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Palcoscenico

L’Odissea di Cesàr Brie

Dieci anni dopo aver composto Iliade, il Teatro de Los Andes si presenta al pubblico con un’Odissea. Lo spettacolo è di notevoli dimensioni: nove attori, un impianto scenico semplice (fatto di canne di bambù), ma molto complesso nel meccanismo (una rotaia aerea dove sono attaccate le canne).

Odissea di Cesar Brie e Teatro de Los Andes

È un evento per il Teatro de Los Andes produrre uno spettacolo così grande, il loro gruppo è completamente autofinanziato e normalmente trova la sua formazione tipo in quattro attori in scena. Si costruiscono tutto, dalle scene alle coreografie. L’Odissea ha avuto una gestazione di tre anni.

César Brie rileva che il lavoro è stato molto diverso dall’Iliade per due motivi principali: l’Iliade tratta della violenza ed è ambientata in uno spazio/tempo sostanzialmente unico, invece l’Odissea ha come tema il viaggio e abbraccia un periodo lungo (stimabile intorno ai quattordici anni, sette all’andata e sette al ritorno). L’Iliade veniva molto rappresentata nel passato per la sua forma “a blocco”, mentre l’Odissea, avendo una struttura multiforme, è più rappresentata nel Novecento perché rispecchia di più il presente.

Ma di che Odissea stiamo parlando? Un’Odissea d’Oltreoceano che riguarda il mito omerico con occhi boliviani: ogni personaggio è rivisto in chiave boliviana, lo studio delle danze è stato ricercato nella cultura sudamericana così come l’uso degli strumenti musicali.
Il tema sostanziale è la migrazione, il viaggio della speranza che porta i boliviani negli Stati Uniti. La Bolivia è un paese con nove milioni di abitanti, tre dei quali sono emigranti. L’ammontare complessivo di danaro che gli emigrati mandano nel loro paese d’origine è superiore al denaro che le multinazionali lasciano sul territorio.

Il Teatro de Los Andes parte da qui, ma non limita l’Odissea al tema della migrazione. César Brie ritrova e reinterpreta tutti gli archetipi del testo e li lavora assieme agli attori.
Il Teatro de Los Andes è un gruppo, e ognuno è creatore al suo interno. Tra i componenti c’è una distinzione di ruoli, ma non di potere: vince sempre l’idea migliore e ogni idea nuova è innanzitutto ‘mostrata’ agli altri. Alla fine è César Brie a decidere, ma ciò non toglie che, più di qualche volta, abbia saputo rinunciare a una sua idea perché trovava in altre proposte delle soluzioni più efficaci. “Non bisogna mai innamorarsi delle proprie idee — dice Brie — amarle sì, ma rimanerne distaccati”.

La prima tappa è stata cercare “la nostra Odissea”: quando sono stato io Ulisse? Quando ho aspettato come Penelope? Chi sono i miei mostri “Polifemi”? Come agiscono su di me i Lotofagi? E così via… A queste e ad altre domande gli attori hanno risposto in forma teatrale, attraverso la ricerca, l’improvvisazione.
Per César Brie questo lavoro è stato utile, più che per capire il testo, per capire con chi si stava lavorando, per creare uno spazio intimo. Ne è stato esempio il viaggio nell’Ade, che diventa una ricerca sui morti dove ognuno condivide — con micro elementi teatrali — la propria esperienza. È essenziale costruire un humus fertile, comune, che poi ridarà armonia sulla scena.

Odissea di Cesar Brie

Da queste premesse, Brie è poi passato a spiegare il percorso fatto attraverso il testo. Nei primi quattro libri si sviluppa la cosiddetta Telemachìa, il viaggio di Telemaco che va in cerca del padre, poi c’è Ulisse nella terra dei Feaci prima del viaggio di ritorno verso casa, dove torna re contadino sulla sua isola: l’eroe torna a Itaca, deportato. Il finale dovrebbe rappresentare la guerra civile che viene fermata dagli dèi ma per il Teatro de Los Andes l’opera si conclude in modo un po’ diverso.

Le tappe della migrazione dei boliviani diventano le tappe del libro. Nella migrazione s’incontrano i mostri, come Polifemo. Per chi non cade in mare e riesce ad arrivare in Guatemala con i gommoni, c’è un treno merci che risale tutto il Centroamerica e arriva fino in Messico. È chiamato dai migranti “la bestia” e qualcuno ha disegnato “666” sui vagoni. Nel viaggio della speranza si corre sulla groppa dell’Anticristo, clandestinamente: questi vagoni sono puntualmente assaliti da truppe di banditi che derubano la gente, stuprano le donne, ammazzano per niente. Ci sono persone che cadono dal treno e magari perdono le gambe sotto le rotaie.

Lungo questa linea qualche casupola di suore o qualche organizzazione umanitaria accoglie questi poveracci. Arrivati in Messico, c’è tutto il deserto da attraversare. César fa notare come oggi non si passi più da El Paso: ci sono mille chilometri di muro nel deserto fino al confine con l’Arizona. Anche lì ci sono dei traghettatori, delle figure ambigue, visti come degli infimi dagli americani e visti come dei “salvatori” dai migranti. Anche se non sono angeli, son gli unici che conoscono la strada. In questa zona ci sono ronde di gruppi di volontari armati, dotati di cannocchiali a infrarossi e di tutte le diavolerie tecnologiche necessarie a “sollecitare” i clandestini a non entrare negli Usa. Tutti questi passaggi sono rappresentati nello spettacolo.

