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Scrittura

Cristina Benussi

Sulla letteratura

Locandina del festival letterario IperportiQual è lo stato di salute della letteratura oggi? È ancora capace di avere un ruolo importante nello sviluppo e nella distribuzione delle sapere, oppure è diventata pura merce di consumo, pura fiction, un misero prodotto commerciale? Insomma, la letteratura ha ancora un ruolo fondamentale nella battaglia culturale contro l’omologazione? Da questi interrogativi è partito il dibattito di apertura del festival Iperporti intitolato Rotte del mondo. Nel dibattito degli intellettuali. In questa occasione abbiamoincontrato la professoressa Cristina Benussi che, insieme a Lorenzo Rega e a Boris Pahor, ha fatto parte del Comitato d’Onore del festival letterario.

Docente di Letteratura Italiana Contemporanea e Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia presso l’Università degli Studi di Trieste, la professoressa Benussi è da sempre impegnata ad occuparsi dei problemi relativi la cultura dell’Otto-Novecento, ed è autrice di numerosi saggi sugli autori più importanti del secolo passato, tra i quali: Il punto su Moravia, e Introduzione a Calvino. Si è anche occupata dei problemi della ricezione nella società di massa e dell’influenza della cultura ebraica su autori quali: Svevo, Saba, Revere e Voghera. Una studiosa che vivendo la letteratura dall’esterno ce ne può tracciare le linee principali, i vari mutamenti che ha subito, e può altresì suggerirci il valore di una scrittura a venire.

Domenico Policarpo (DP): Lei ha partecipato ieri sera, insieme al giornalista Martinet e allo scrittore cileno Salvatore, al dibattito di apertura del festival Iperporti , dove si è voluto analizzare lo stato della letteratura. Ci sono state risposte contrastanti. Lei ha detto che la letteratura sta abbastanza bene, e ha anche parlato di realtà emergenti e di bei libri. Ci può parlare di questo?

Cristina Benussi (CB): Sì, la letteratura sta bene perché molti scrivono, e se molti scrivono, evidentemente, c’è un interesse nei confronti di questa forma d’arte. Certamente la letteratura cambia nel tempo, quindi un gusto sedimentato fa difficoltà a trovare nelle novità qualche forma gradita, ma le novità emergenti sono proprio un cambiamento profondo del linguaggio. Se la letteratura deve raccontare il rapporto tra l’uomo e il mondo, lo deve fare attraverso un linguaggio che riesca a catturare quelle che sono le novità, che poi sono anche gli attacchi critici nei confronti di un sistema che probabilmente ha delle falle.

È chiaro che la letteratura ha una sintassi molto diversa rispetto a quella analitica degli anni passati. È una scrittura più paratattica che altro. Soprattutto ripetitiva, ossessiva, così come ripetitivo e ossessivo è il linguaggio della comunicazione quotidiana, dal linguaggio della pubblicità, al linguaggio televisivo o a quello giornalistico. Compito della letteratura è non mimare quel linguaggio ma far vedere come la comunicazione, attraverso quel linguaggio, possa veicolare dei contenuti stantii, degli stereotipi, deve invece far vedere la necessità di superare il momento di stallo.

Per esempio, sono nati molti topoi letterari nuovi, perché gli ipermercati o i luoghi di adunanza giovanile o le discoteche sono diventati nuovi scenari, al posto dei salotti, delle strade o dei caffè. È cambiato veramente tanto, si tratta di capire che cosa si sta facendo, si tratta di non tenersi abbarbicati all’immagine del passato e a un concetto di letteratura del passato. Evidentemente, si va per tentativi, non tutti riescono a esprimersi ma, se nessuno tenta, si resta indietro.

Cristina Benussi

DP: Lei ha parlato di questo sviluppo, di questo cambiamento della società. In questo periodo in cui lo sviluppo e la diffusione dei media è massiccio, con una moltiplicazione di voci e di fonti del sapere, e dove siamo bombardati da notizie non del tutto controllabili, come si pone la figura dell’intellettuale? Qual è il suo ruolo?

