, come detto, nel tempo ciclico delle stagioni) e, anche in questo caso, messa in atto attraverso la consacrazione di alcuni oggetti a simulacro della loro rinuncia.

Copertina del libro La via dei cantiIn The Songlines non si trovano rappresentazioni così dirette di oggetti-reliquia; possiamo invece individuare nella narrazione una critica alla mercificazione degli oggetti d’arte e all’atteggiamento degli occidentali nei confronti delle culture indigene. Il sesto capitolo è infatti tutto dedicato all’acquisto, da parte di una coppia di turisti americani e con la libraia Mrs Licey a fare da intermediaria, di un quadro raffigurante una “pista del sogno” dipinto da un aborigeno. In questo episodio troviamo da una parte l’anziano aborigeno Stan costretto dalla povertà e dalle condizioni sociali dei nativi australiani a fare commercio della propria cultura, dall’altro la turista americana che “sapeva benissimo che la tela era dipinta ad uso dei bianchi, ma lui (Stan) le aveva fatto intravedere qualcosa di raro e di strano e lei gliene era molto riconoscente ”[13].

La ricerca dell’esotico, tipica del turismo occidentale, si configura non come un incontro di culture ma come un commercio in cui, naturalmente, sono gli occidentali a prendere possesso della cultura altrui. Così la turista americana, per rendersi partecipe dei segreti delle “piste del sogno”, è costretta ad acquistare il quadro di Stan; il possesso della cultura altrui passa attraverso il possesso dell’oggetto.

Scorre sotterranea, nei romanzi di Chatwin, una vera e propria teoria degli oggetti che si presentano come una delle “calamite” che costringono l’uomo all’immobilità. Da una parte, infatti, l’oggetto dona potere all’uomo che lo possiede, dall’altra sembrano gli oggetti stessi ad avvincere l’uomo. Il desiderio di possesso si identifica, banalmente, con la sete di ricchezza, ricchezza che, in quanto tale, dona potere. Ma il potere degli oggetti è, nei romanzi presi in esame, anche quello che va oltre il loro valore materiale e che ha a che fare con la capacità di significare qualcosa. È il caso della pelle di brontosauro, così come delle reliquie di dom Francisco e dei beni appartenuti ai genitori dei gemelli; in tutti questi casi gli oggetti si impongono come dei simulacri delle ossessioni, personali o collettive, dei personaggi di Chatwin. Per comodità, quindi, da qui in avanti verranno chiamati oggetti-simulacro.

Letteratura e realtà

Fin dal suo esordio letterario con In Patagonia, Chatwin fu accusato di saccheggiare la realtà, riportando nei suoi libri vicende molto simili a quelle di personaggi reali conosciuti nei suoi viaggi e debitamente modificate per renderle letterariamente appetibili.

Foto ChatwinEffettivamente, ogni romanzo di Chatwin prende le mosse da episodi reali. Non mancarono le polemiche di chi, vistosi precipitato nelle narrazioni chatwiniane, o non si riconosceva nel ritratto che gli era stato fatto, oppure si sentiva tradito nel ritrovare riportati episodi della propria vita da uno sconosciuto a cui erano stati riferiti confidenzialmente. Nel primo romanzo, inoltre, oltre ad essere reali (o meglio, abbastanza vicini al vero) la maggior parte degli incontri narrati, è vera anche la ricerca dei resti del milodonte nella caverna del Last Hope Sound. A tal proposito Chatwin scriverà: “[…] il genere più antico di racconto di viaggio è quello in cui il narratore lascia la sua casa per andare in un paese lontano alla ricerca di un animale leggendario ”[14].

Il procedimento seguito da Chatwin sarebbe quindi quello di ricercare tracce di mito nella realtà[15] e poi ricrearle nei suoi libri, in un continuo dialogo tra mito e realtà attraverso la scrittura. In questo modo, e al di là dell’eccessiva enfasi posta sul problema del mito (che probabilmente non interessava a Chatwin poi così tanto), la letteratura ha la possibilità di dire sulla realtà qualcosa in più della verità[16], dando vita ad un circolo vizioso per cui non è la letteratura a rispecchiare passivamente la realtà o la realtà stessa a riprodurre la letteratura (il mito), ma entrambe agiscono positivamente l’una sull’altra rivitalizzandosi reciprocamente.

