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Cinema

Abitare il cinema (V)

Il corridoio

Segue da Abitare il cinema (IV)

In quanto tragitto muto, percorso di transizione in cui la direzione dello sguardo soverchia il movimento delle gambe, il corridoio viene normalmente considerato come un luogo che ha la funzione principale e unica di mettere in comunicazione ambienti separati, senza per questo poter ospitare quelle tonalità di vita multiforme che possono dimorare nelle altre stanze della casa.

Corridoio, Abitare il cinema di Matteo Cavalli

Traghettatore di corpi che protendono verso qualcosa, il corridoio sembra un mezzo senza un fine intrinseco, come uno spartito che si può leggere ma non si può suonare perché la vera musica sta altrove. Ma se la natura ultima della casa risiede nella possibilità che essa offre di riunire ambienti variegati in una struttura unitaria e di farli comunicare tra loro, appare chiarissimo che un’abitazione priva di spazi di passaggio è quantomeno difficile da pensare. Se ogni stanza ospita sfaccettature della nostra vita riservate e in parte discordanti, allora il corridoio rappresenta quello che per il nostro corpo è la spina dorsale, l’elemento principe di una struttura che tiene unite membra distinte, magari disarticolate, ma che non potranno mai rinnegare l’appartenenza ad un’unità inscindibile.

Come ambiente privo di una caratterizzazione formale unanimemente riconosciuta, come luogo/non-luogo forse, il ventaglio di modalità in cui il corridoio è stato rappresentato sul grande schermo è piuttosto ampio. Ma non è questa la cosa più interessante. Ciò che ha marcato la sua iconografia cinematografica in maniera più forte è qualcosa di molto più basilare, ovvero l’attenzione che l’obiettivo della macchina da presa ha saputo nel tempo dedicare ad un ambiente che nella vita reale viene spesso erroneamente declassato a no man’s land, territorio che appartiene di volta in volta a chi lo calpesta. Superando il vizio di forma che vuole determinati luoghi indegni nei confronti delle passioni umane, la settima arte ha caricato il corridoio di istanze comunicative fortissime, e questo non può lasciare indifferente l’impertinente scrutare del nostro occhio candidamente (?) voyeuristico.

Il corridoio della follia

Prima ancora di avvicinarci a quelli domestici, è forse il caso di affrontare una categoria di corridoi — quelli che interessano la sfera pubblica e che quindi vengono calpestati da un ampio numero di persone — in nome dell’originalità con la quale il cinema ha saputo caricarli di significati e simbologie di ampia portata. L’immaginario cinematografico, soprattutto in riferimento a quel bacino di pellicole che hanno un’ambientazione ospedaliera, è popolato di immagini raffiguranti corridoi interminabili, sprofondati in un nitore asettico che, immerso in un’impenetrabilità assoluta, non mantiene tuttavia la promessa d’insignificanza che superficialmente sembra fare allo spettatore.

In particolar modo, l’icona dell’ospedale psichiatrico ha permesso spesso lo sviluppo di corollari simbolici interessanti, nutrendo una folta schiera di film, tra cui Qualcuno volò sul nido del cuculo o il recente Ragazze interrotte, per citare alcuni tra i più famosi. Ma, in questo ambito, una delle pellicole da riscoprire è sicuramente il capolavoro del regista statunitense Samuel Fuller Il corridoio della paura, opera visionaria, distorta, emblema di un approccio problematico — nel senso positivo del termine — alla psiche umana.

Una scena del film Il Corridoio della paura di Samuel Fuller

Illustrando la vicenda di un giornalista che, per scoprire il colpevole di un omicidio e accaparrarsi il premio Pulitzer, si finge maniaco e si fa internare in manicomio senza prevedere una sua stessa caduta nel baratro della follia, Fuller decide di ambientare buona parte del narrato in un lungo e ampio corridoio con le pareti tinteggiate a colori chiari, nel quale i pazienti trascorrono i loro momenti di ricreazione. Innanzitutto, va notato come in questi casi il corridoio non resti un semplice luogo di transito, ma si trasformi in una zona di stazionamento; quasi a marcare un ribaltamento che si verifica in una situazione “ai confini della realtà” in cui i non-luoghi possono avere la meglio per lo meno nel mostrare una parvenza di ordine interiore.