CB: Se lo sapessi… (ride, nda). Posso provare a immaginare. La figura dell’intellettuale è sempre stata una figura scomoda, una figura che si è sempre posta contro. In certi casi contro una gestione politica della cosa pubblica, politica in senso molto lato. L’intellettuale sta passando un momento molto duro perché noi in realtà non abbiamo… cioè in realtà abbiamo tante notizie ma ci mancano quelle fondamentali. Noi non conosciamo che poco, solo quello che ci passa la stampa, e sappiamo che la stampa e la televisione ci passa pochissimo.

L’intellettuale dovrebbe incominciare a fare delle ricerche autonome che sono invece inibite da chi non vuole che possa passare tutto. Ma, a parte questo, un tempo l’intellettuale aveva una funzione anche ideologica, cosa che ormai, con il crollo delle ideologie, sta perdendo. E allora, questo povero intellettuale, deve seguire altre piste, certamente può entrare nella pista del buonismo, quindi predicare a favore delle minoranze, dei gruppi che entrano in Italia. Però questo lo possono fare altri che non siano gli intellettuali.

Trovare un proprio campo specifico significherebbe inventarsi delle funzioni che fino a questo momento forse funzionavano, ma che da questo momento in poi non funzionano più. Certamente, compito dell’intellettuale è sempre quello di essere critico nei confronti del presente, dei progetti futuri, di vigilare, di suscitare dibattiti, ma soprattutto, secondo me, di fondere. È forse questo l’intellettuale lo può fare meglio degli altri, di fondere i vari saperi. Perché, con questa parcellizzazione obbligata del sapere si è persa di vista la fine, l’uomo come fine.

Alberto MoraviaC’è un famoso saggio di Moravia che ha scritto parecchi anni fa, ma che è ancora valido, cioè: che cosa vogliamo per il futuro? vogliamo avere sempre più soldi? vogliamo la ricchezza dell’industria? vogliamo rovinare il mondo? lo vogliamo salvare? cosa vogliamo fare con la ricerca medica, fino a che punto vogliamo arrivare? Ecco, direi che l’intellettuale dovrebbe proporre questi temi. Poi probabilmente non sta a lui risolverli. Ma avvertire verso dove stanno andando i destini dell’umanità. Evidentemente deve fare uno sforzo, superare gli steccati degli specialismi e trovare quel senso — che, per esempio, in un periodo storico in cui i saperi erano fusi, si chiamava Rinascimento. Tanto per fare un nome che dà proprio l’idea di come l’intellettuale abbia saputo rilanciare un progetto che non era soltanto culturale, ma che sapeva additare le possibili migliorie a uno stato. Ma migliorie non soltanto tecnologiche, migliorie per quanto riguarda la qualità della vita umana.

DP: Sempre in questo mondo globalizzato e globalizzante, la domanda è: riesce ancora ad esistere una letteratura “nazional-popolare”?

CB: Certo, si chiama glocal. È una letteratura nazional-popolare ormai. Popolare sicuramente sì, la stragrande maggioranza dei prodotti consumati dal punto di vista letterario sono popolari, perché sono forme narrative, diciamo seriali. Quindi, in questo senso sono i thriller, sono i gialli, sono i noir, sono i generi letterari che vengono sfruttati al massimo. Uno va, si compra un rosa, si compra un giallo.

Nazionale sì, c’è ancora qualche ambientazione a carattere localistico. Certo, sempre più si tende a dare uno sfondo che esula da quelle che sono le particolarità della nazione. Però, ci sono lavori come Gomorra — non avrei mai pensato di dare questa etichetta a un libro come Gomorra (ride nda) — che certamente fa capire la specificità della condizione italiana. Anche se ormai lo scenario, è in parte italiano e in parte globale. È la particolarità di una certa condizione tipicamente italiana. Per cui, il locale con il globale si fonde, e questo glocal è un po’ un etichetta che copre vari prodotti, tra cui quelli letterari.

