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Cinema

Anna Galiena

Recitare per divertimento

Attrice versatile e ricca d’esperienza, a cinquant’anni Anna Galiena conserva intatto tutto il suo fascino e si concede la possibilità di spaziare professionalmente senza limiti e pregiudizi, sempre alla ricerca di nuovi stimoli, sempre seguendo con intuito ciò che la appassiona.

Anna Galiena

L’abbiamo incontrata in occasione della rassegna cinematografica Luci ed Ombre (organizzata a Trieste da Maremetraggio e Alpe Adria Cinema nell’ambito della “fabbrica del cambiamento” per celebrare il trentennale della legge Basaglia) dove l’attrice romana è intervenuta per presentare due suoi film che hanno trattato il tema del disagio mentale. Senza Pelle, lungometraggio del 1994 per la regia di Alessandro D’Alatri (e l’azzeccatissima colonna sonora firmata da Moni Ovadia), racconta la vita tranquilla di una coppia piccolo borghese di Roma, che viene sconvolta dall’intromissione di Saverio (Kim Rossi Stuart), un giovane psicolabile e ipersensibile innamorato della donna (Anna Galiena). Il grande cocomero, datato 1993 e diretto da Francesca Archibugi, affresca il delicato mondo di un neuropsichiatra infantile (Sergio Castellitto) che, alle prese con una giovane paziente epilettica, decide di curarla con un metodo non convenzionale, riuscendo a vincere la diffidenza della madre (Anna Galiena).

Cristina Favento (CF): La sua è stata una carriera intensamente vissuta tra cinema e teatro, all’insegna di esperienze anche piuttosto impegnative e impegnate nelle quali spesso si è messa a dura prova senza esitazione; guardandosi indietro rintraccia un file rouge che accomuni le sue esperienze professionali? C’è un minimo comune denominatore che le caratterizza?

Anna Galiena (AG): Il filo rosso della mia vita professionale, ma anche della mia vita in generale, è uno solo: “quello che me pare”, come dicono a Roma (ride, nda), cioè ho sempre fatto quello di cui avevo voglia senza tanti calcoli, senza molta progettazione… sceglievo quello che mi appassionava, che fosse una persona, un dettaglio, un lavoro, eccetera. Ogni tanto una cosa elementare perché diceva tutti d’accordo però in generale quello che mi infiamma la testa, quello faccio.

CF: Direi che il risultato si vede..

AG: Magari ogni tanto ho fatto dei lavori a zig zag: ho fatto questo, quell’altro, non importa. Però così mi diverto, perché se non mi devo divertire allora faccio un lavoro sicuro, tranquillo, non certo l’attrice, giusto?

CF: La sua formazione teatrale e il suo debutto sono avvenuti a New York, che cosa l’ha spinta verso gli Stati Uniti e che differenza ha riscontrato poi recitando sui palcoscenici italiani?

AG: Cosa mi ha spinto non lo so, ero una persona giovane, alla ricerca, piena di insicurezze, ribellioni, curiosità. Andavo dappertutto, non è che mi sono fermata lì perché quel posto era particolarmente diverso o assurdo. In un certo senso però era così entusiasmante che mi sono detta: “resto anche se mi fa schifo tutto il resto”. Questo all’inizio, poi dopo mi faceva meno schifo perché cominciavo comunque ad aqquartierarmi, a trovare un mio posto.

Anna Galiena

Era una città strana, violenta, piena di solitudine umana, però era anche un posto dove non ti chiedevano chi ti manda, di chi sei amico e non facevano misteri: pubblicavano quello che era il mio lavoro, pubblicavano le audizioni. Andavi, le facevi e se eri bravo vincevi la parte, punto. Tutto era molto aperto e più disponibile.

CF: E poi al rientro in Italia?

AG: Il vero choc che ho avuto non è stato andandomene negli Stati Uniti, o prima ancora quando andavo a Londra o a Parigi o quando ho fatto molti altri viaggi in Europa. Lo choc più feroce l’ho avuto rientrando in Italia dopo otto anni di Nord America in cui ho assorbito molto dei principi di vita americani, anche perché ero partita giovane. Quando sono tornata non mi adattavo assolutamente, è stata una doccia fredda culturale quella che ho avuto tornando al mio paese in quegli anni che ho passato qua dall’84 all’87. Da una parte stavo bene perché stavo a Roma, la mia bella città, e potevo vedere i miei genitori; dall’altra non stavo bene per niente, lavoravo ma non ero contenta: infatti poi sono ripartita.