Volendo continuare a leggere The Songlines come un’opera di fiction (anche se strettamente ispirata a situazioni reali) si potrebbe istituire un paragone tra Chatwin ed i “suoi” aborigeni, sottolineando come questi, con il loro canto che ricrea il mondo, siano, per quanto riguarda l’argomento di questo paragrafo, degli alter ego dell’autore stesso. Per i nativi australiani, così come per Chatwin, il canto (o la letteratura) e il movimento sono strettamente legati: sia l’uno che gli altri cantano ciò che vedono camminando e assegnano al linguaggio una funzione creatrice rispetto alla realtà. Ogni volta che gli aborigeni cantano ciò che hanno sotto gli occhi ripetono il momento della creazione e rendono possibile il fatto che il mondo continui a esistere. Si potrebbe dire che il loro canto ha il potere di rivitalizzare la realtà e questo è anche il ruolo che Chatwin sembra riservare alla letteratura[17].

Esuli

L’intera produzione di Chatwin è attraversata da una particolare categoria di personaggi che si distinguono per il fatto di vivere in una dimensione temporale differente rispetto a quella storica. Nei romanzi di Chatwin, gli eventi storici sono sempre presenti in qualche modo ma la loro influenza sui personaggi viene mediata da una forza contraria: la tendenza, tipica dei personaggi chatwiniani, a sottrarsi alla storia per rifugiarsi in un proprio universo personale, caratterizzato, come scritto sopra, da una temporalità differente[18]. Le vicende dei personaggi saranno quindi determinate non da un’influenza diretta della storia sulle loro vite, ma dalla risultante delle due forze contrapposte tra loro (azione della storia e tendenza a sottrarsi ad essa).

Questa tipologia di personaggi viene inaugurata fin dal primo romanzo, In Patagonia, dalla lunga e variegata galleria di esuli che popolano il libro. Questi, pur vivendo a migliaia di chilometri di distanza dalla propria patria, sia essa il Galles, la Germania o la Russia, tentano di ricreare le condizioni della loro terra d’origine, conservandone usi e costumi e costruendo vere e proprie comunità su base etnica.

Patagonia

La Patagonia, che si presenta come un enorme spazio vuoto, acquista un valore emblematico proprio perché appare, nella narrazione di Chatwin, come una tabula rasa in cui tutto è fuori dal tempo e lontano dal centro, immerso in un’atmosfera di sospensione e luogo ideale per sfuggire ad un presente ostile. Non è certo un caso, dunque, che questa terra di esuli sia rivendicata da un improbabile re in esilio: Sua Altezza Reale Il Principe Filippo di Araucaria e Patagonia, patetica figura di avventuriero fuori dal tempo che rivendica senza possibilità di successo l’appartenenza ad un mondo, quello della nobiltà, ormai in declino.
Si potrebbe estendere, per analogia, il termine esuli a tutti i personaggi che nei libri di Chatwin cercano di sottrarsi al tempo della storia, tutti infatti condividono l’ estraneità al luogo e al tempo in cui vivono.

Proseguendo dunque nella galleria di “esuli”, in The Viceroy of Ouidah, i discendenti di Francisco Manoel da Silva continuano a ripetere il loro rito, ormai privo di senso, di identificazione con la genealogia “bianca” iniziata dal loro avo, mentre la radio continua a gracchiare i fanatici discorsi del dittatore comunista del Benin. Ancora una volta, mentre la storia bussa con prepotenza alle loro porte, gli esuli tentano di sottrarsi ad essa attraverso il rito rivolto al proprio avo, e quindi al passato, che riecheggia culti tribali verso i morti e gli antenati. Lo stesso dom Francisco è un esule, imprigionato in Africa con il desiderio di rivedere la sua Bahia.

