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Cinema

Abitare il cinema (II)

La cucina

Segue da Abitare il cinema (I)

Cous Cous di Abdellatif KechicheCucine in celluloide: sono nostre nel battito di ciglia che accompagna lo scorrere delle immagini. Le abitiamo per due, tre ore al massimo, poi lo schermo nero. Luoghi che ci diventano familiari nella crudele chiaroveggenza della loro fatuità, tuttavia luoghi, sempre e comunque. Alla luce delle “proposte d’arredo” esposte di seguito, si può affermare che gli ultimi vent’anni abbiano intensificato ulteriormente un processo cominciato alcuni decenni prima: il progressivo affrancamento della cucina da una sfera prettamente utilitaristica, verso lidi sconosciuti e bellissimi di creatività e scambi umani.

La cucina non è più luogo di segregazione, covo di domestiche e cuoche, è divenuto bensì un posto in cui si sperimenta, in cui non ci si limita più semplicemente a produrre, ma si crea. È il luogo in cui la famiglia ritrova la ragion d’essere della sua struttura nucleare o nel quale, talvolta, perde il contatto con la sua natura disgregata, ed erige barriere che la separino dalla visione concreta della realtà. Ma per la natura multiforme delle nostre vite forse nessuna di queste cucine ci è totalmente sconosciuta. A pensarci bene sono luoghi in cui abbiamo abitato.

Cucine in muratura

Le mani, il contatto con la materia, la poesia del gesto: l’artista demiurgo, arcano incantatore, infonde l’essenza, si fa immenso per poi crollare su se stesso, esanime ma realizzato.
Quando Babette giunge profuga in uno sperduto villaggio della Danimarca, una notte di settembre del 1871, non ha più nulla che la tenga legata alla patria (una Francia devastata dalla guerra civile), soltanto un biglietto della lotteria che le viene rinnovato di anno in anno da un amico. Non porta con sé alcun bagaglio, solo la forza della disperazione. Nella notte piovosa del suo arrivo, Babette trova ospitalità presso una coppia di sorelle, figlie di un pastore protestante, che la prende a servizio. Quattordici anni dopo, la vittoria di un premio sostanzioso alla lotteria francese consentirà alla donna di ricambiare la generosità delle sue benefattrici e soprattutto di tornare ad essere, per una sera, la grande artista che era stata in un passato celato.

Il pranzo di Babette, film di Gabriel Axel del 1987, tratto dall’omonimo romanzo di Karen Blixen, affida all’ambiente della cucina e alle espressioni creative a cui esso può dare luogo il messaggio fortissimo di cui si fa latore: l’opera d’arte come necessità, bisogno, momento di pienezza che necessita di sfogo; l’artista redivivo che riprende vigore un’ultima volta prima di soccombere. L’arte di Babette è proprio quella di saper trasformare un semplice pasto in un’avventura dei sensi che travolge corpo e spirito; lo stesso insediarsi della donna nella comunità danese sembra scandito da un suo progressivo familiarizzare con le pietanze della zona, la loro realizzazione, il reperimento degli ingredienti.

Babette scena tratta dal film Il pranzo di Babette di Gabriel Axel 1987

Ma è con la vittoria dei 10.000 franchi alla lotteria, e con la decisione di investirli in un pranzo in onore del decano defunto, che l’opera d’arte prende definitivamente forma: Babette cessa per un giorno di essere una donna di servizio e torna ad indossare i panni, smessi ormai da tempo, dello chef del prestigiosissimo Cafè Anglais di Parigi. Un luogo d’altri tempi, perennemente immerso nella semioscurità come la cucina in cui opera abitualmente la donna, diventa allora uno scrigno di pietra, ravvivato appena dalla luce perenne della fiamma viva. E, come nel laboratorio di un’alchimista, le mani affusolate, possedute dalla danza della creazione, trasformano ogni ingrediente nell’esperienza del sublime.

Brodo di tartaruga, cailles en sarcophage, vini d’inestimabile valore: un semplice pranzo diventa un vero atto d’amore verso se stessi, verso l’altro, verso l’artista. Persino lo scetticismo della comunità verso l’esperienza sensoriale indotta dal cibo viene fugato da una ritrovata armonia, che appiana piccole grandi incomprensioni createsi col tempo. All’apice delle proprie potenzialità, infatti, l’artista produce gioia, ma nella dolorosissima consapevolezza di nonpoter protrarre in eterno la sua opera creatrice. E alle sorelle che la ringraziano per il pranzo, Babette risponde: “non era solo per amor vostro”. Lontana da casa, dal Cafè che l’ha resa famosa, torna per un’ultima volta ad infondere con le proprie mani il soffio creativo, sapendo di dover rimandare alla fine della vita terrena ogni altra soddisfazione alle sue necessità d’artista.

