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Scrittura

Francesca Bonafini

Mangiacuore

Un’autrice giovane, di origine veronese, ma da tempo residente a Bologna — città dove ci sono più scrittori emergenti che portici — e una copertina rossa con un cuore di metallo circondato da filo spinato: i motivi per partire prevenuti ci sono tutti.

Francesca Bonafini

Francesca Bonafini sembra saperlo perché apre il suo primo romanzo con un incipit da antologia e fa drizzare il lettore sulla poltrona, conquistandone attenzione e rispetto con le prime sedici righe. In questo lasso di carta racconta l’innamoramento. “Sai che novità” — diranno subito i miei piccoli lettori. Appunto: la Bonafini sfida e vince — con irritante facilità — il topos letterario per antonomasia, lo spiega con approccio scientifico e ragionato, ne dà la descrizione infallibile e definitiva, riuscendo a essere innovativa nel più scontato degli argomenti, ripercorrendo il sentiero più trafficato del mondo della letteratura e scovandone — lei sì, lei sola — gli unici, beffardi, aspetti reali. È un piccolo regalo, questa introduzione ironica, una sorta di benevola concessione al lettore, pari all’ultima ditata di Nutella prima della dieta. Poi il romanzo si palesa per quello che è: la storia di un tossicodipendente incapace, per quanto desideroso, di riappropriarsi della propria vita, deluso da se stesso e disilluso della possibilità di riguadagnare un ruolo dignitoso nella società.

Il suo passato viene ricostruito attraverso il racconto del suo presente, del rapporto con la ragazza del nord. I due si sono incontrati in una comunità di recupero milanese: lei volontaria, lui tossicodipendente. Terminataquesta esperienza, ognuno fa ritorno alla propria città e tra i due inizia una sbilanciata relazione a distanza. È sempre lei a raggiungere Alfredo a Roma, dove lui vive con genitori, nonna e cani.È un sacco da pugile la ragazza del nord.
Incassa impassibile gli scatti di ira di questo Alfredo, i suoi momenti di violenza e rancore verso i familiari, le sue debolezze e le sue incoerenze.
Per quanto lui la prenda a botte nell’anima, con il proprio comportamento, lei resta in piedi, magari vacilla, ma gli torna davanti di nuovo, pronta a prenderne ancora. Alfredo, però, non è “il cattivo”. Non si approfitta di lei, né la prende in giro. A modo suo, la ama perfino; semplicemente, non è la cosa che più ama al mondo. In verità, qualcosa che lui ami davvero non sembra esserci; ci sono, piuttosto, cose sempre più urgenti, come la birra.

Perché Alfredo, va riconosciuto, ha deciso di smetterla con l’eroina e lo sta facendo. Ha scelto di andare in comunità. Non ha resistito, se n’è andato, ma ha fatto domanda per entrare in un’altra; ce la sta mettendo tutta: è deciso. Ha qualche debolezza, ma è deciso. Non si può nemmeno pretendere che smetta da un momento all’altro — lo giustifica chi gli sta intorno — se fosse così semplice ce la farebbero tutti.
Alfredo ogni tanto va in crisi, esistenziale, più che d’astinenza (avendo le giornate scandite dalla distribuzione del metadone al Ser.T, fisiologicamente parlando dovrebbe essere relativamente in forma). Si ricorda di come, ragazzo, avesse smesso di sentirsi una nullità grazie alla droga, vendendola e usandola, di come fosse diventato di colpo rispettato, “all’altezza de tutto e de tutti”. E ha un bel dire la ragazza del nord, che volersi sentire “potenti” è da cretini, che non c’è nessun bisogno di indossare maschere per ritagliarsi un posto nel mondo, che ciascuno — e Alfredo in particolare — è importante e dignitoso per quello che è, senza doversi fingere più forte o potente. Per lei è tutto semplice, è tutto chiaro, lei non si sente mangiare dentro da questa inadeguatezza alla vita, non si sente l’etichetta del drogato addosso, lei guarda avanti e un futuro lo vede. Alfredo no.

In questi momenti Alfredo ha bisogno di un aiuto, di qualcosa che lo tiri su, che non lo faccia pensare troppo alla sua condizione. È passato, così, dalla dipendenza dall’eroina alla dipendenza dall’alcol. In maniera subdola, discreta, senza che gli altri abbiano potuto fermarlo, fino ad essere ancora schiavo di comportamenti paradossali, come il piantare in asso in mezzo alla strada la fidanzata per infilarsi nel bar sul marciapiede opposto e uscirne candido come un bambino.
Perfino l’abnegazione della ragazza del nord ha un limite e quando sente a letto la stessa distanza che sente per strada sa che il saluto dell’indomani è l’ultimo.