Certamente, il fenomeno della letteratura è talmente ampio, che noi troveremo sempre il libro di memorie dell’infanzia in un’Italia agraria o appena in fase di sviluppo, o troveremo sempre chi ci parla della propria città, troveremo sempre chi ci parla di sentimenti eterni. C’è una grandissima produzione di testi letterali che escono in case editrici minori, magari a pagamento. C’è ancora questo bisogno di raccontare di sé, e di un passato che è legato alla specificità di un territorio. Sono prodotti che magari non passano nell’immaginario collettivo, o non vengono recepiti da una critica che è attenta a prendere, a segnalare, e a segnare una linea evolutiva della letteratura che va in un altro senso, perché dobbiamo anche saper selezionare, con tutto rispetto per chi si impegna fortemente in prima persona a scrivere romanzi di testimonianze o di memorie personali.

DP: Le vorrei fare delle domande un po’ più personali. Lei è stata allieva di un grande intellettuale, Giuseppe Petronio. Si dice che fosse un uomo dalla battuta pronta. Lei che ricordo ne ha, e qual è stato l’insegnamento più importante che le ha trasmesso?

CB: Parlare di un maestro è sempre imbarazzante, perché dovrei stare qui delle ore a raccontare. Era un uomo dalle mille risorse e dalla battuta prontissima, e soprattutto ci comunicava l’allegria della ricerca, cioè una ricerca e un lavoro su testi che non erano mai connotati da stanchezza o noia, ma sempre da una certa gioia di letture nuove. E, soprattutto, nonostante lui fosse legato ad una metodologia critica molto specifica, tollerava che qualcuno dei suoi allievi se ne allontanasse. Io, per un certo periodo, ho seguito questa linea di interpretazione sociologica del testo letterario e poi me ne sono allontanata. Lui lo aveva capito benissimo e abbiamo avuto delle discussioni molto vivaci, ma sempre molto rispettose.

Poi c’era questa possibilità che avevano i maestri di allora di aiutare l’allievo a farsi strada all’università, a replicare se stesso, cosa che purtroppo a noi è negata di fronte alla condizione tragica, economicamente tragica e culturalmente tragica, in cui vive l’università. Non abbiamo futuro. Ci è molto difficile sperare che un nostro allievo, magari cambiando completamente gli insegnamenti che noi abbiamo dato, possa raccontare di noi.

Mentre noi possiamo farlo di Petronio, e siamo in tanti a poterlo fare. Ha lasciato una scuola ampia — non soltanto a Trieste — avendo una personalità davvero d’eccezione. Ha creato allievi anche sconosciuti, che lui non conosce ma che hanno letto i suoi testi che passavano nei licei. Direi che Petronio è un nome che una larga fetta della popolazione italiana ha letto e commentato. Petronio ha potuto mettere me, per esempio, in una condizione di insegnare a mia volta ad altri giovani, cosa che io non posso più fare, e non soltanto io, ma tutta la nostra generazione. Di questo, Petronio, sarebbe molto triste.

DP: Proprio con Petronio lei si è laureata con una tesi sul teatro futurista. Le volevo chiedere come vede il teatro e la drammaturgia in Italia in questo momento? Ed è normale, secondo lei, che in questo paese si mandi in televisione ad ore proibitive, mezzanotte e oltre, un premio Nobel come Dario Fo?

Un primo piano di Dario FoCB: Rispondo dalla seconda parte della sua domanda: non soltanto Dario Fo, ma tanti altri non premi Nobel andrebbero promossi in prima serata. Io non capisco quale sia la logica di tutto questo , se non prettamente economica. Credo che poi la cultura paghi, credo che il pubblico non si allontani difronte ad un capolavoro, ad un testo impegnativo. Credo che magari in un primo momento si resti perplessi, ma poi ci si affeziona, si impara il linguaggio e lo si apprezza. L’arte affascina anche se non si capisce tutto. È proprio sbagliato strategicamente, oltre che culturalmente. Il teatro, purtroppo, è una struttura che ha costi altissimi di produzione. Deve basarsi su un pubblico, e il pubblico normalmente accorre davanti a spettacoli già collaudati, a nomi grossi, a nomi famosi. Ormai è viziato anche il pubblico teatrale. Ci sarebbe la necessità, ma questo se lo devono accollare lo stato o la regione, di produrre testi di autori non noti, di autori giovani che però hanno talento.