CF: Ho avuto occasione di apprezzarla a teatro qualche tempo fa: l’ho vista qui a Trieste recitare in Quale droga fa per me? (per la regia di Andrée Ruth Shammah, nda), un testo teatrale quasi interamente basato sulla sua interpretazione di Anna, il personaggio principale che subiva un’evoluzione significativa nel corso dello spettacolo…

Anna GalienaAG: Anna è una persona che va verso la follia, che sta molto male. Anziché rivolgersi a qualcuno che possa aiutarla e fare quindi un percorso per ritrovare la propria salute mentale ed emotiva, lei incomincia a prendere sostanze e fa anzi tutta una strada in discesa, verso un burrone, attraverso le droghe — che, come diceva no so più quale cantante pop inglese, non aiutano ma peggiorano solo le cose. Non direi però che lo spettacolo era basato soltanto sulla mia interpretazione, anche lì c’era una regia molto interessante proprio mi ha spinto in mezzo alle persone e ha creato quell’ambiente così vecchio, così deteriorato. La scena è questo posto strano in cui lei si trova a dover cercare di parlare con il pubblico prima di morire, questo è quello che le sta capitando.

CF: Mi è parsa un’interpretazione difficile da affrontare, abbastanza impegnativa a livello teatrale…

AG: Difficile no, se la cosa l’ha presa; lei è rimasta dentro lo spettacolo o è rimasta fuori?

CF: Dentro credo.

AG: È entrata dentro? Si è emozionata oppure no?

CF: No, l’ho preso più come spunto di riflessione. Secondo me era uno spettacolo che comunque non permette allo spettatore di coinvolgersi pienamente, c’è uno stacco

AG: Dipende, c’erano persone che trovavo alla fine a soffiarsi il naso, a piangere, perché magari entravano di più. Dipende dallo spettatore, però ho avuto reazioni molto, molto forti dal pubblico, anche sconvolte o di rifiuto. Proprio perché è uno spettacolo di interazione quasi, nel senso che la protagonista che interpretavo, come personaggio, non chiede alle persone che rispondano però si rivolge a loro e sta in mezzo a loro. Cosa durissima per l’attore stare in mezzo agli altri! Non era quella cosa che si fa in genere a teatro davanti ad un palcoscenico, lì c’era una persona e quella persona diventa il personaggio. Ed era comunque un rapporto teatrale: io stavo lì in mezzo a voi. A Trieste poi c’era una parte di pubblico anche sulle gradinate e quelli erano un po’ lontani… Stava lì lei?

CF: Si

AG: Ecco perché era più distaccata! Infatti la regia voleva una parte di persone intorno, accanto e in mezzo a me, come se fossero altri malati o altre persone con un problema, e poi un’altra parte che osservava. Stava anche allo spettatore in base al proprio coraggio venire lì davanti, non era facile. Quelli che restavano a guardare avevano un altro tipo di punto di vista perché vedevano l’attore che interagiva con gli altri mentre loro erano al sicuro, stavano sulla bella gradinata tranquilli e nessuno andava a rompergli le scatole. Gli altri invece, quelli che avevo accanto, in genere avevano delle reazioni molto forti o di rifiuto, poi magari si lasciavano andare.. Anche senza parlare mi davano moltissimo perché le loro emozioni io le sentivo ogni sera.

Anna Galiena a teatro in una scena di Quale droga fa per me

CF: Come si prepara per affrontare un personaggio? Come lo gestisce? Immagino che ogni ruolo sia un’avventura in qualche modo diversa…

AG: A me non piace parlare di come preparo i personaggi. Sarebbe come andare da un cuoco e dire: “Scusi ma lei quel piatto lì che mi è piaciuto come lo fa?”, questo magari ti risponde: “Signora scusi ma si faccia i fatti suoi! Vada in ristorante paghi e si faccia servire giusto no?

