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Palcoscenico

Slava’s Snowshow, quando il circo si fa arte

Slava Polunin arriva in scena ed è magia. Dopo due anni è tornato al Politeama Rossetti di Trieste lo spettacolo del clown russo più famoso al mondo, in tournée con questo lavoro da quasi vent’anni. Dal 2004 al 2006, Slava’s Snowshow è stato attrazione fissa off-Brodway e dal 1994 alcuni numeri sono stati inglobati in Alegria dal Cirque du Soleil.

Slava Snowshow

Polunin ha ricevuto riconoscimenti e premi di ogni genere, come l’Olivier e il Time Out Award a Londra, il Desk Award a New York, lo Stanislavskij a Mosca e il Festival Critics Award a Edimburgo. L’artista e la sua compagnia — fondata nel 1979 — danno nuova valenza al ruolo del clown. La sua eccentrica ed espressiva pantomima gli è valsa una grande popolarità. Aisyai, il suo clown, è una figura commovente e ironica. Vestito di una tuta gialla da lavoro e con un paio di pantofole rosse soffici, questo personaggio meditabondo e gentile è nato prendendo spunto dalla tristezza poetica dei clown di Leonid Enibarov, dalla raffinata filosofia della pantomima di Marcel Marceau, dall’umanità e dalla comica amarezza de grandi film di Chaplin.

Slava definisce così il suo spettacolo: “È un rituale magico e festoso costruito sulla base delle immagini e dei movimenti, sui giochi e sulla fantasia; è un teatro che nasce inesorabilmente dai sogni e dalle fiabe; ricco di speranze, di desideri e di nostalgie, di mancanze e disillusioni. È un teatro in continuo mutamento che si nutre dell’improvvisazione spontanea nel rispetto scrupoloso della tradizione; è un teatro che si colloca nel filone della sintesi multi-sfaccettata contemporanea, al confine tra vita e arte e crea un‘unione epica intimistica tra tragedia e commedia, assurdità e spontaneità, crudeltà e tenerezza. È un teatro — infine — che sfugge a qualsiasi definizione, all’interpretazione unica delle sue azioni e da qualsiasi tentativo di limitazione della libertà”.

Per capire, è necessaria un’ascesi della parola. Le righe che ho aggiunto qui sopra rischiano di perdere il proprio valore per il fatto che siamo abituati a leggerne di simili su ogni volantino o recensione o evento debitamente sponsorizzato. Lo strapotere della pubblicità determina la gerarchia degli eventi importanti e questo permette, a chi è stato foraggiato, di poter dire e abusare di qualsiasi parola. È avvilente vedere come anche la stampa — comprese importanti testate nazionali — sia sottomessa a un ordine di avvenimenti e non riesca, se non in rari casi, a fare in modo che quello che si legge rispecchi, in qualche modo, ciò che si va a vedere.

Slava Snowshow

Come nei mercati finanziari subiamo la crisi di un’economia fittizia, così nella cultura — per non parlare della politica — subiamo la crisi della parola. Slava rappresenta un caso — continuando la metafora — di “economia reale”: quello che si va a vedere corrisponde alla definizione che l’autore dà del suo lavoro.

Il linguaggio del circo contemporaneo

Slava’s Snowshow “è un teatro che si colloca nel filone della sintesi multi-sfaccettata contemporanea”: i numeri clowneschi trovano forma nuova in una regia unitaria, ma non lineare. Il circo, per il suo carattere voyeuristico, si presta male a essere costretto a raccontare una storia lineare, quanto il mondo contemporaneo fatica a trovare un’unità: sempre più frammentato, polverizzato in tutti i suoi aspetti. Da sempre, il circo si rifà a immaginari onirici o surreali ma, nella maggior parte dei casi, queste ambientazioni — che ritroviamo tanto in circhi cosiddetti “classici” quanto in espressioni del nouveau cirque — sono fini a se stesse: si limitano a rendere più accattivante il contesto in cui è giocato il numero. Jauss direbbe che rompono “l’orizzonte d’attesa” del pubblico, ma non tendono a ricrearne uno nuovo. Tutto è solamente forma, ma in che senso?