I due gemelli di On The Black Hill rientrano a loro volta nella categoria degli esuli; in questo romanzo la storia sembra poter irrompere nelle loro vite. Durante la prima guerra mondiale, infatti, i due fratelli dovrebbero partire per il fronte ma entrambi riescono a evitarlo, Lewis sottraendosi all’obbligo del servizio militare e Benjamin venendo congedato con disonore durante l’addestramento. In questo modo i due fratelli sfuggono al potere coercitivo della storia per rinchiudersi nel microcosmo della fattoria e del loro rapporto. Da quel momento gli avvenimenti del mondo costituiranno per loro un brusio di fondo così che la seconda guerra mondiale “[…] passò sopra i gemelli come un’onda, senza turbare la loro solitudine”[19]. I due gemelli, si è detto, sono l’ennesima riproposizione letteraria del tema del doppio.

Così, se Lewis rappresenta l’inquietudine e quindi, per Chatwin, l’animo nomade, Benjamin incarna la forza opposta dell’immobilità e della conservazione. La seconda forza, come spesso accade nei romanzi di Chatwin, prende il sopravvento e annulla la prima. Ciò avviene al momento della morte della madre, Mary, che sancisce definitivamente l’unione inscindibile di Lewis e Benjamin e pone fine alle velleità di fuga del primo. La vita dei gemelli continuerà così a svolgersi su un piano temporale sdoppiato ma comunque differente rispetto a quello della storia: da un lato Lewis e Benjamin condurranno un’esistenza proiettata al passato, nel tempo della memoria, conservando la casa dei genitori come fosse un museo; dall’altro vivranno il tempo ciclico delle stagioni e della vita da contadini, sempre uguale a se stessa.

Foto di ChatwinThe Songlines appare ad una prima lettura come un inno al movimento. Certamente questa interpretazione è la più corretta, tuttavia proprio gli aborigeni australiani, i portavoce di quella che per Chatwin è la cultura del movimento per eccellenza, potrebbero essere inclusi nella categoria degli esuli (esuli del tutto particolari perché nessuno più di loro potrebbe rivendicare l’appartenenza a quella terra). Anche gli aborigeni, come gli altri esuli, vivono tutti protesi al passato, che in questo caso è il passato ancestrale del “tempo del sogno”, ignorando o quasi la storia “ufficiale” (in sostanza cioè quella dei colonizzatori) se non per scendere a patti con essa quando è il momento di salvare un luogo sacro dalla costruzione della ferrovia. Certamente in questo caso il ruolo della loro proiezione verso il passato e la memoria ha un valore più positivo rispetto agli altri casi presi in esame fino ad ora, in quanto costituisce una difesa più che legittima della propria cultura da parte dei nativi.

Bisogna comunque precisare che il tentativo di sottrarsi alle dinamiche del mondo contemporaneo da parte dei personaggi dei romanzi di Chatwin ha sempre una duplice valenza: da un lato ha delle connotazioni patetiche se non addirittura perverse (ad esempio l’attaccamento di Utz nei confronti della propria collezione o l’amore incestuoso di Benjamin verso suo fratello), dall’altro costituisce sempre una reazione giustificabile nei confronti della violenza della storia. Questa particolare concezione è espressa in maniera diretta in Utz per bocca di uno storico dei paesi della cortina di ferro, amico del narratore: “Lui [lo storico] era l’ultimo al mondo a sminuire il valore di chi rischiava il campo di lavoro per pubblicare una poesia su un giornale straniero, ma a suo modo di vedere i veri eroi di quella situazione impossibile erano quelli che non aprivano mai bocca contro il Partito o lo Stato, tuttavia parevano albergare nelle loro teste la summa della civiltà occidentale. “Col loro silenzio” disse ”infliggono allo stato un estremo insulto, fingendo che non esista”[20]. Bruce Chatwin, “accusato di descrivere l’eccentrico e il bizzarro ribattè che la gente che aveva osservato, in Patagonia come nel Radnorshire, per esempio, era forse più vicina al centro di tutto”[21].

