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Musica

Peter Whitehead

Il più grande documentarista del Rock

“Ero l’unico proletario in mezzo a 471 bambini ricchi. All’improvviso quell’istituzione così autorevole era stata infetta dal virus della povertà, ovvero da Peter Whitehead col suo vestito sbagliato, i pantaloni sbagliati, le scarpe sbagliate tra gli abiti grigi e le impeccabili camicie degli altri.”
Peter Whitehead

Peter Whitehead

Sabato mattina. Mi sveglio con un leggero dolore alla schiena e un odore dolciastro sotto il naso. È un odore che ha qualcosa di familiare. Ricordo che da bambino, avevo la buona abitudine di appropriarmi della scala sapientemente parcheggiata da mia madre nel balcone, per sfilare vecchi volumi sistemati nella parte alta della libreria di famiglia. L’obiettivo, ovviamente, non era leggere, ma odorare. E di solito l’odore della cellulosa era così intenso e gradevole, da spingermi a sfilare più libri che potevo. Il giorno che fui scoperto in flagrante, la scala mi fu proibita rigorosamente. Ero spacciato, ma ben presto ripiegai sui libri nuovi sistemati più in basso, facilmente raggiungibili grazie ai miei rigogliosi 120 cm di statura.

Apro gli occhi, e quello che vedo è una serie di righe parallele orizzontali di colore nero su sfondo bianco: la pagina di un libro. Ma in realtà non ci arrivo subito: il mio unico neurone sveglio si dà un gran da fare, ma non è semplice dribblare i postumi della serata precedente. Avevo una cena di lavoro: ascoltare commenti retorici, le banalità di questi anni, i sorrisi patetici dell’ipocrisia… a volte non riesco a ironizzarci su; a volte proprio non ce la faccio.
Sono trascorsi circa dieci minuti, e dopo l’ennesimo tentativo di riprendere conoscenza, i miei cassetti della memoria non sono più vuoti: stanotte mi sono addormentato sul divano mentre leggevo le ultime pagine di un libro incentrato sulla figura di Peter Lorrimer Whitehead.

Who is? “Peter Whitehead è una figura culto del documentario politico e musicale degli anni Sessanta. Ha filmato Allen Ginsberg e Ferlinghetti, Mick Jagger — un amico — e Syd Barrett — un fratello. Nico, una delle sue numerose fidanzate, e Mark Rudd, leader dei Weathermen Underground, organizzazione della nuova sinistra rivoluzionaria americana. Passando per Vanessa Redgrave mentre canta una canzone rivoluzionaria cubana e i concerti psichedelici dei Pink Floyd… L’opera di Peter Whitehead era scomparsa da quando, alla fine degli anni Settanta, questa anomala e straordinaria figura del documentario underground era fuggita dal cinema andando a vivere in Arabia Saudita per allevare falchi. Oggi Peter è tornato alla ribalta, conquistando il pubblico delle giovani generazioni. I suoi film sono infatti materiali preziosi su un periodo ormai leggendario: gli anni Sessanta e la nascita della controcultura.
Questo è Peter Whitehead, prendendo a prestito la sintesi dalla quarta di copertina del prezioso volume Peter Whitehead. Cinema, musica, rivoluzione, a cura di Laura Buffoni e Cristina Piccino, pubblicato da DeriveApprodi nel 2008.

Peter WhiteheadNato a Liverpool nel 1937, figlio unico, Peter apparteneva alla working class, e viveva in una delle zone più povere della città. Quando scoppiò la seconda guerra mondiale, il padre partì per il fronte. La sua infanzia è stata segnata dalla povertà e dall’assenza di una figura maschile a cui fare riferimento. Poco dopo il termine del conflitto, il padre morì. Nel frattempo, il nuovo governo socialista inglese aveva varato un piano di promozione sociale nel campo dell’istruzione, offrendo ai ragazzi più intelligenti delle classi povere una borsa di studio per frequentare le public school (le scuole più care e esclusive del paese dove veniva formata la classe dirigente britannica). Era il 1947. Peter fu mandato all’Ashville College, a Harrogate. Era una scuola metodista per i figli dei ministri della Chiesa. “Ci pensate? Il fine settimana arrivavano lussuose automobili a prenderli. Io restavo lì. Ero un elemento esotico, un esperimento sociale. è stato abbastanza traumatico. Mio padre era appena morto, e, riflettendo sulle ragioni per cui, in seguito, ho sviluppato un individualismo così forte, capisco che non avevo altra scelta. La scuola è stata la prima esperienza diretta di cosa significa essere diversi, anche se nel profondo la diversità riguardava me e tutta l’Inghilterra che pretendeva di farmi sentire un privilegiato. Secondo loro avrei dovuto mostrare solo gratitudine…” Successivamente, nel corso degli studi alla Slade School of Art di Londra, Peter incontrò Sandro Paternostro della Rai, che gli chiese di lavorare per lui. “Non avevo alcuna esperienza ma, andando avanti, ho scoperto che mi piaceva molto fare il cameraman. Alla fine avevo imparato a conoscere la macchina da presa intimamente, ero sicuro di me, sapevo muovermi con una certa velocità.”

