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Omnia

Il principio responsabilità

Un'etica per la civiltà tecnologica

Copertina Il Principio responsabilitàGiunto alla sua quarta edizione per Einaudi, curata da Pier Paolo Portinaro, Il principio responsabilità di Hans Jonas resta una pietra miliare del dibattito filosofico contemporaneo sull’etica. La sua lungimiranza e la lucidità attraverso la quale il filosofo tedesco si relaziona all’orizzonte definito dai rischi connessi allo strapotere della tecnica, ne hanno fatto un testo imprescindibile, una “guida” dinanzi alle inquietudini per le sorti del nostro pianeta e del nostro futuro. Non a caso, il sottotitolo del saggio recita Un’etica per la civiltà tecnologica.


Scritte nel 1979, quando ancora si era lontani dal crollo del muro di Berlino e perciò della “fine dell’utopia” socialista, queste pagine hanno indubbiamente contribuito al dibattito volto a una critica nei confronti del marxismo e della fiducia nel miraggio di una “società senza classi”, ma ancor più pregnante è l’attenzione rivolta al pericolo nei confronti di un’accettazione entusiasta e indiscriminata del progresso.


I nuovi traguardi dello sviluppo tecnologico, della scienza nucleare ad esempio, hanno sconvolto le tradizionali categorie della filosofia morale; le minacce della tecnica moderna – capace di offrire i mezzi per una possibile estinzione della specie umana, che da parte sua è stata già in grado di sconvolgere la biosfera – ci impongono un interrogativo sconosciuto o di ben poca urgenza nei secoli passati, ovvero: “Perché l’uomo deve sopravvivere?”. Perché l’uomo dovrebbe assumersi l’onere e l’obbligo di garantire che la sua specie e il mondo nel quale esso vive continui a sussistere?


Il superamento dell’etica tradizionale è comprovato dalla trasformazione dell’uomo, e da una ridefinizione del suo rapporto con la natura: la technè, dopotutto, ha accompagnato l’esperienza storica dell’uomo attraverso i secoli sin dall’epoca greca e da prima ancora. Ma se la natura, fino alla modernità, aveva sempre mantenuto uno statuto di preminenza dinanzi alle modifiche apportate dall’agire umano, oggi questo equilibrio di forze è ribaltato. La natura è al servizio dei piani e dei progetti umani, subisce essa stessa delle trasformazioni secondo le nostre esigenze. Soprattutto perché il progresso oggi è guidato non più dalla necessità, bensì dall’“arroganza”, ovvero dall’indiscriminata convinzione che il mondo sia a nostra completa disposizione.


Quell’etica tradizionale si avvaleva del principio di sincronicità: si “doveva” aver rispetto della natura perché essa era indispensabile hic et nunc, per la sopravvivenza; ma se l’orizzonte morale viene limitato alla vita del singolo, e se la morale soggiace a un mero principio di “restituzione”, il paradosso al quale tutti oggi assistiamo ne è l’ovvia e nefasta conseguenza, ovvero che non ci sia alcun obbligo morale nei confronti della posterità, o del mondo, a prescindere dal relativo lasso di tempo in cui lo si abita.


Questa logica, accompagnata da una deriva delle potenzialità tecniche capaci in ogni istante di decretare la fine della nostra specie, si riflette nell’attuale dibattito ecologico, e perciò nel disinteresse diffuso nei confronti del surriscaldamento del pianeta (problema cruciale che Jonas non ha fatto in tempo a evidenziare e comprendere).


Il principio di responsabilità supera tale sincronicità, ancora viziata dall’idea mercantile di una reciprocità: è ovvio che se la reciprocità non è immediata, il principio di responsabilità non potrà che essere un imperativo metafisico, trascendentale, non motivato da contingenze del presente. Se il rischio è quello dell’estinzione, il problema si pone al di là della nostra facoltà di visione e comprensione; se assumiamo tale rischio catastrofico, dobbiamo farlo attraverso le nostre facoltà immaginative, perciò sciolte da vincoli di ordine pragmatico o empirico. Se il pericolo è invisibile, resta inefficace; ma, date le odierne dinamiche del progresso, è certo che qualora diventassero visibili e concrete, sarebbe ormai troppo tardi per provi rimedio.