L’eccentricità dei personaggi chatwiniani può essere letta infatti come un riflesso della condizione postmoderna: eccentricità come perdita di centro, il venir meno di un riferimento stabile dentro la cultura e la società occidentale (d’altra parte non c’è nulla di più lontano dal centro della Patagonia). Gli esuli dei romanzi di Chatwin, con il loro tentativo di collocarsi ai margini della storia, proteggendo le loro identità particolari o i propri piccoli riti ed ossessioni privati, sembrano esprimere proprio questa lacerazione e assumono un valore fortemente emblematico: con la loro marginalità, infatti, riescono a esprimere una dinamica fondamentale della contemporaneità[22]

La memoria e il passato, l’identità

Copertina di In PatagoniaStrettamente legati all’argomento del capitolo precedente sono i temi della memoria e del passato. Si è detto infatti che gli esuli chatwiniani vivono in una dimensione temporale “altra” rispetto alla contemporaneità. In tutti i romanzi di Chatwin questa temporalità scissa prende anche la forma del tempo della memoria: il rivolgersi al proprio passato, nelle varie declinazioni che esso può assumere, tentando di conservarlo. Non è l’unico esempio di temporalità differente rispetto a quella storica perché, ad esempio, i gemelli di On The Black Hill vivono anche nel tempo ciclico delle stagioni, mentre Utz vive nel tempo-senza tempo della sua collezione. Tuttavia, anche in questi casi è presente la tendenza a rivolgersi al passato.

Per gli esuli della Patagonia il passato a cui rivolgersi è quello delle tradizioni e della cultura della patria originaria, mentre per gli eredi di dom Francisco è il culto per il loro capostipite.
I gemelli Lewis e Benjamin trasformano la propria casa in museo per conservare la memoria dei genitori ed in particolare della madre. Inoltre, mentre ignorano gli avvenimenti della seconda guerra mondiale, si interessano di storia medievale e di santi celtici.
Gli aborigeni di The Songlines, infine, si rivolgono al passato della loro cultura ancestrale, rivivendo col loro canto il momento stesso della creazione del mondo.

Il recupero del passato è strettamente collegato alla ricerca dell’identità. Nello scenario postmoderno la mancanza di stabili punti di riferimento è causa della mancanza di identità collettive condivise. Il rivolgersi al passato può dunque essere letto come la ricerca o la difesa, individuale o per piccole comunità di persone, di un’identità attorno a cui far gravitare esistenze condotte in modo separato.

La bomba, il rituale, il colonialismo e l’inquietudine

La bomba: “L’immagine della bomba ritorna attraverso tutti gli scritti di Chatwin e le sue terrificanti possibilità continuarono ad angosciarlo “[23]. La bomba atomica è una presenza discreta ma significativa nell’opera di Bruce Chatwin: non potrebbe infatti esserci un’immagine più evidente di quale sia lo sfondo storco da cui nascono i romanzi che si stanno esaminando.

Copertina di un libro di Chatwin

Le esplosioni di Hiroshima e Nagasaki costituirono infatti l’avvenimento che sancì, nello stesso tempo, la fine della seconda guerra mondiale e l’inizio della guerra fredda. Soprattutto, però, la bomba rappresenta la minaccia di una distruzione globale che segnerebbe la fine dell’uomo; di fronte alla possibilità di un tempo che in ogni momento avrebbe potuto arrestarsi, fatto che all’epoca in cui furono scritti i libri pareva più che probabile, acquista un significato possibilmente anche maggiore la scelta degli esuli di sottrarsi alle dinamiche della storia per volgere il loro sguardo, spaventato, verso il passato.
Il rituale: “Ho sempre pensato che un qualche rituale fosse un ingrediente essenziale della vita umani”[24]. I romanzi di Chatwin sono infatti quasi tutti scanditi da riti di vario genere e funzione.

The Viceroy of Ouidah presenta tutta la macabra ritualità degli omaggi a Francisco Manoel da Silva ed è nuovamente una specie rito funerario quello con cui i gemelli Jones prendono possesso del letto dei genitori la notte della morte della madre. Rituale è naturalmente anche il viaggio che gli aborigeni compiono per attraversare le “piste del sogno” e riappropriarsi del territorio e della loro cultura.