Invece, i teatri hanno ragioni che sono anche ragioni di cassa, altrimenti chiudono. Quindi, molto spesso, rimettono in circolo opere già viste e straviste, o puntano sulla notorietà di qualche interprete perché il pubblico è un po’ viziato televisivamente e accorre più numeroso laddove c’è un divo o una diva da sentire o da vedere. Io credo che sarebbe necessario invertire la rotta, non totalmente, ma riservare dei luoghi dove le compagnie meno affermate possano proporre ad un pubblico che può essere inizialmente élitario, poi magari aumentare di numero, dei testi sperimentali.

Per far questo c’è bisogno di un investimento, come nelle strutture scientifiche, così anche nei laboratori teatrali e cinematografici. La cultura costa, però dà anche molto. Costa inizialmente, ma sicuramente è lo strumento più adatto a migliorare la nostra qualità della vita perché ci permette di riflettere sui valori, di valutarli, di rifiutarli, di capire il mondo. Ed è un’arma potentissima, non dico per la felicità, ma per una serenità e soprattutto per una progettualità futura.

DP: Al convegno di Iperporti, lei diceva che le arrivavano molti scritti da parte dei suoi studenti. Si scrive anche teatro?

CB: Sì, si scrive anche teatro, io ricevo di tutto. Soprattutto testi letterari perché la mia competenza è quella, ma si scrive anche teatro. C’è stata anche un’iniziativa del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, due anni fa, di produrre in una sala minore, la Sala Bartoli, le opere nuove, scritte da giovani. Qualcuno di questi autori è stato anche un mio allievo, ho avuto questa soddisfazione. Però è stata un’esperienza durata poco per mancanza di finanziamenti e non per volontà politica del teatro.

DP: Quest’anno lei è la Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia. In un momento così, definiamolo confuso, dell’università, quali sono gli obiettivi, gli interventi che vuole fare, se ci sono?

Cristina BenussiCB: È chiaro che noi abbiamo strutture di diverso livello che sono in grado di dialogare con il Ministero: non sono tanto le assemblee di facoltà, quanto la conferenza dei rettori, o il CUM, per esempio. Noi possiamo portare a queste strutture quella che è la nostra esperienza. La mia esperienza personale è stata, al di là della tragedia che sta vivendo l’università, un’esperienza positiva perché ho notato come — rispetto alle insurrezioni studentesche di quando ero giovane io, volte piuttosto a minare un’istituzione — i giovani di oggi sono forse più responsabili, sono molto seri, molto bravi.

Io sono molto contenta del modo in cui i nostri studenti hanno affrontato il problema, non negando tutto quello che una riforma, ma soprattutto un taglio di finanziamenti, prevedeva. Tutti noi siamo consapevoli, a tutti i livelli, a tutte le componenti, che così com’è l’università non poteva andare avanti e che di una riforma c’era bisogno perché alcuni sprechi erano sotto gli occhi di tutti, e alcuni obiettivi andavano sicuramente ricalibrati.

Ma speravamo di essere chiamati a discutere su quali potessero essere i tagli da fare, e non tagli in blocco, alla cieca. Questo gli studenti e i colleghi lo hanno capito. Noi vogliamo cambiare qualcosa, non ci va più bene un’università così come l’abbiamo ricevuta. Ci rendiamo conto che va rammodernata, che va cambiata la classe docenti, che vanno messi dei giovani, che vanno chiusi alcuni sprechi e, invece, fatti degli investimenti su altri settori.

Devo dire che in mezzo a questo deserto che stiamo attraversando, senza sapere se riusciremo ad arrivare dall’altra parte perché veramente il rischio è che la chiusura dei finanziamenti faccia soccombere l’università, noi ci stiamo muovendo per cercare di comunicare quelli che sono i nostri obiettivi. Delle riforme ci volevano, su questo nessuno ha dei dubbi, ma non fatte in una maniera così rigida, e soprattutto senza cercare un dialogo con chi di università se ne intende di più perché la vive da molti decenni.