CF: Ma farmi i fatti degli altri è il mio mestiere (ride, nda)

AG: Se parlo con un attore o con un regista è un conto, ci riesco. Altrimenti è talmente complesso che molte cose diventano superficiali se dico che seguo il tal metodo o che è un tipo di tecnica oppure che seguo ancora quest’altro… Posso dire che uso molto la mia immaginazione però non è solo questo.

CF: C’è differenza per lei quando prepara un ruolo cinematografico rispetto ad un’interpretazione teatrale?

AG: No, non c’è nessuna differenza, un ruolo è un ruolo. È differente il mezzo, quello che trovi per un ruolo che poi fai al cinema. Sai che c’è una macchina da presa che viene a prendere la verità da te quindi non devi assolutamente significare nulla, non devi assolutamente aggiungere, non devi assolutamente ampliare quello che senti. Anzi, guai a farlo perché se no poi reciti per la macchina da presa ed è brutto: si vede e si sente! Il rapporto è a distanza e devi avere molta fede, molta fiducia che questo mezzo verrà a carpirti i pensieri e le emozioni.

Anna GalienaQuando fai teatro, invece, dovrebbe essere diverso, anche se in realtà per me è la stessa cosa perché non mi piace la recitazione quella teatrale classica dove siccome fai teatro puoi essere finto. Secondo me è la stessa cifra per l’attore, però hai il problema opposto: anziché venirti a cercare, sei tu che tecnicamente quello che fai lo devi un po’ ampliare perché sennò in fondo alla sala non ci arriva. Poi magari ti adatti secondo alla sala. Qui a Trieste eravamo in una sala piccola per esempio, però al Piccolo di Milano la sala era molto più grande, e in giro in turnée c’erano addirittura dei palcoscenici tradizionali, quindi un altro tipo di rapporto.

Di spettacolo in spettacolo cambia anche un po’ quanto devi ampliare, o meglio proiettare, però, ripeto, per me la proiezione è sempre assoggettata alla verità, a quanto vivi il momento perché poi più lo vivi e più emozioni trasmetti, in ogni caso. Se ti preoccupi soltanto di ciò che arriva — cioè se devi far finta di piangere, metterti a fare versi strani — per carità, no! È meglio non far niente perché preferisco un attore che non fa niente ma che sta vivendo un emozione forte, anche a teatro queste cose arrivano moltissimo.

CF: Nel 2003 ha fatto parte della giuria del festival di Berlino e si è ritrovata dunque dall’altra parte: in base a cosa giudica un buon film e quali sono i film che lei apprezza come spettatrice?

AG: È diversa la percezione che si ha dei film quando vai a vederli da solo e quando fai parte di una giuria: una giuria è un lavoro. Sono stata anche in altri festival ed è sempre un esperienza che, da una parte è eccitante perché ti trovi lì molti film, incontri persone che magari prima non avevi mai incontrato, discuti, ti confronti, dall’altra è sempre un po’ dolorosa perché nessuno quasi mai riesce ad avere i premi per tutti i film che ama perché i gusti son diversi e c’è molta discussione, ci sono dei compromessi. Ho vissuto una volta un’esperienza anche un po’ violenta, sgradevole, altre volte le decisioni sono state prese in maniera molto più armoniosa.

Va bene così, comunque è un altro lavoro quello. Sul come io giudico, anche in questo caso non ho un metodo. Guardo semplicemente e sono molto pubblico quando vedo un film; se mi trasporta altrove vuol dire che mi sta piacendo, non ci penso neanche vado e parto. Poi, dopo, se sono in giuria devo far la fatica di dire perché l’ho apprezzato e cerco le cose che mi son piaciute. Se mentre guardo un film, invece, io mi trovo ad ascoltare i dialoghi separatamente, a vedere i movimenti di macchina, a osservare una recitazione, eccetera, vuol dire che le cose non funzionano e mi trovo già ad essere critica durante la visione, quindi a distanziarmi, allora lì va male..