La copertina della prima edizione del romanzo MangiacuoreAlfredo va a guardare il suo schifo in una nuova comunità, per provare a misurarlo e portarlo via; la ragazza del nord va a guardare la sua ansiosa insicurezza da Buenos Aires, perché spera che da lontano sembri più piccola. Vede, invece, lo schifo dell’esistenza. Vede come tutto vada sempre a rotoli, anche quando non sembra, come sotto la superficie ci sia sempre il marcio; del dono di rendersene conto non sa che farsene e vorrebbe, ora, avere il dono di prendere le distanze e lasciare che le cose vadano per gli affari loro.
Non è una storia d’amore, non è un’operetta morale sulla droga. Il primo romanzo di Franesca Bonafini è sulla dipendenza e la devastazione.

Non importa se per una sostanza o una persona: l’incapacità di pensare noi stessi senza l’oggetto della nostra passione non può che condurci alla perdizione.
Le ultime righe stupiscono e, per questo verso, costituiscono un esempio classico di quello che ci si aspetta da un romanzo, eppure, un attimo dopo, non sembrano poi così imprevedibili, perché la storia letteraria finisce nel più logico dei modi in cui finirebbe la stessa storia nella realtà.
Una delle ragioni che hanno portato alla repentina affermazione del romanzo moderno è stata il saperraccontare storie di individui normali, storicamente collocati: non più eroi, dei o “tipi” della commedia, ma nomi e cognomi nel tal posto e nel tal tempo. Se blandire il lettore con un finale soddisfacente, perché lieto o sbalorditivo, quando non entrambe le cose, è il limite di molti romanzi, Francesca Bonafini “sfida il sistema” e termina la sua prima opera con una conclusione non imprevedibile e, proprio per questo, sconcertante.

Vi si arriva attraverso le voci dei protagonisti, alternate nei capitoli a raccontare l’azione dal rispettivo punto di vista, ora con il lessico di una studentessa bolognese colta e socialmente impegnata, ora con quello del balordo di un quartiere popolare di Roma, capace di manifestare la sua frustrazione solo attraverso bestemmie, che altro non sono se non intercalari, come i “cioè” degli adolescenti incapaci di organizzare meglio il loro pensiero. Man mano che la vita accanto ad Alfredo destabilizza la ragazza del nord, le parole di questa si fanno simili a quelle di lui, la prosa diventa ansiosa e frammentata, sintomo della confusione interiore che la travolge. Non il solito imbarazzante escamotage dello stile giovanilistico per mascherare una prosa inadeguata, ma centoventi pagine di esercizio di stile che sbattono in faccia al lettore la solida padronanza dei meccanismi della narrazione e l’ isomorfia pressoché perfetta tra forma e contenuto.

Francesca Bonafini è innamorata delle parole e lo dichiara con ogni frase.
Ne ho la conferma durante la presentazione di “Mangiacuore” [Fernandel, Ravenna, 2008], alla libreria triestina In der Tat. Questa giovane sa scrivere, ma sa anche parlare. Gusta — come diceva di fare Fosco Maraini — il suono delle parole, ci giocherella in bocca come fossero caramelle. Poi “sputa” la più adatta, sceglie la più pregnante con invidiabile facilità, perché per lei, che tanto a fondo le conosce, non c’è possibilità di confusione: una sola denotazione attraverso un solo segno — per usare i termini di Frege, che pur rifiutava questa corrispondenza biunivoca — per suscitare rappresentazioni quanto più possibile simili al referente.

All’inizio della presentazione, Chiara Casarella, che introduce la scrittrice, spiega l’amicizia che le accomuna parlando della “settimana metafisica”, come Francesca la chiamerà anni dopo in un racconto, l’esperienza in bilico tra la vacanza in libertà e una sorta di ritiro spirituale pagano nella letteratura che hanno condiviso nell’adolescenza. Curioso modo di passare le vacanze, per due sedicenni.

Lorenza Pravato (LP): Quando hai cominciato a scrivere? Se già al liceo hai fatto la settimana metafisica vuol dire che “la covavi da un po’”…

Francesca Bonafini (FB): Sì, la covavo da un po’, anche se ho soprattutto letto, per buona parte della mia vita. Ho sempre amato scrivere, ma ho iniziato tardi a comporre racconti, intorno ai ventitré, ventiquattro anni; prima erano cose ancora non ben definite: non c’era una storia. E poi avevo un gruppo, suonavo e scrivevo soprattutto canzoni. A un certo punto ho iniziato a pensare di creare una struttura, di scrivere delle storie, raccontare delle storie. Ma i racconti veri e propri sono arrivati relativamente tardi.