La forma diventa una protezione, la fissità del numero e il repertorio riparano l’artista dalla difficoltà di mostrarsi sempre nudo in scena. La forma si fissa, si fa perfetta — nel caso del Cirque du Soleil, diventa esempio fenomenale di business. Nel circo, il rapporto tra spettatore e pubblico è molto più spudorato che a teatro. L’artista di circo è completamente esposto durante la sua performance: un minimo errore può inficiare completamente il numero e tutti i mesi di preparazione che ci sono voluti a prepararlo. Per questo nel circo ci sono sempre delle regole ferree e così il processo di trasformazione o di rimodernamento è sempre molto lento. Siamo vicini al romanzo d’appendice che sfrutta regole funzionali ad attirare il pubblico e poco si cura di volergli dire esattamente qualcosa, vendere è sufficiente.

Nel territorio del melodrammatico

Nel circo il pubblico diventa spesso mercenario, si pone quasi in sfida, come i melomani pronti a dichiarare eterno amore al tenore, ma inesorabili alla prima stonatura. Questa tensione rende difficile il “dialogo” tra lo spettacolo e lo spettatore. La comunicazione si ferma alla “calligrafia”, potremmo dire. Il pubblico è pronto, con la lente, a giudicare se le parole sono state scritte bene e gode se la perizia risulta affermativa. Steiner direbbe che è tutto mostrato troppo da vicino, non c’è la distanza necessaria, il respiro, per sentire quello che lo spettacolo deve dire e lo definirebbe come fenomeno kitsch. Il più delle volte questa consapevolezza porta registi e artisti a concentrarsi sulla pura estetica e a dimenticarsi di poter parlare, attraverso i corpi, al pubblico. Tanto più in un periodo di crisi della parola dove il corpo potrebbe diventare davvero geroglifico; potrebbe, attraverso l’immagine, comunicare ancora qualcosa di “incarnato”, di profondo.

Slava Snowshow

Nel caso di Slava è diverso, la sapienza tecnica è talmente elevata e lo sguardo sul mondo è così affinato che è possibile comunicare senza parole. La frustrazione della prestazione circense (quella che crea la suspense, che fa sfogare gli applausi dopo numeri difficilissimi) svanisce e apre le porte alla poesia. È qui che si crea un nuovo mondo, un nuovo orizzonte d’attesa.

È interessante notare come Slava riesca a parlare proprio attraverso il kitsch o il melodrammatico intrinseci nella forma circense. Ciò gli è possibile perché riesce a portarlo all’estremo tanto da sdrammatizzarlo e demistificarlo. Il kitsch, come il melodrammatico o il pornografico, non può che essere preso sul serio per rimanere tale, altrimenti “passa di categoria”, diventa altro, nel nostro caso arte. Mi riferisco allo spettacolo: certe musiche utilizzate (la colonna sonora di Momenti di gloria o di In the mood for love, per non parlare della tempesta finale su Oh, fortuna di Carmina Burana), oppure il riempire il palcoscenico di effetti come fumo, bolle di sapone e cascate di coriandoli, sarebbero soluzioni, nel 98% dei casi, impossibili tanto sono pacchiane. Qui, invece, si trasformano in un occhiolino che il maestro fa al pubblico: si crea complicità, si rompe la barriera, lo spettatore non è più critico osservatore, ma parte di un nuovo mondo e, alla fine, parte dello spettacolo.

Attraverso la tradizione

“Lo spettacolo dal vivo — afferma Gigi Cristoforetti — si caratterizza per il linguaggio che adotta. Il linguaggio definisce il rapporto di una disciplina con il proprio tempo e con il proprio pubblico. Il circo contemporaneo è nato esattamente dal bisogno di ritrovare un linguaggio appropriato per il proprio tempo”.

Queste parole sembrano cucite sul lavoro di Slava. Nello spettacolo ogni elemento è scomposto e ricreato. Scomposto nel senso del movimento, del gesto, del corpo. E ricreato nella cura di ogni particolare, sia a livello di scenografia che musicale che di oggettistica. Tutti gli elementi sono orchestrati perfettamente per poter non solo rinverdire la figura del clown, ma per dar vita, nell’insieme, a uno spettacolo che oltre a “far vedere” possa anche parlare.

Il modo innovativo di Slava di interpretare il clown ha trascinato moltissimi artisti a seguirne le orme e l’insegnamento. Il lavoro del maestro russo è costruito nel “rispetto scrupoloso della tradizione”: mantiene naso rosso e scarponi classici. Ma si rinnova rivisitando gag “classiche”, studiate alla luce dei maestri Marceau e Chaplin e rese vere nel corpo del clown, nella relazione con i vari personaggi e con gli oggetti sulla scena.