CF: Dal debutto statunitense lei ha scelto spesso di lavorare all’estero, soprattutto in Spagna e in Francia…

Anna Galiena in una bellissima scena di SensoAG: Io non ho scelto di lavorare all’estero, sono partita giovane ma questo faceva parte di tutta una ricerca di chi sono cosa faccio dove vado che voglio fare… L’ america è stato questo, è stata solo il posto dove mi sono fermata perché ho dato ma ho avuto anche molto, e mi piaceva quello che ricevevo. Poi però non è che ho scelto di lavorare altrove, è che l’Italia non mi dava granché! In Francia ho trovato un altro sistema, dove non stavano a guardare il “chi”, un po’ come in America, molto di meno ma, insomma, se c’era il ruolo e tu andavi bene, te lo davano, e anche dei grossi ruoli.

Così la Francia mi ha dato una grande opportunità che io non gli ho restituito, perché ho lavorato molto poco lì, perché invece ho scelto l’Italia. Mi sentivo comunque esule dal mio paese ed era un’attrazione maggiore, quindi mentre i francesi mi aprivano le porte e mi offrivano tante opportunità, io gli ho fatto le mie scuse e sono tornata qui in Italia, gli ho traditi per tornare a fare tanti bei film qua, per i quali alle fine sono molto contenta. Tra questi ci sono i due che si vedono stasera a Trieste (Senza Pelle e Il grande cocomero, nda).

Questa scelta però mi ha poi penalizzato un po’ in Francia, nel senso che poi ho ricominciato a lavorare lì però non con le stesse offerte che avevo avuto, la prima volta. Quindi direi che non si è trattato di una scelta, è che l’estero mi ha offerte delle grandi cose.

CF: Qual è la sua oppinione del cinema italiano attuale? Come lo vede?

AG: È una domanda alla quale non posso rispondere perché lo vedo poco e non ne posso parlare. Ogni volta che io mi trovo a vederne qualcuno però ho una buona impressione.

Ero, ad esempio, alla festa del cinema di Roma per un giorno e ho visto due film. Uno inglese, bello, ben fatto, basato su una commedia che c’è, che esiste e che non è un cavolo un gran bel materiale, però era tutto perfetto. Poi il film italiano: fortissimo, bello, un film a cui non mancava niente che mi ha molto emozionato. Non so di preciso che cosa state combinando ma, quasi sempre, quando vedo le cose nostre, mi capita in genere di vedere delle belle cose, però ne vedo poche e quindi non so se rispecchiano la situazione generale oppure se sono privilegiata a vedere poco. Quel poco però sono cose anche molto valide.

CF: Si ricorda qual è il titolo del film italiano?

AG: Si è Galantuomini.

CF: Qui a ts interviene questa sera in occasione della proiezione di Senza pelle e de Il grande cocomero; entrambi trattano con intelligenza dei temi molto delicati che riguardano il disagio mentale e volevo capire come si è trovata a lavorare in questi due film: come gli ha vissuti? Si è sentita in difficoltà per la delicatezza del tema oppure è stato uno stimolo?

Locandina del film Senza Pelle per la regia di Alessandro D'Alatri con Anna Galiena e Kim Rossi StuartAG: Entrambi i film sono state delle bellissime esperienze. Nel caso de Il grande cocomero, più breve perché è un ruolo più limitato, quindi son stata due settimane sul set insieme agli altri mentre in Senza pelle son stati tre mesi, vissuti assieme a tutti, quindi è stata, nell’insieme, più lunga più intensa come esperienza. Però sono state bellissime esperienze tutte e due perché erano tra quei film di qualità, belli, con delle belle sceneggiature, dei registi fantastici, degli attori ottimi. Tutto veniva creato e veniva trovato. Magari fossero sempre così i film! Difficoltà certo ce ne saranno state, però, quando le cose sono belle è sempre più facile. Le difficoltà si sentono quando le cose sono brutte, allora lì si soffre, allora dio ce ne scampi e liberi… Mentre se le cose sono belle si soffre solo un po’, perché poi nel lavoro dell’attore c’è sempre un po’ di sofferenza. Tu vuoi fare meglio e non ci arrivi e ti senti sempre al di sotto, eccetara… però un film bello non è difficile.

CF: A proposito della regia dell’Archibugi (che ha diretto Il grande cocomero, nda): c’è differenza ad essere dirette da una donna?