È in quegli anni (11 giugno 1965) che Peter realizza Wholly Communion , un breve film girato alla Royal Albert Hall di Londra, che documenta un reading (denominato International Poetry Incarnation) dei poeti della Beat Generation, tra cui Allen Ginsberg e Gregory Corso. “Mi sono proposto all’organizzazione per le riprese e loro hanno accettato. L’International Poetry Incarnation era stato pensato come un normale reading di poesia, invece mi sono trovato davanti settemila persone arrivate lì per ascoltare Ginsberg e gli altri. È stata una cosa incredibile. Ero da solo con una Eclair muta e un Nagra per registrare il sonoro. Non avevo molta pellicola, ho girato quarantaquattro minuti e ne ho montati poco più di trenta. Ma non avevo nemmeno i soldi per girare di più, inoltre non sapevo minimamente cosa sarebbe successo. Certo, mai avrei immaginato di vedere settemila persone! […] Il film si apre con il mantra recitato da Ginsberg sul quale scorrono le immagini del teatro, degli altri poeti, le facce del pubblico, una ragazza che beve vino e agita un fiore, un tipo che guarda in alto… Quando è arrivato Gregory Corso, che era il mio preferito, mi sono accorto che dal punto in cui mi trovavo non riuscivo a riprenderlo bene, sulla traiettoria c’era Ginsberg. Così mi sono spostato girando intorno al palco. Ginsberg si è innervosito e mi ha detto: «Ehi ragazzo, levati di torno» sbattendomi giù. Ero obbligato a restare lì, per questo ho ripreso Corso tra le teste di due spettatori che stavano chiacchierando… La sostanza di Wholly Communion è anche questa.”

Wholly Communion

Nel settembre 1965 Peter gira Charlie Is My Darling , il primo film documentario sui Rolling Stones che testimonia il loro mini-tour in Irlanda (Belfast e Dublino). La pellicola fu trasmessa per la prima volta al Mannheim Film Festival del 1966 (e in seguito fu sepolta da una triste battaglia legale tra i Rolling Stone e Allen Klein, e non venne mai distribuita), e cattura gli Stones nel pieno della loro energia subito dopo l’uscita dello storico singolo (I can’t get no) Satisfaction.

“Ho incontrato i Rolling Stones il giovedì e venerdì eravamo su un aereo per l’Irlanda. Quattro giorni erano niente di fronte alla responsabilità di un film del genere, quello che è diventato Charlie Is My Darling. Probabilmente Oldham, il committente, sperava di ottenere qualcosa sul genere Help dei Beatles. Appena li ho incontrati ho capito subito che avrebbero conquistato il mondo. Mi sono chiesto: chi sono questi ragazzi? Cosa cercano di dimostrare? La situazione rappresentava una grande sfida. Avevo davanti i Rolling Stones l’attimo prima che diventassero famosi… […] Non ho mai pensato di fare un film celebrativo, quel genere di film che venerano le star. Mi piaceva piuttosto l’idea di dire sono Peter Whitehead, ho una macchina da presa e viaggio con i Rolling Stones. Ai miei occhi i Rolling Stones erano i ragazzi della porta accanto che suonano e fanno impazzire altre moltitudini di ragazzi come loro. È questa l’idea su cui ho lavorato e il modo in cui li presento nel film. Erano abbastanza impacciati, facevano fatica a esprimersi al di fuori della musica. Jagger era molto chiaro e acuto ma solo se parlava di musica. Quando dovevano parlare di se stessi, di come vivevano il rapporto con il palcoscenico e la celebrità si bloccavano. Il solo che affrontava questioni simili con una certa precisione era Brian Jones, che in quel momento sembrava il più egocentrico del gruppo. […] Appena però uscivano dal camerino per salire sul palco la trasformazione era immediata: riuscivano a entrare in sintonia con centinaia di persone che li adoravano.”
Il film termina con la famosa scena di Keith e Mick che bevono nella hall dell’hotel, con Keith che suona il piano e Mick che canta imitando Elvis.

Peter Whitehead

Peter Whitehead non era un regista né infervorato né opportunista. Era un cineasta con molta immaginazione ma al contempo disincantato, conscio dell’impatto visivo delle situazioni e dei personaggi che immortalava, ma con un occhio costantemente clinico, antropologico. Un documentarista nato. Con la curiosità di quei fanciulli che mentre si interrogano su quel che non conoscono, ti spiazzano formulando pensieri molto adulti. In Lady Jane, singolo estratto dall’album Aftermath dei Rolling Stones del 1966 (il primo con tutte le canzoni composte dalla coppia Jagger/Richards), Peter utilizza immagini al ralenti dei Rolling Stones anticipando, pur con scarsi mezzi tecnici a disposizione, lo stesso effetto utilizzato di recente da Martin Scorsese nel film Shine a light. Le immagini dei Rolling Stones e Mick Jagger scivolano dolci sullo schermo, che avvolge la canzone in un tempo di panna, soffice schiuma, nebbiosa, sospesa. Si parte da un sussurro e si finisce in uno spezzone di cinema muto.