Un topo in cucina

C’è un filo impercettibile che collega quella cuoca francese, capitata in un villaggio danese alla fine del mondo, con un topolino dei sobborghi di Parigi dalle spiccate velleità culinarie. A vent’anni di distanza, un film d’animazione riporta sullo schermo un messaggio affine a quello del film di Axel, e lo fa con altrettanta efficacia. Ratatouille narra la storia di Remy, un topolino con gusto e olfatto particolarmente sviluppati, che sogna l’alta cucina (da fare e da mangiare). Complice il susseguirsi degli eventi, il passaggio dall’arrostire funghi sull’antenna televisiva al dirigere un cuoco inesperto nella cucina di uno dei più famosi ristoranti di Parigi sarà pressoché immediato: chiunque può cucinare e dovunque si può cucinare.

Ratatouille Walt Disney

Sotto l’insegna dell’apertura al nuovo e al diverso e la convinzione che l’arte possa nascondersi in posti imprevedibili, la cucina torna ad essere luogo privilegiato in cui mettere in scena la necessità della creazione. E se un piatto povero a base di verdure come la ratatouille sortisce lo stesso effetto di una madeleine proustiana su un critico intransigente, si può essere certi di trovarsi di fronte ad una natura geniale, benché racchiusa nel corpo di un minuscolo roditore. Anche qui l’atto creatore produce gioia ma è destinato a non poter durare: d’altra parte un topo tra i fornelli mette a dura prova anche le menti più aperte. Ma chissà che una cucina a misura di Remy non si possa in fondo trovare…

Cucina etnica

Dopo aver perso il lavoro presso un cantiere navale nel porto di Sète, vicino a Marsiglia, il sessantenne tunisino Slimane deve reinventarsi e decide quindi di ristrutturare un’imbarcazione prossima alla demolizione per trasformarla in un ristorante su acqua. Specialità: cous cous di pesce.
Con queste prerogative ha inizio Cous cous di Abdellatif Kechiche, un film minuscolo ma con un respiro umano inimmaginabile. Anche qui, come nei precedenti casi, la cucina ha un posto privilegiato, nonostante venga declinata con modalità e funzioni differenti. Interessante notare come il regista la porti sullo schermo anche quando non ha un ruolo esplicito nell’economia delle scene, quasi fosse l’immagine stessa della domesticità, della vita in famiglia, dell’appartenenza ad una collettività. Nonostante la tentazione sia forte, sarebbe però riduttivo ricondurre la cucina, con i piatti tipici di una determinata cultura, all’ambito in cui la comunità straniera coltiva e protegge le proprie radici: la famiglia riunita intorno al tavolo per consumare il cous cous di pesce preparato dalla madre (ex moglie di Slimane) vive un rituale che in parte esula dal riconoscersi membri di una stessa etnia.

Mentre il rapporto con il cibo diventa sempre più materico, mentre le mani usate per mangiare si sporcano di semola, anche i rapporti tra le persone perdono qualsiasi filtro, sfiorando vette di autenticità quasi inesplorate al cinema. Sono cucine spoglie quelle di Cous cous, prive di attrattiva estetica, ma che garantiscono una collaborazione ed interazione umana senza precedenti; cucine che permettono di superare certi piccoli conflitti tra le persone (Slimane chiede all’ex moglie di cucinare il suo piatto forte nel ristorante che intende aprire); cucine che permettono di sperare, perché no, in un domani più prospero, un domani in cui si possa rinascere un po’ più padroni del proprio destino.

Mangiare bere uomo donna : comunicare con il cibo

In questa pellicola del 1994 il taiwanese Ang Lee indaga con tono dolce-amaro la vita di ogni giorno — con i piccoli grandi bisogni citati nel titolo — e lo fa servendosi di una storia corale le cui singole ramificazioni tornano di tanto in tanto a congiungersi per mezzo del cibo. Chu è uno tra i più grandi cuochi di Taipei, vedovo, con tre figlie ormai adulte che non si decidono ad andarsene di casa: ha perso il palato ma continua a cucinare, forse perché conosce il miracoloso potere “associativo” che la sua abilità possiede. Le vite di queste quattro persone, infatti, raramente entrano pienamente in contatto, gli unici momenti di aperto confronto e di scambio sono quelli vissuti a tavola.

