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Palcoscenico

La coscienza di Edipo

L’Edipo Re è il personaggio che, fin dalla sua remota creazione sofoclea, ha accompagnato la società occidentale nell’impervio percorso della ricerca del sé; con l’era dell’esistenzialismo, tale cammino ha poi conquistato il risvolto dell’esplorazione dell’inconscio.

Una scena dall'Edipo Re di Antonio Calenda

Con Freud si compie un atto pirandelliano: l’Edipo, da personaggio della tragedia greca, scende le scale del palco, si confonde  con la platea e diviene icona dei turbamenti dell’uomo. Il secolo della psicoanalisi accoglie l’individuo sul lettino dell’inconscio e lo sprona ad interrogarsi sulle proprie pulsioni sessuali, sulla propria debolezza, sul senso di colpa, sulle proprie nevrosi. La metamorfosi è compiuta: da re a complesso, da mito a simbolo dello sconvolgimento esistenziale.

Nell’allestimento del Teatro stabile del Friuli Venezia Giulia, Calenda compie un ulteriore passo pirandelliano non solo riportando l’Edipo sul palco, ma rendendolo un paziente in analisi che si addentra fra le ombre della propria psiche. Franco Branciaroli, nei panni di questo personaggio altamente sveviano, dona al pubblico emozioni continue: contorcendosi sul lettino della seduta, rende universalmente intelligibile l’inquietudine dell’essere umano, condensa le paure e i limiti dell’individuo in un corpo prigione dal quale l’essenza interiore scalpita per uscire.

Ogni sua contrazione, ogni suo lamento, ogni suo ricordo, lo avvicinano al suo conflitto interiore procurando quel dolore e quella sofferenza che possono provare tutti coloro che si addentrano nel proprio percorso esistenziale. Tale universalità è rafforzata dalla convergenza di ulteriori personaggi/complessi psicologici che prendono vita in Edipo stesso come fossero un unico discorso interiore del paziente.

Franco Branciaroli interpreta Edipo

Il momento di trance in cui Branciaroli lascia spazio a Tiresia evoca il rapporto con la consapevolezza: l’uomo conosce i nodi interni del proprio conflitto ma spesso non li vuole vedere. Il tema del vedere, che accompagna tutta la messa in scena, risulta molto evidente nel mito di Tiresia che fu accecato da Atena proprio per aver visto ciò che agli uomini non è consentito: il corpo della dea nudo. In seguito alle suppliche della madre di Tiresia, Atena decise di acuirgli le orecchie, tramutandolo in uno dei più importanti indovini della storia. Anche Edipo perderà la vista, sarà lui stesso a privarsene dopo aver osato guardare dentro di sé.

Attraverso Giocasta, invece, emergono ulteriori sfaccettature del senso di colpa che vengono magistralmente rappresentate durante il rapporto sessuale tra Edipo e sua madre: Branciaroli rende vivi due corpi brutalmente avvinghiati, ricordando allo spettatore la turpe origine di quell’unione.
Giocasta appare con una nota noir evocata anche da Creonte che, con l’impermeabile lungo e la sigaretta accesa, propone una visione del potere contrastante con quella del re.

Il coro appare e scompare tra luci soffuse e ombre lontane, si fonde in un unico corpo per poi disgregarsi e assumere la forma a volte dei fantasmi della mente, altre del collegamento con la dimensione reale.
La scena di Pier Paolo Bisleri accentua il senso di prigionia della psiche, ponendo i personaggi in una scatola nera nella quale, di tanto in tanto, si apre uno spiraglio luminoso per far trasparire ulteriori ombre.
Sul finale scende un emblematico drappo bianco pregno di significati; nella scatola nera dell’inconscio viene abbattuta una parete, lasciando così intravedere una via di fuga, quella del ruolo. Nonostante tutto, Edipo fu un grande re.

Franco Branciaroli

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