LP: …perché tu da piccola volevi fare la…?

FB: (indugia, nda) Non lo so. Proprio non lo so. Forse volevo fare questo perché di fatto ho sempre scritto storie, sebbene fossero cose anche molto acerbe e immature. A scrivere storie pensandole come racconti ho iniziato tardi, è vero, ma in senso lato l’ho sempre fatto, perciò non saprei dirti cosa volessi fare da piccola. Forse era questo perché non so fare altro!

LP: E come scrivi? Hai un metodo preciso, sapresti indicare un percorso?

FB: Per me è molto importante l’aspetto fonico della scrittura: si scrive con l’orecchio. Allora il mio diventa quasi un “ruminare” fonico, è una scrittura che deve avere un ritmo, che deve avere un suono, prima di tutto. Come si dice questo della poesia, cioè che è suono prima di essere altro, perché la parola è suono prima di essere significato, così per me vale anche per la narrativa. Poi c’è la voglia di guardare il mondo senza lasciarlo passare come fosse acqua che scorre addosso. Secondo me, la scrittura, come la parola, possiede questa forza, questa capacità di penetrazione e di riflessione rispetto alle cose del mondo, che ci circondano. Diventa quindi un modo per guardare le cose.

LP: Oltre alla letteratura, scritta e fruita, cosa è importante per te? La musica? E qualche altra passione?

FB: La musica sicuramente è una mia passione, lo è sempre stata, come accennavo ho un passato musicale — e per fortuna è passato perché non era poi questo gran che! —, ma la lettura penso che sia la cosa che mi assorbe di più. Io sono soprattutto una lettrice, leggo molto più di quanto scrivo, non sono un’autrice prolifica. Non sono come Morozzi (ride, nda)! Beato lui: scrive, legge moltissimo, fa un sacco di cose… io soprattutto leggo e poi, ogni tanto, scrivo.

Francesca Bonafini durante un reading

LP: E che cosa leggi? Hai degli autori preferiti, degli scrittori di riferimento? Sicuramente li avrai…

FB: Eccome, ce ne sono tantissimi. (È titubante, nda) Di italiani ti posso dire Tondelli, Gianni Celati; poi ho dei libri che amo molto, sono anche questi tanti: ti direi La morte di Ivan Il’ič di Tolstoj, Casa di Bambola di Ibsen, Dostojevskij — i Russi fondamentalmente — Oblomov di Gončarov… ce ne sono veramente moltissimi.Ti elencoi libri piuttosto che gli autori (e quasi si contraddice subito, presa dall’argomento com’è, nda): Primo Levi è, ad esempio, un autore che amo molto; I sommersi e i salvati è un altro dei miei libri culto.

LP: Ora la domanda di rito: progetti per il futuro?

FB: Continuo a scrivere racconti che escono in varie antologie e c’è un romanzo in lavorazione. In verità sarebbero due, ma è bene portare avanti prima l’uno e poi l’altro, se no faccio confusione. (Non come Morozzi — nda) Quindi ora il progetto è portare a termine questo romanzo.

LP: Qual è il libro che avresti voluto scrivere? O qual è il tuo libro preferito se ce n’è uno che emerge sugli altri.

FB: La morte di IvanIl’ič.

LP: E qual è la tua parola preferita? Guarda che è una domanda-trabocchetto.

FB: (si illumina, nda) Ebbene, è difficile scegliere “la mia parola preferita”: ce ne sono tante. Però io sono presente nel Dizionario affettivo della lingua italiana (uscito per Fandango, a cura di Matteo B. Bianchi) con la parola che, appunto, ho scelto, ed è Zaino.
Mi sono detta: “Quante parole ci sono che mi piacciono? Tutte!”. Poi ho pensato che c’è una cosa che amo molto fare, ed è viaggiare. Sono sempre in giro con uno zaino in spalla, che pesa un casino a causa di tutti i libri che ci infilo. Ho pensato quindi che potesse essere la mia scelta, perché dentro a zaino riuscivo a mettere tutte le parole possibili e immaginabili, quelle dei libri che mi porto dietro.

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  1. […] Pravato (LP): L’ultima volta che sei venuta a Trieste era in veste di autrice di Mangiacuore, questa volta sei qui come curatrice di Scrittori in cucina (curatrice e autrice, in realtà). Che […]

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