AG: Uomo o donna, un regista è un regista. Ho lavorato meno con le donne perché ci sono meno donne registe, però ho fatto proprio un bellissimo film per la televisione in Francia, un film brillante che in Italia purtroppo non è stato visto. Lì lo danno continuamente anche se adesso sono passati 14 anni; ogni anno lo danno perché piace e quella si che è una regista!

Certo se poi fai amicizia, ti trovi ad avere quel tipo particolare di rapporto con una regista che con un uomo non hai, però con gli uomini, anche facendo amicizia, hai un tipo di rapporto che non hai con le donne, quindi è tutto molto relativo… No, direi proprio che non cambia, speriamo solo che sia buono, basta. Non speriamo che sia femmina, speriamo che sia buono! (ride, nda)

CF: Una curiosità personale: ho letto che è stata la prima donna a recitare con la Compagnia del Teatro Nô giapponese (Anna Galiena è stata la prima attrice al mondo ad essere ammessa, al Festival di Avignone del 1994, nella pièce ‘Susanô’ diretta da Hiroschi Teshigahara, nda)…

AG: L’unica per l’esattezza. Non penso abbiano ripetuto l’esperienza, almeno fino a quanto sapevo io, perché è stata un esperienza particolare. Hiroshi Teshigahara in realtà mi aveva avvicinata per un film si doveva girare, un film giapponese diretto da lui a Venezia, dove c’erano due personaggi giapponesi e una italiana, una storia a tre. Io ero contentissima di partecipare a questa cosa che non si è mai fatta perché poi i fondi mancavano, veniva rimandata e io dovevo partire…

Era difficile anche mettere assieme i tre attori, e quando lui ha avuto la possibilità di presentare il suo lavoro ad Avignone — dove ogni anno più o meno si dedicano ad una nazionalità e quello era l’anno del Giappone — ha chiesto di fare no solo il Nô tradizionale ma anche un Nô sperimentale, perché nel primo caso io non sarei potuta entrare assolutamente. In quanto tradizionale, il Nô deve rispondere e deve rispettare le proprie regole e possono prendervi parte solo uomini, semplicemente con le maschere.

Invece, con il Nô sperimentale, lui non solo ha sperimentato con i tre più grandi attori maschili nei propri specifici ruoli (non mi chieda i nomi!) — ossia il più grande per i ruoli femminili, il più grande per i ruoli di uomo anziano e il più grande giovane — perché li ha portati a usare movimenti e suoni che loro altrimenti non usavano. Ha lavorato molto per raggiungere determinati risultati ed anche loro, gli attori, erano un poco persi, ma a quanto pare erano anche molto stimolati a dover lavorare diversamente. Non solo però dicevo, perché poi — udite, udite! cosa mai fatta prima — ha messo dentro una donna, senza maschera (avevo il costume giapponese intero ma la maschera non c’era) e che parlava francese! È stata una grande innovazione, un’interessante piece sperimentale.

CF: Abbiamo sentito che di progetti futuri professionali non anticipa nulla…

AG: Delle cose in fieri non si parla, anche perché alcune sono recitazione pura, altre sono cose diverse, quindi posso dire che si tratta di un lavoro molto eccitante, molto stimolante. Vedremo cosa ne verrà fuori…

Anna Galiena

CF: Dato che di lavoro non si può parlare riguardo al futuro, chiedo ad Anna Galiena cosa le piacerebbe fare al di là della sua professione. Ha un progetto suo personale di altro tipo che ha voglia di intraprendere?

AG: Non ne ho uno soltanto e la cosa su cui sto lavorando ora farà proprio parte delle altre cose che vorrei fare… quindi ritorniamo allo stesso punto: che non se ne parla! (ride, nda). Vi posso raccontare del coltivare, che è una cosa che mi piace molto. Parlo proprio in senso letterale: la terra. Però lo faccio poco. Poi c’è il vecchio tarlo dell’architettura, anche quello non lo farò mai (ci ha raccontato poco prima di iniziare l’intervista che le sarebbe piaciuto fare l’architetto se non avesse fatto l’attrice, nda)! E poi basta, leggo i miei libri, ascolto la mia musica, eccetera, come chiunque. Sulle cose che davvero mi interessano, ci sto lavorando su adesso.

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