Hans Jonas


Che l’uomo debba sopravvivere è un dovere metafisico che suona, per Jonas, come un assioma: è necessario che ci sia un futuro, è necessario che continui la “serie” e che l’uomo permanga.


Dice Jonas: “Il principio etico […] suona quindi: non si deve mai fare dell’esistenza o dell’essenza dell’uomo globalmente inteso una posta in gioco nelle scommesse dell’agire. […] con questo primo imperativo non siamo assolutamente responsabili verso gli uomini futuri, bensì verso l’idea dell’uomo, che è tale da esigere la presenza delle sue incarnazioni nel mondo


Il senso di responsabilità viene meglio argomentato e definito da Jonas all’interno del binomio di essere e dover-essere. Ciò che l’uomo sta facendo è escludere la possibilità di un dover-essere, sfruttando il presente (l’essere) e avendo come unico principio regolatore il soddisfacimento delle proprie esigenze, più o meno nobili. Jonas va ancora più a fondo specificando come il senso di responsabilità vincoli soggetto e oggetto: la condizione della morale e della responsabilità è “poter rendere conto di ciò che accade”, o, meglio, che “ciò che accade possa legittimamente chiedere conto a me”. Se dal lato dell’oggetto si pone il dover-essere, e dal lato del soggetto il dover-fare, ciò che fa da interstizio e da connettore delle due dimensioni è proprio la cura intesa come responsabilità, se non addirittura l’amore (e qui Jonas il filosofo si lascia andare a un mai rinnegato spirito religioso, su cui torneremo nelle conclusioni).


Insomma, la portata trascendentale e metafisica della responsabilità viene evidenziata a seconda di come essa tragga valore da un’intesa mai dichiarata delle parti coinvolte, un patto fiduciario che, per ovvie ragioni, non potrebbe esplicitarsi ed avere corrispettivo concreto in un contratto (come fare, se la parte chiamata in causa “non-è-ancora”?).


Esemplare è il caso del neonato, figura tipica archetipo del dover-essere e della non-autosufficienza: “L’infanticidio è un crimine, come ogni assassinio, ma un bambino che muore di fame, ossia il tollerare che muoia di fame è una colpa contro la prima e più fondamentale fra tutte le responsabilità che possono toccare all’uomo”.


Un’ampia trattazione è riservata al dibattito critico sul marxismo, che Jonas inquadra all’interno del medesimo male incarnato dalla civiltà tecnologica. Il progresso tecnico è divenuto l’odierno “oppio dei popoli”, sentenzia il filosofo. Affrontando il marxismo, Jonas può mettere a fuoco l’altro tema cruciale attorno al quale muove la sua severa critica, ovvero l’ utopia, sinonimo di speranza. L’ideologia socialista si fonda sull’utopia, ovvero sulla promozione di un “uomo autentico” che conseguirà la piena felicità e realizzazione in una società senza classi, né conflitti e competizioni. A differenza di qualsiasi superomismo nietzschiano, ci tiene a precisare Jonas, la società senza classi e il marxismo hanno tutta la concretezza della prassi, presupponendo un piano d’azione effettivo. L’utopia non resta un miraggio da visionari, ma è una soluzione che si può e si deve conseguire con ogni mezzo. Tale realizzazione implica una rivoluzione che, nel suo attuarsi, è disposta a giustificare persino un genocidio per l’avvento di questo paradiso in terra. L’utopia non concede alcuna “imperfezione” o ripensamento, per questo ha tutto il diritto di richiedere la soppressione delle libertà individuali: perché, appunto, convinta di essere dalla parte della verità.


Jonas si dice convinto che i sistemi liberali siano superiori a quelli socialisti sul piano etico, ma pagano questo privilegio con una maggiore precarietà, mentre gli altri si dimostrano superiori nel rendimento e nella stabilità, ma abbracciano indiscriminatamente il progresso abbagliati dalla luce dell’utopia. Per le teorie social-marxiste, nessuna contrazione o mezza misura: o la catastrofe o la nuova storia dell’uomo.