DP: Le ultime domande sono relative ai suoi lavori. Lei ha scritto numerosissimi saggi sugli scrittori più importanti del secolo passato. Le volevo chiedere: in un secolo così particolare come è stato quello scorso, quanto questo ha influito e quanto è stato importante per le opere prodotte?

CB: Questo secolo è stato importantissimo perché ha visto la trasformazione da un’economia agraria ad una industriale, con dei sommovimenti antropologici enormi. Ha cambiato proprio la testa, il cervello, il modo di vivere i rapporti familiari tra gli uomini. Ha visto due guerre mondiali terrificanti e ha visto l’olocausto — cosa mai successo prima —; e quindi ha posto sul tappeto una serie di problemi non da poco. Ha azzerato le ideologie, ha azzerato un percorso filosofico che è arrivato al nichilismo, questo bisogna ricordarlo. Ha fatto tabula rasa, e permette ora di ricostruire, cercare dei frammenti di un passato ma anche di immaginare un futuro. Il futuro che noi abbiamo difronte è apocalittico da tanti punti di vista.

E quindi, ancora una volta, io credo che gli autori e gli scrittori — per arrivare alla sua domanda — debbano fare un po’ il punto. Cioè, porsi con coscienza critica difronte a una tendenza, che non vede futuro per l’umanità per motivi di ecologia elementare, per motivi di risveglio di potenze industriali affamate che potrebbero in qualche modo modificare radicalmente le nostre abitudini, e per una serie di motivi infiniti che non sto qui a elencare. E sarà necessario che questa linea apocalittica trovi un punto di integrazione con un’altra linea che è quella della gestione comune. Noi sappiamo queste cose, ma ci comportiamo come se non le sapessimo perché tutto va avanti esattamente come prima.

Le opere hanno illuminato l’animo umano, le tensioni umane, le pulsioni umane, hanno fatto vedere le parti negative, distruttrici della personalità umana, ma anche quelle in cui è possibile fare in modo che questo inferno che noi stiamo vivendo diventi meno inferno. È chiaro che le opere letterarie importanti non sono mai ottimiste, hanno sempre questa visione critica del mondo, sanno benissimo che se non c’è una vigilanza continua, le cose andranno male, ma allo stesso tempo offrono uno spunto per l’analisi.

Io mi riferisco a opere che hanno investito tutti i continenti, tutto il mondo, non soltanto la cultura italiana. Credo che sia giunto il momento di invertire la rotta. Tutti ci dicono che stiamo andando male in tutti i sensi, in tutti i settori. Si tratta allora di trovare che cosa ci può essere di bene. Ricordo solo una cosa: sono stati i letterati, ancora alla fine dell’Ottocento, a essere molto critici con un tipo di sviluppo finanziario. La letteratura si è accorta immediatamente, e posso anche dire alcuni nomi come Valera, Gadda e tantissimi altri — Gadda evidentemente più di recente — che la riproduzione del denaro fine a se stessa attraverso mezzi che non implichino un lavoro ma la furbizia del soggetto, che possono coinvolgere in un crack delle persone innocenti che non hanno speculato, era sbagliata.

Italo SvevoLo diceva anche Svevo, e La coscienza di Zeno, che pure è un’opera apparentemente mirata a risolvere un proprio problema di nevrosi personale, è un libro di condanna durissima nei confronti di questa linea evolutiva, ed è un libro di condanna durissima verso la guerra. Forse il libro più feroce contro la guerra che sia stato mai scritto… le ultime terribili pagine, lì stiamo andando se il letterato, se l’intellettuale non fa vedere la complessità di alcune scelte. Come alcune che possono sembrare innocenti, di conquista territoriale ed economica, e che in realtà rovinano l’intero sistema.

DP: Le volevo chiedere: lei si è concentrata su quella che è stata l’influenza della cultura ebraica sugli scrittori, ci può parlare di questa sua ricerca?