Slava Snowshow

Penso, per esempio, al classicissimo numero del cappotto, dove una mano entra nella manica dell’abito appeso e crea uno “sdoppiamento di personalità”; o al numero dei due telefoni: lo stesso clown che fa la parte del ragazzo e della ragazza ai due capi del filo. La relazione, sempre credibile — e resa tale da un sapiente studio dei tempi di azione/reazione e della mimica sia facciale che corporea — rende vero tutto l’impianto e fa in modo che le gag o i giochi clowneschi non siano mai fini a se stessi, anche quando sono dichiaratamente finti o esulano dal contesto della scena.

Lente sul mondo

Si è visto come Slava’s Snowshow sia un concentrato di tecniche tradizionali dell’artigianato circense, ma rivissute e rivisitate nei minimi dettagli, interecciate tra loro per restituire “un teatro che nasce inesorabilmente dai sogni e dalle fiabe; ricco di speranze, di desideri e di nostalgie, di mancanze e disillusioni”. Se il voyeurismo del circo tende a mostrarci una parte di reale border-line fatto di fenomeni limite e in questo, nella maggior parte dei casi, si risolve, lo spettacolo di Slava va oltre: “al confine tra vita e arte e crea un‘unione epica intimistica tra tragedia e commedia, assurdità e spontaneità, crudeltà e tenerezza”.

Ricostruisce attraverso questo mondo al limite del reale, un mondo della rappresentazione, dove il pubblico può riconoscersi, ritrovarsi. Il buco della serratura attraverso il quale si guardavano le stranezze rinchiuse del mondo diventa specchio del nostro mondo. E molto più efficace perché ha personaggi più grandi, deformi, sproporzionati, ingranditi, che ci fanno ridere come se lo specchio fosse anche una lente d’ingrandimento sulle nostre vite, sulle nostre miserie quotidiane, comuni a tutti, un po’ antieroi un po’ eroi, un po’ persi e un po’ ridicoli.

Slava Snowshow

“È un rituale magico e festoso costruito sulla base delle immagini e dei movimenti, sui giochi e sulla fantasia”. Tutto è misurato, quasi un rito di cerimonia del tè, dove ogni cosa ha il suo posto, la sua precisa distanza e il giusto spazio. Ogni elemento è controllato: già nella hall del teatro, all’arrivo, c’è il rumore del treno che ritroveremo nello spettacolo. Nell’intervallo non si rompe l’atmosfera: la musica continua anche nelle toilette del teatro. Il pubblico si muove in sala con ancora addosso pezzi della ragnatela gigante che gli è caduta sulla testa. Palloni giganti e colorati riempiono il teatro ed è il pubblico a giocare mentre sulla scena i clown si siedono a guardare la festa.

“È un teatro — infine — che sfugge a qualsiasi definizione, all’interpretazione unica delle sue azioni e da qualsiasi tentativo di limitazione della libertà”. La partitura dello spettacolo è imprescindibile da un lavoro certosino su ogni elemento: scenografico, tecnico, sonoro. Il malfunzionamento tecnico in questo caso, non andrebbe a incidere sulla bellezza del lavoro, ma direttamente sul senso complessivo e globale.

Il mondo che si crea è multiforme, come scrive Alessandro Serena: “dà vita a creazioni clownesche per lo più calate in atmosfere lunari, ma colorate, con rimandi al beckettiano Godot”. L’armonia di fondo è sempre costante. Il clown entra con una corda al collo e finisce con una valigia in mano, pronto a trovare un altro posto per tentare di impiccarsi di nuovo. Al pubblico trasmette speranza sotto forma di sbarazzina e profonda consapevolezza: domani mattina potrò comunque morire, ma intanto vivo una serie di infiniti ultimi avventurosi attimi che mi tengono in vita.

Slava Snowshow

Bibliografia


Gigi Cristoforetti, Circo, linguaggio contemporaneo, in Il circo in teatro a cura di Alessandro Serena, Quaderni dello Spettacolo 84, Bergamo 2008
Alessandro Serena, “Storia del circo” Bruno Mondadori, Milano 2008
Maddalena Mazzocut-Mis, L’estetica della fruizione, Lupetti, Milano 2008

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