Nel film, quest’ambiente comune è anche lo sfondo principale dei rapporti che il detective auto-proclamatosi stringe con gli internati in cerca dell’assassinio, una sorta di asse che mette in comunicazione gli individui; paradossalmente, però, cela dietro le porte che su esso si proiettano le realtà di disfacimento psichico che albergano dentro di loro. I casi clinici vengono lì posizionati come in una sorta di vetrina, solo le saltuarie esplosioni di violenza diventano le marche identificative di individualità sull’orlo del baratro.

Il corridoio dell’orrore

Che Shining di Stanley Kubrick fosse una sorta di horror d’ambiente, che sacrifica gli standard più canonici del genere in favore della creazione di un’inquietudine saggiamente ben più diffusa, lo si era già notato analizzando la ricorrenza nel film del bagno come stanza della casa più rappresentativa e carica di simbologie. A maggior ragione, la stessa cosa si può sostenere rilevando l’importanza che anche il corridoio dimostra di possedere. L’immagine del piccolo Danny che percorre i corridoi deserti dell’Overlook Hotel a bordo del suo triciclo e il rumore delle ruote sul pavimento fanno parte della memoria cinematografica di ogni cinefilo, anche alle prime armi.

La maggiore tensione interiore è sicuramente scatenata dall’apparente mancanza di senso attribuibile ad una macchina da presa che segue un ragazzino in giro per un hotel vuoto. Tuttavia basterebbe, con un minuscolo balzo, passare dalla referenzialità di ciò che vediamo ad un versante metaforico per provare a capire quello che i nostri occhi stanno percependo: la “luccicanza” di Danny gli permette di vedere cose che gli altri ignorano o ancora non sanno, il piccolo conosce la natura del padre e il suo vagare per quegli ambienti stretti e privi di qualsiasi traccia d’umanità somiglia tanto ad un aggirarsi tra i meandri mentali dello stesso Jack Torrance.

Una scena del film Shining di Stanley Kubrick

È proprio la scoperta da parte del bambino della stanza 237 ad innescare di nuovo quel vortice di violenza che aveva portato il vecchio custode a sterminare la sua famiglia una decina d’anni prima (custode di cui Jack sembrerebbe la reincarnazione). Sarà casuale? Potremmo rispondere con un no secco: gli angusti corridoi della mente celano stanze variegate protette da porte tutte uguali, ma nessuna viene mai aperta per pura casualità.

Il corridoio tra le sbarre

Altro topos cinematografico che prevede la presenza di un corridoio è quello del carcere. Generalmente quel territorio comune che separa le due file di celle opposte diviene il medium spaziale che permette le comunicazioni tra i carcerati e allo stesso tempo consente fuggevoli scambi di diversa natura con i rappresentanti del cosiddetto mondo “civile” (secondini, parenti, visitatori): è indimenticabile, ad esempio, la scena de Il silenzio degli innocenti in cui la giovane recluta Clarice Starling (Jodie Foster), per raggiungere la cella di Hannibal Lecter (Anthony Hopkins) situata sul fondo del corridoio, è costretta a passare di fronte alle sbarre degli altri carcerati, sfiorando brutalmente l’infima portata morale dei criminali ai quali si trova di fronte.

Una delle invenzioni più felici “di genere”, appartiene però a Stephen King e al suo Il miglio verde, portato al cinema nel 1999 da Frank Darabont. Il titolo fa riferimento al braccio della morte “E” del carcere di Cold Mountain, così chiamato per il colore del suo pavimento. Lo spazio di congiunzione tra le due file di celle diviene una sorta di microcosmo in cui si intrecciano i destini dei due protagonisti (una guardia e un gigante dotato di poteri taumaturgici, accusato dell’omicidio di due bambine). Nello spettatore, si sviluppa così un processo di avvicinamento verso i personaggi che sarebbe stato difficile ottenere in un ambiente notoriamente non predisposto ad un determinato tipo di rapporti. Ma questo non elimina la componente di drammaticità insita nel luogo che viene portato in scena: percorrere il miglio verde per un detenuto significa comunque andare verso la sedia elettrica, a prescindere dalle tinte con cui romanziere e regista hanno colorato quel luogo di morte.

Corridoio di famiglia

Con il film La famiglia Ettore Scola riprende in parte ciò che aveva fatto il Visconti di Gruppo di famiglia in un interno, e in un certo senso riprende anche il suo Una giornata particolare, di una decina d’anni precedente. Decide cioè di ambientare le vicende all’interno di un unico appartamento, dilatando però le dimensioni temporali del suo racconto, che comincia nel 1906 e termina nel 1986, coprendo così gli ottant’anni di vita del patriarca Carlo, interpretato da Vittorio Gassman. È un ritratto umano protratto nei decenni quello de La famiglia, e trova la cifra della sua autenticità nella quotidianità di una casa che sembra non cambiare mai. Non a caso la Storia non entra quasi mai tra le mura domestiche, come a voler mostrare l’importanza delle piccole storie di tutti rispetto a quella con la “s” maiuscola.