Copertina di Il viceré di OuladeChatwin era dunque consapevole, grazie alle conoscenze antropologiche di cui disponeva, dell’importanza delle forme rituali. I riti, nei romanzi dello scrittore, servono a riaffermare l’appartenenza a una cultura o a un gruppo, oppure a sancire un legame tra due persone come i due gemelli (si potrebbe dire che il loro preparare la stanza da letto dei genitori costituisca nello stesso tempo un matrimonio e un funerale). Al rituale è assegnata dunque una funzione magica simile a quella evidenziata in precedenza per gli oggetti.

Il colonialismo: una tematica simile non poteva certo non toccare uno scrittore così cosmopolita. L’atteggiamento di Chatwin appare però viziato da un’ambiguità di fondo. Certamente, infatti, l’autore condanna esplicitamente l’imperialismo e l’appropriazione e distruzione delle altre culture da parte degli occidentali (l’episodio, descritto in precedenza, dell’acquisto del quadro è eloquente). Non sfugge però un atteggiamento, molto britannico, di distacco un po’altezzoso e ironico che spesso Chatwin tradisce nella narrazione dei suoi viaggi, tanto che il New Yorker pubblicò una vignetta che lo ritraeva intento ad esplorare la Patagonia con ombrello e bombetta in testa.

L’inquietudine: Chatwin definì il tema di The Songlines come “l’interrogativo primo, la natura dell’inquietudine umana”[25]. Tutta la sua produzione è, in fondo, un’indagine sull’inquietudine umana che nei suoi libri prende due forme: quella del nomade e quella dell’esule. Il nomade è infatti chi, secondo Chatwin, dando ascolto alla propria inquietudine, si apre al movimento e alle mille possibilità dell’esistenza. L’esule rappresenta invece l’uomo che, incapace di assecondare questo impulso, ne resta vittima e si trova a condurre un’esistenza all’insegna dell’immobilità e dunque dell’incompiutezza.


Note:


[1] Ad esempio, J. Lanchester, A Pom in the Name of Bruce, The London Review of Books, 29 settembre 1988.
[2] “Mi ha sempre irritato sentirmi definire uno scrittore di viaggi; per questo ho deciso di scrivere qualcosa su della gente che non si muoveva mai. È così che è nato Sulla collina nera.” in An interview with Bruce Chatwin, a cura di Michael Ignatieff, Granta n.21, primavera 1987 (tr. It. Di R. Mozzanti Quante suole di scarpe. Incontro con Bruce Chatwin, Linea d’ombra, febbraio 1992, n.68, pp.64-69). Cit. in Nicholas Murray, L’alternativa nomade, tr. it. di Chiara dall’Aglio, Settimo Sigillo, Roma, 1994.
[3] Viaggio che lo stesso Chatwin intraprese e da cui trasse la maggior parte degli spunti per la scrittura del libro, causando le maggiori difficoltà nell’interpretazione e classificazione del libro: racconto di viaggio o opera di fiction? Questo ordine di problemi verrà però affrontato in seguito.
[4] ”Una volta Bruce parlò di In Patagonia come del tentativo di trasmettere un’immagine cubista del Paese, una descrizione che ne rivela la struttura e le spigolosità, con la narrazione piena di divagazioni e scorciatoie, e i suoi capitoli brevi letti spesso come racconti a sé stanti”. Susannah Clapp, Omaggio a Chatwin, Da Linea d’ombra n. 139, dicembre 1998. tr. it. di Leonardo Dehò in: Antonio Castronuovo (a cura di ) Per Bruce Chatwin, La Mandragola, Imola 1999.
[5] The Viceroy of Ouidah, Jonathan Cape, Londra, 1980 (tr. it. di M. Marchesi, Il Viceré di Ouidah, Adelphi, Milano, 1983, III edizione, collana Gli Adelphi a cui si farà riferimento in questa tesi). Pag. 64.
[6] “Forse dovremmo concedere alla natura umana un’istintiva voglia di spostarsi, un impulso al movimento nel senso più ampio: L’atto stesso del viaggiare contribuisce a creare una sensazione di benessere fisico e mentale, mentre la monotonia della stasi prolungata e del lavoro fisso tesse nel cervello delle trame che generano prostrazione e senso di inadeguatezza personale”, Bruce Chatwin cit. in Raffaello Rosa, Favoloso Bruce Chatwin, in Antonio Castronuovo (a cura di ) Per Bruce Chatwin, La Mandragola, Imola 1999.
[7] “La teoria di Bruce secondo cui il movimento sarebbe un impulso innato è sbagliata” Jeremy Swift, Antropologo amico di Bruce Chatwin, citato in Nicholas Shakespeare, Bruce Chatwin, Baldini & Castoldi, Milano, 1999, pag.351.
[8] Salman Rushdie citato in Shakespeare Nicholas, Bruce Chatwin, Harvill Press, Londra, 1999 (tr. it. di M. Dettore e S. Melani, Baldini & Castoldi, Milano, 1999 a cui si farà riferimento in questa tesi). Pag.639.
[9] Bruce Chatwin, In Patagonia, Jonathan Cape, Londra, 1977 (tr. it. di M. Marchesi, In Patagonia, Adelphi, Milano, 1982, VI edizione Gli Adelphi a cui si farà riferimento in questa tesi), pag.93.
[10] Bruce Chatwin, The Viceroy of Ouidah, op. cit. Pag.13.
[11] Bruce Chatwin, The Viceroy of Ouidah, op. cit. Pag.69.
[12] On The Black Hill, Jonathan Cape, Londra, 1982 (tr. it. di C. Morena, Sulla Collina Nera, Adelphi, Milano, 1986, VII edizione Gli Adelphi a cui si farà riferimento in questa tesi). Pag.180.
[13] Bruce Chatwin, The Songlines, Jonathan Cape, Londra, 1987 (tr. it. di S. Gariglio, Le Vie dei Canti, Adelphi, Milano, 1991, X edizione Gli Adelphi a cui si farà riferimentp in questa tesi) pag.45.
[14] Bruce Chatwin, Patagonia Revisited (con Paul Theroux, illustrazioni di Kyffin Williams), Michael Russel, Salisbury, 1985 (tr. it. di C. Morena, Ritorno in Patagonia, Adelphi, Milano,1991). Pag. 22.
[15] ”Cerco sempre di decidere quello che voglio e poi cerco di trovarlo”. Bruce Chatwin, citato in: Nicholas Shakespeare, Bruce Chatwin, op. cit. Pag.428.
[16] “In generale, Bruce più che sottrarre qualcosa alla verità vi aggiunge qualcosa. Non racconta una semiverità ma qualcosa di più della verità. La sua conquista non sta nel dipingere la Patagonia così com’è, ma nel creare un paesaggio chiamato Patagonia, un nuovo modo di vedere, un nuovo aspetto del mondo. E nel frattempo inventava se stesso”. Ibid. pagg 468-469.
[17] Questo tipo di lettura è presente anche in Antonella Riem Natale: ”Rilke e gli aborigeni concordano in questa equivalenza fra cantare ed esistere, nell’importanza data alla melodia, al flusso musicale che segue la vita stessa, e si infrange nella terra e dalla terra ha origine. Anche Chatwin con la sua narrazione “discontinua” conferma questa analogia, questa equazione, fra vita,melodia e racconto. Chatwin vuole appropriarsi delle vie dei canti, dell’universo aborigeno, ma finisce per scorgere, forse, come sempre, soprattutto se stesso, la propria posizione di narratore..”. Antonella Riem Natale, La Gabbia Innaturale, Campanotto, Udine 1993, ed. a cui si farà riferimento in questa tesi. Pag. 65.
[18] ”Quando si cominciano ad esaminare i cosiddetti eccentrici”, disse a Melvin Bragg in un’intervista televisiva, “ci si rende conto che che essi sono estremamente sani e che non sono particolarmente eccentrici – sono solo esseri che vivono su una diversa bilancia temporale, in un mondo differente”. Citato in Murray Nicholas, Bruce Chatwin, Seren Books, 1993 ( tr. it. di C. Dall’Aglio e M.C. De Angelis, L’alternativa Nomade, Settimo Sigillo, Roma 1994, a cui si farà riferimento in questa tesi), pag. 21.
[19] Bruce Chatwin, On The Black hill. op. cit.. pag. 212.
[20] Bruce Chatwin, Utz, Jonathan Cape, Londra, 1988 (tr. it. di D. Mazzone, Utz, Adelphi, Milano, 1989, V edizione Gli Adelphi a cui si farà riferimento in questa tesi), pag. 16.
[21] Nicholas Murray, op. cit. pag. 21.
[22] Sulla tematica della perdita di centro si veda: Roberto Bertinetti, Londra. Viaggio in una metropoli che non si ferma mai, Einaudi, Torino, 2007. Vidiadhar S. Naipaul, Leggere e Scrivere, Adelphi, Milano, 2002.
[23] Nicholas Murray, op. cit. pag. 28.
[24] Bruce Chatwin cit. in: Nicholas Murray. op. cit. pag. 80.
[25] Bruce Chatwin, The Songlines, op. cit.