Mangiare bere uomo e donna di Ang Lee 1994

Davanti a succulente portate di cui il regista mostra con finissima abilità le preparazioni, i personaggi sembrano trovare il coraggio di mostrarsi e, pur non mettendosi mai totalmente a nudo, finalmente tornano a comunicare. La cucina sembra ricucire una serie di rapporti usurati dal tempo e dall’incapacità di operare dei cambiamenti, in un certo senso si fa voce, e permette quindi lo scambio. Non è un caso che non s’indugi mai su un’eccessiva enfasi descrittiva delle prodezze culinarie mostrate: come medium comunicativo la straordinaria cucina di Chu perde in eccezionalità e diventa qualcosa di meravigliosamente familiare. Familiare come le parole che usiamo ogni giorno.

L’amore ha due facce: estasi e prigionia

Il contatto con la materia e le pulsioni sensoriali appagate dal cibo hanno portato a stabilire un binomio che vede quest’ultimo strettamente collegato alla sfera sessuale. Da covo di artisti, la cucina è diventata nell’immaginario collettivo anche un luogo in cui dare sfogo a passioni incontrollate e incontrollabili, in un vortice di sensualità giocata a vari livelli. 9 settimane e ½ di Adrian Lyne narra le vicissitudini sentimentali-erotiche di una gallerista ed uno yuppie. In particolare, si fa interprete di questo torbido intreccio di cibo e sesso in una scena centrale del film, in cui John (Mickey Rourke) dopo aver fatto chiudere gli occhi ad Elizabeth (Kim Basinger) ed averla fatta sedere sul pavimento della cucina, le fa assaggiare svariati cibi: dall’uva alla gelatina, dal peperoncino alla panna…quando lui le cosparge il corpo di miele, l’estasi erotica si sta facendo progressivamente più concreta e l’intreccio fra i vari sapori dei sensi può dirsi completo.

Ma la cucina non è sempre luogo di passioni corrisposte. Per Francesca Johnson (Meryl Streep) è una prigione, come una scatola chiusa in cui giace, protetta dall’illusione di vivere una vita che corrisponde alle sue aspettative. Una tipica cucina di campagna che forse una volta trasmetteva calore ma dalla quale ora trasuda soltanto l’odore stantio dell’abitudine: i pranzi con i figli e il marito, e poco più, in un luogo in cui passa la maggior parte delle sue giornate. Ma paradossalmente, quella stessa stanza delegata alla routine diventa la testimone principale del nuovo legame che la donna stringe con Robert Kincaid (Clint Eastwood), fotografo del National Geographic, casualmente da quelle parti per fotografare i ponti coperti poco distanti: in cucina le prime parole tra i due, un ballo intimo, i primi baci, il doloroso addio.

I ponti di Madison County di Clint Eastwood anela continuamente a divenire idillio, ma il presentimento della sua negazione è sempre presente: nemmeno la cucina riesce ad affrancarsi dal suo ruolo di crogiolo di sofferenze sopite. Ritrovarsi sempre lì equivale forse a tornare ininterrottamente al punto di partenza, con la volontà frustrata dall’impossibilità di deviare tragitto.

Cucine che scaldano il cuore

C’è infine un’ultima categoria di cucine: luoghi in cui nonsi percepisce l’arte di Babette e Remy, la profondità relazionale di Cous cous, la complessità emozionale degli ultimi film citati. Sono semplicemente luoghi in cui si vive bene. È questo il caso di Pranzo di ferragosto di Gianni Di Gregorio. In una casa letteralmente invasa da vecchiette “parcheggiate” da parenti poco propensi a prendersene cura nel giorno di festa, Gianni, uomo di mezz’età che vive con la madre, si ritaglia in cucina uno spazio personale dove mettere in pratica le sue attitudini all’arte culinaria. Il cibo diverrà un mezzo di comunicazione che permetterà vivacissimi e teneri scambi tra le donne in questione. Donne di età parecchio avanzata che fanno i capricci, rivendicano indipendenza e, in nome del comune timore per la solitudine, si vogliono bene e si fanno compagnia. Nulla di eccezionale, insomma, praticamente la normalità. Ma sono forse queste le cucine più preziose, spesso addirittura posti che scaldano il cuore.

Segue con Abitare il cinema (III)

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