Dovendo affrontare un lasso di tempo lunghissimo, e volutamente limitato in un interno, per scandire il passare del tempo, la pellicola si affida a uno stratagemma riuscitissimo, ovvero un carrello della macchina da presa sul lungo corridoio di casa, quasi sempre vuoto, che ritorna regolarmente nel film. Questo spazio deserto diviene quasi l’essenza dell’abitazione, della famiglia, quella componente d’immutabilità che valica le stagioni della vita, o addirittura di più vite. Il concetto diviene ancor più evidente se si riflette sul fatto che anche le morti vengono rappresentare con un’inquadratura mobile nel corridoio: la vita continua, va avanti (la macchina da presa infatti non rimane fissa, procede) ma qualcosa rimane, una linea retta che, per quante deviazioni si facciano, non potrà mai essere abbandonata del tutto.

Il corridoio dell’attesa

La bestia nel cuore di Cristina Comencini ritrae una ragazza nel suo graduale riappropriarsi di un passato oscuro segnato dalle molestie sessuali del padre. Quando i ricordi rivivono nella mente della protagonista, in stato cosciente o durante il sonno, siamo trasportati in un appartamento ricoperto dalla polvere del tempo ormai passato, in cui gli abusi paterni tornano lentamente a galla, fino a profilarsi netti, a fine film, nella mente di Sabina (Giovanna Mezzogiorno).

Una scena del film La bestia nel cuore di Cristina Comencini

Più di una volta ritorna l’immagine di un lungo corridoio diretto verso lo studio del padre: dapprima la bimba lo percorre per mostrasi all’uomo vestita da ballerina; in un altro ricordo lui la prende in braccio e, attraverso il corridoio, la porta in camera sua; infine, nel corridoio comincia la valanga d’acqua che nella mente di Sabina arriva a sommergere tutto quanto, proprio in concomitanza con il momento in cui a lei, incinta, si rompono le acque. Da un lato, il corridoio — lungo, con una bimba sola — opera uno sfondamento prospettico che proietta anche lo spettatore direttamente nella stanza dell’uomo, rendendolo partecipe pienamente delle sensazioni di Sabina. Dall’altro, essendo un luogo di passaggio, la sua costante presenza suggerisce l’idea di un cammino solitario, il dirigersi verso una porta chiusa, verso qualcuno che si conosce ma che comunque rimane celato. Per stringere le braccia al collo di una persona che non annulla la vastità dello spazio, ma, al contrario, la ingigantisce.

Il corridoio dei volti incrociati

Per capire appieno la natura del rapporto che la settima arte ha instaurato con l’ambiente del corridoio, bisognerebbe forse tornare indietro al 1975, anno in cui uscì nelle sale Profondo rosso, l’opera più celebre del maestro dell’horror italiano Dario Argento. Il primo omicidio che si consuma nel film è ai danni di una sensitiva; dalla piazza sottostante l’appartamento in cui avviene il delitto, un pianista (il protagonista David Hemmings) sente le urla della donna, vede la sagoma dell’assassino mentre la ammazza e si precipita quindi in quel luogo. Appena arriva, trova il cadavere della medium, ma dell’assassino non c’è più traccia. Forse.

Forse, sì, perché uno dei canoni del cinema giallo classico consiste nel non mostrare l’identità del colpevole subito. Ma qui accade qualcosa di diverso: il volto dell’assassino è riflesso in uno specchio, situato in un corridoio che si vede di scorcio, e si confonde tra una serie di volti dipinti che lo specchio riflette sempre dalla parete opposta. Ciò che permette al regista questa mossa audace è la consapevolezza che l’attenzione di chi guarda tende generalmente a focalizzarsi non su un ambiente di transito ma su una stanza “compiuta”. Uno spettatore attento risolverebbe il caso dopo lo scorrere di queste prime immagini ma, finché continueremo a considerare il corridoio come un semplice luogo di passaggio, dovremo accontentarci di aspettare fino alla fine del film.

Una scena del film Profondo rosso di Dario Argento

Segue con Abitare il cinema (VI)

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