Progetto di tesi:


Il presente articolo pubblicato su FM 115 è tratto dalla tesi di laurea Utz: il collezionismo e il regime. Il lavoro fatto prende in esame l’ultimo romanzo di Bruce Chatwin tentando un’interpretazione che ne metta in luce il rapporto di continuità con le precedenti opere dello scrittore inglese. Dall’analisi di questo breve romanzo si cerca così di ricavare un quadro un po’più complesso sull’opera di un autore costretto in maniera troppo rigida entro i confini della narrativa di viaggio. La tesi tenta così di mettere in luce altre tematiche e punti di interesse nella narrativa di Chatwin come la perdita di identità dell’uomo contemporaneo ed il suo tentativo di sottrarsi agli eventi storici, il rapporto morboso dell’individuo con gli oggetti, la memoria, il passato, il rapporto tra la finzione narrativa e la realtà; tutti temi che si ritrovano in qualche modo intrecciati in quello che è forse il romanzo più intenso e riuscito del narratore inglese.


Bruce Chatwin nasce a Sheffield nel 1940 da una famiglia borghese. Inizia a lavorare giovanissimo per la casa d’aste Sotheby’s e ne diviene, a soli 24 anni, direttore; qui conosce Elizabeth Chanler che diventa sua moglie suscitando lo stupore degli amici più intimi di Chatwin che erano a conoscenza della sua omosessualità. A 26 anni, il futuro scrittore, abbandona una brillantissima carriera per dedicarsi agli studi di archeologia (mai terminati) a Edimburgo e per iniziare le sue celebri peregrinazioni in giro per il mondo inseguendo la propria personale ossessione per il nomadismo. Nel 1973, Chatwin viene assunto come redattore dal Sunday Times Magazine dove si occupa soprattutto di arte; l’esperienza si rivelerà cruciale perché consentirà allo scrittore di conciliare le proprie passioni per l’arte, la scrittura e i viaggi e aiuterà l’autore a maturare il proprio stile a un tempo asciutto e ricco di immagini. Abbandonato anche questo lavoro, Chatwin diviene, a tempo pieno, uno scrittore con la pubblicazione del suo primo romanzo, In Patagonia (1977), a cui seguiranno Il Viceré di Ouidah (1980), Sulla collina nera (1982), Ritorno in Patagonia (1986, con Paul Theroux), Le vie dei canti (1987), Utz (1988) e Che ci faccio qui? (1989). Tutti i romanzi, situati su un sottile confine che separa la finzione dalla vita reale dell’autore, riflettono l’incessante vagabondare di Chatwin in ogni parte del mondo e vanno a comporre una originalissima indagine sulla natura dell’inquietudine umana. Personaggio a sua volta estremamente inquieto, Chatwin alterna per tutta la vita l’essenzialità e la frugalità della vita da nomade allo sfarzo di una vita all’insegna dell’eleganza e del successo che fa dello scrittore il prototipo del dandy moderno, contribuendo in maniera decisiva al suo successo. Chatwin muore di Aids, a Nizza, nel 1989 dopo aver cercato di tenere nascosta fino all’ultimo la propria malattia. Dopo la sua morte verranno pubblicate raccolte di scritti e fotografie di Chatwin non curate direttamente dall’autore: L’occhio assoluto (1993), Anatomia dell’irrequietezza (1997) e Sentieri tortuosi (1998).

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