CB: Io l’ho finalizzata allo studio della letteratura triestina che, come si sa, è una letteratura fortemente impregnata di cultura ebraica. Almeno fino alla metà del secolo erano ebrei i maggiori scrittori, tranne Slataper, erano tutti in qualche modo di matrice ebraica. È stato, forse, il motivo per cui la letteratura triestina è così famosa in Italia e nel mondo. L’ebreo ha propria la natura di espatriato che cerca una patria, ma non sa dove sia — adesso lo sa ma non tutti gli ebrei possono andare in Palestina, quindi evidentemente è una patria ideale.

Coglie la differenza tra sé, la propria cultura e quella del paese che lo ospita. Vive in una struttura che è matrilineare come passaggio religioso, come derivazione religiosa. Per questi e per tantissimi altri motivi, ha la capacità di esprimere una visione del mondo estremamente problematica, non è mai certo di nulla e analizza continuamente se stesso. Non è un caso che il padre della psicanalisi abbia avuto un’origine ebraica, proprio perché è la tipicità di una cultura che continuamente è obbligata a confrontarsi con l’altro.

Questo è un esercizio ottimo, non soltanto per chi lo fa, ma anche per chi entra in contatto con una descrizione del mondo che non coincide con i normali parametri. Il nevrotico, l’inetto dei romanzi di Svevo sono personaggi da un certo punto di vista positivi, perché ci mostrano quali sono i pericoli che incombono, quali sono le storture, quali sono gli stereotipi, e qual è un corretto modo di valutare le cose, cioè guardandole da almeno due punti di vista, sempre.

DP: Ultima domanda: Trieste è una città atipica perché ha dato i natali a numerosissimi scrittori. Che cosa ha Trieste di “magico” per la letteratura?

CB: Io credo che scrittori che sono passati alla storia, abbiano avuto la fortuna di vivere in un momento particolarmente vitale di Trieste, laddove si mescolavano tante culture. Continuano a mescolarsi culture a Trieste, anche se in maniera diversa e con strumenti diversi. Certo, Trieste ha anche un’altra fortuna, secondo me grande, ed è quella di avere un pubblico, un pubblico di lettori, di spettatori cinematografici e teatrali immensamente più interessato e più numeroso rispetto ad altri luoghi.

Direi che la cultura che circola a Trieste è mediamente forte, noi abbiamo autori di vari livelli, dai massimi livelli, a quelli medi… però, c’è una forte componente di scambio tra chi scrive e chi legge. I nostri autori si lamentano, quasi tutti, di non avere il pubblico adatto alla loro capacità espressiva, però sono tutti autori che si confrontano con un passato che ha lasciato dei segni molto forti nella storia della cultura, sono tutti scrittori che non si misurano solo con la tradizione triestina, proprio la posizione geografica di Trieste, così infelice, così emarginata obbliga chiunque di noi a muoversi e a viaggiare molto, ad andare, a conoscere, a confrontarsi.

Fotografia di TriestePerché è difficile che qualcuno venga apposta a Trieste, al massimo ci si passa, e quindi sono i triestini che si muovono. E continua a riprodursi questa situazione di scambio con culture ed esperienze diverse come quella situazione di scambio che una volta si viveva stando in città. Soprattutto c’è una risposta anche alle conferenze che si fanno e che sono numerosissime a Trieste. Il pubblico è abituato a seguire, ad andare, forse perché l’età della popolazione è abbastanza alta e hanno più tempo… Sicuramente c’è sempre qualcuno che ascolta, cosa che non succede nelle grandi città. C’è questo scambio osmotico tra pubblico e autore che è la linfa vitale attraverso cui la letteratura può riprodursi, o perlomeno, pensare di farlo.

Dal 19 al 22 novembre si è tenuta a Trieste, presso la Galleria Tergesteo e il Teatro Miela, la prima edizione di Iperporti – Scali internazionali di letteratura, festival letterario internazionale per la direzione artistica di Christian Sinicco. La manifestazione prevedeva dibattiti, incontri con autori, presentazioni di libri, letture, performance e spettacoli. L’evento è stato organizzato dalla Casa della Letteratura di Trieste, l’associazione che riunisce ben quindici realtà culturali da tempo impegnate nella promozione della letteratura.

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