Cesar BriePer César Brie Ulisse, alla fine, è quello che se la passa meglio: resta per anni da Calipso, donna della passione amorosa, che gli promette eterno amore, ha tutto quello che vuole, ma non gli basta e decide di tornare. Poi va dalla maga Circe, un altro annetto di erotismo puro, i suoi amici diventano porci, ma per lui non va neanche male. Da lì scende nell’Ade e incontra sua madre che piange. È morta non di malattia ma di crepacuore per non averlo visto tornare.

Qui César apre una parentesi sulle sirene. Le sirene omeriche non sono donne-pesce (frutto dell’immaginario medievale), bensì arpie alate. Gli uomini non muoiono mangiati da loro ma, assuefatti dal loro canto bellissimo, muoiono di fame e di sete. César Brie ricollega questo aspetto al tema della memoria, una memoria che imprigiona, che lega al passato e non permette di vivere più nel presente, e così costringe alla morte. La memoria e il pericolo di vivere il ricordo come una prigione sono argomenti molto sentiti da chi emigra. Brie è partito da Buenos Aires a diciannove anni e racconta dei suoi conterranei che si ritrovavano a piangere il paese lasciato, bevendo mate insieme.

In Bolivia, Sireno è lo sciamano che suona uno strumento. Aspetta la notte vicino a un corso d’acqua suonando e bevendo alcol, e a quel punto arriva un demone che comincia a suonare lo strumento. Lo sciamano dev’essere pronto a rubargli lo strumento e scappare via. Se non riesce a scappare impazzisce.
È chiaro il riferimento alle sirene, se l’uomo non riesce a scappare dal demone che lo tiene attaccato alla memoria impazzisce, muore. Lo strumento, una volta suonato dal demone, inoltre, ha in sé tutte le musiche del mondo e sta allo sciamano trovarle.

Il discorso di Brie sembra chiaro: l’erotismo puro di Circe strega il corpo e lo porta a confrontarsi con le figure ancestrali del mondo dei morti. Morti che sono figure ambivalenti, portano con sé il rischio di imprigionare nel passato, ma allo stesso tempo sono la chiave per la vera conoscenza. Reagire al passato per rendere fecondo il presente. L’artista deve reagire con opere, ridare alla comunità qualcosa che ha già ricevuto, anche se attraverso ferite.

César Brie parla del suo lavoro, di come abbia modificato il testo alla luce delle prime prove, di come sia stato difficile montare l’inizio e la fine, di quanto sia stato necessario per lui viaggiare con lo spettacolo per avere una reale percezione del valore del testo, che non fosse comprensibile — sia a livello di testo che a livello emotivo -solo ai boliviani. Bisogna saper tagliare per poter rendere il lavoro universale.

Ci ha parlato della creatività dei suoi attori-poeti, nel caso specifico si è soffermato sull’attore che interpreta Ulisse, Gonzalo Callejas e che ha creato anche la scenografia. Un giorno, dopo che Brie aveva già pensato a come allestire la scena, Gonzalo gli espone un’idea… Dopo un mese il meccanismo di canne appese è installato, César riconosce che è ottimale perché fa funzionare tutto il testo ferma restando la concezione di fondo dello spettacolo.

Odissea di Cesar Brie e Teatro de Los Andes

Ci sono stati grossi problemi sul finale: Brie voleva concludere con il deus ex-machina che bloccava la guerra civile, ma poi ha trovato più interessante concludere con ciò che aveva cominciato, e cioè con gli attori che parlano di loro stessi, della loro personale Odissea. César ha avuto modo di fare una parentesi su Humillados y ofendidos (Umiliati e offesi) un video documentario che ha girato il 24 maggio 2008 a Sucre — capitale costituzionale della Bolivia — durante la visita del presidente Evo Morales. Il malcontento degli abitanti di Sucre verso il governo è degenerato in violenza razzista verso gli indios: sono stati picchiati, obbligati a marciare seminudi, a inginocchiarsi e a bruciare le bandiere.

Infine, alcune domande hanno permesso a César Brie di ripercorrere la sua avventuro vita e le sue esperienze teatrali: ha raccontato di quando è arrivato in Italia e recitava nei manicomi con Danio Manfredini, lo spaesamento per la fine di quell’avventura e poi il ritorno in Sudamerica e la realizzazione del Teatro de los Andes. La fede nel suo lavoro e la passione che è riuscito a trasmettere gli sono valsi l’ applauso e la commozione della platea.

Odissea (2009)

Produzione: ERT in scena
Testo, luci, regia: César Brie
Con: Lucas Achirico, Cynthia Callejas, Gonzalo Callejas, Mia Fabbri, Alice Guimaraes, Karen May Lisondra, Paola Ona, Ulises Palacio, Juliàn Ramacciotti, Viola Vento
Costumi: Giancarlo Gentilucci, Teatro de los Andes
Scenografia: Gonzalo Callejas
Musica: Pablo Brie
Direzione musicale: Lucas Achirico
Aiuto regia: Daniel Aguirre, Alice Guimaraes
Produzione italiana: Teatro de los Andes, Emilia Romagna Teatro Fondazione, Fondazione Pontedera Teatro
In collaborazione con: Armunia Festival Costa degli Etruschi, Fondazione Fabbrica Europa

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