Hans Jonas


Tra i vari spunti critici offerti da Jonas, molte pagine sono dedicate al problema, spinoso nella teoria marxista, della divisione del lavoro e della specializzazione, direttamente connesso con quello ancor più stimolante del tempo libero. Che posto occupa il tempo libero nell’utopia realizzata? Si può parlare di passatempo a prescindere dalla sua dialettica con la routine soffocante della quotidianità? Se l’intero tessuto psicologico e esistenziale del lavoratore si risolve nel suo impiego professionale, ed essendone lui pienamente appagato, come poter parlare ancora di autentico tempo libero investito nella realizzazione delle proprie passioni? Insomma, si tratta nuovamente di un’alienazione, non già ovviamente capitalistica ma tecnologica: l’utopia realizzata è un «eterno presente», un universo immobile che esclude qualsiasi “non-ancora”, e perciò stesso qualsiasi responsabilità.


La critica jonasiana del marxismo è volta ad avvalorare la tesi sulla centralità che il principio responsabilità è chiamato ad assumere. L’uomo autentico non è una speranza, esiste da sempre; questo implica per lui il dovere della propria responsabilità nello stato attuale, non in un futuro utopico inaccessibile a qualsivoglia valutazione.


Il finale ottimistico di Jonas sta proprio nella convinzione che di responsabilità si possa parlare solo in relazione a una volontà e a un potere (per questo l’irresponsabilità, propria di molta politica, è definita “potere senza dovere”), e perciò alla negazione del fatto di essere dinanzi a un destino inevitabile. La speranza e l’utopia, spesso al servizio delle cecità del tecnicismo, sono superate proprio dalla responsabilità, che, però, dialetticamente assorbe all’interno del suo stesso concetto tanto la speranza quanto la paura, fondamentale per avere cura di un altro essere. La responsabilità implica l’orrore, la previsione del negativo che coinvolge empaticamente il sentimento nei confronti di qualcosa che non si conosce perché ancora “da venire”: “Al principio speranza contrapponiamo il principio responsabilità e non il principio paura. Ma la paura, ancorché caduta in un certo discredito morale e psicologico, fa parte della responsabilità altrettanto quanto la speranza, e noi dobbiamo in questa sede perorarne ancora la causa, poiché la paura è oggi più necessaria che in qualsiasi altra epoca in cui, animati dalla fiducia nel buon andamento delle cose umane, si poteva considerarla con sufficienza una debolezza dei pusillanimi e dei nevrotici.”


Copertina Tecnica, medicina ed eticaIl saggio, per concludere, trova nella cronaca contemporanea e nell’attualità svariati ambiti di applicazione, come aveva già intuito lo stesso Jonas scrivendo, nel 1985, Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità; basti pensare al dibattito ecologista (e penso al recente fallimento del summit di Copenaghen), o al rischio del nucleare iraniano, o anche alla riflessione degli economisti all’indomani del cataclisma della crisi internazionale delle banche. Privare il mercato (che è una delle tante facce che può assumere il progresso) di un’anima, del buon senso e della responsabilità significa consegnare il futuro a una degenerazione che provoca come conseguenza la messa a rischio di un avvenire per ciascuno di noi.


Il principio responsabilità è amore per l’uomo, è la convinzione che la prerogativa assoluta debba essere la sua sopravvivenza futura, e che tale sopravvivenza debba porsi prima di qualsiasi altra decisione o scelta morale. Questa etica è un baratro per la razionalità, come d’altronde lo è l’amore nelle sue più svariate declinazioni, perché implica un sentimento autentico nei confronti di ciò che è ci è sconosciuto e invisibile per sua stessa natura: “La responsabilità è la cura per un altro essere quando venga riconosciuta come dovere […] che cosa capiterà a quell’essere, se io non mi prendo cura di lui? Quanto più oscura risulta la risposta, tanto più nitidamente delineata è la responsabilità”.

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