Peter Whitehead e Mick Jagger

“Quando giravo i videoclip mi chiedevo come produrre la stessa energia della musica, come legare i diversi ambiti di suono e immagine in modo che ognuno risultasse al meglio. Penso che il massimo della separatezza sia espressa nel video di Lady Jane, la musica e le immagini sono totalmente indipendenti tra loro. È uno dei miei preferiti. Compone un cerchio perfetto di musica romantica, elegante e lirica. Sembra una canzone del Rinascimento inglese suonata da John Dowland, un famoso suonatore di liuto inglese del Sedicesimo secolo. Lady Jane è una delle mie canzoni preferite. Parla d’amore e di classi sociali. Lady Jane è la figlia di una famiglia inglese aristocratica sedotta da una rockstar. Potrei essere io, Peter Whitehead la rockstar proletaria che si innamora di una giovane donna ricca, bellissima, elegante. Una come Alberta Tiburzi…”

Il 1967 è l’anno di Tonite Let’s All Make Love in London . Dal titolo di una poesia di Allen Ginsberg, Tonite Let’s All Make Love in London non è un documentario in senso stretto, ma un pop concerto in sette movimenti sulla rivoluzione culturale inglese. Peter filma la rivoluzione del rock, con una straordinaria visione, caleidoscopica e impressionistica, nel pieno degli anni della Swinging London. Il film si basa su una serie di esibizioni psichedeliche, interviste, e performance dal vivo dei Pink Floyd, con la musica di Interstellar Overdrive ad accompagnare la macchina da presa nella descrizione della vita notturna londinese e dei locali storici della City, insieme a filmati di John Lennon, Yoko Ono, Mick Jagger, Vanessa Redgrave, Lee Marvin, Julie Christie, Allen Ginsberg, Eric Burdon, Michael Caine e molti altri.

Tonite let's all make love in London

“I Pink Floyd li avevo filmati la prima volta al club Ufo, nel ’67, più o meno quando ho ripreso la sessione di registrazione. Mi avevano subito conquistato, la loro musica mi sembrava diversa da quella di tutti gli altri. Così ho pensato di usare la loro musica per Tonite Let’s All Make Love in London. Potevo mettere Eric Burdon o i Rolling Stones ma non mi convincevano. La sonorità dei Pink Floyd mi sembrava quella più giusta. Li ho contattati chiedendogli Interstellar Overdrive che mi sembrava perfetta per il film. Non erano mai stati in uno studio di registrazione ma alla fine li ho convinti. Ho pagato la musica 85 sterline, non pensavo che poco dopo avrebbero avuto tanto successo. Circa dieci anni fa, una società musicale ha deciso di far uscire un disco con la musica di Tonite… Gli ho detto che avevo ripreso la sessione di registrazione e il concerto all’Ufo e che avevo quei filmati riposti da qualche parte. Mi hanno detto che se riuscivo a trovarli potevamo farne una vhs da allegare al disco. Li ho trovati. Possedevo i diritti del film e della musica. Gli undici minuti di Sound Techniques Studio (gennaio 1967, Ndr) erano ancora in condizioni perfette. E pensare che non avevo aperto quel contenitore da allora! Abbiamo usato ogni inquadratura. Ho recuperato anche il film all’Ufo, era in ottimo stato. E il Technicolor Dream. Mettendo tutto insieme avevo abbastanza materiale per fare il mio film London 66/67. The Pink Floyd. Molte cose le avevo già usate ma era comunque un materiale unico. Syd Barrett è in un momento di grazia. Devo dire che ho guadagnato di più con quegli undici minuti che con tutto il mio lavoro!” Dedicato all’amico Syd Barrett[1], London 66/67. The Pink Floyd è, in sintesi, un collage di tre diverse esibizioni dei Pink Floyd: una session ai Sound Techniques Studios; un concerto sul palco dell’Ufo Club, centro nevralgico della scena psichedelica; e la partecipazione al 14 Hour Technicolor Dream, leggendaria maratona di pittura, musica e luci che vide tra i protagonisti John Lennon e Yoko Ono.

Syd BarrettPer quanto riguarda il metodo Whitehead, Peter abbandonò subito l’idea che il documentario potesse esprimere la verità assoluta, al contrario di quanto sostenevano i fratelli Maysles o Pennebaker e il cinéma-vérité in generale. “Dopo Wholly Communion e Charlie Is My Darling ho capito che era una convinzione sbagliata. Al contrario, seguendo una storia con la macchina da presa in spalla il film diventa personale, è intimo. Inoltre, non volevo nascondermi. Per questo quando dicono che i film di Peter Whitehead sono la storia degli anni Sessanta rispondo di no, è solo la storia di un ragazzo che in quegli anni se ne andava in giro tra Londra e New York. […] Il documentario rende il potere della macchina da presa ambiguo, specie nel rapporto con l’oggetto filmato. Ecco perché non ho mai creduto all’oggettività. La mia principale aspirazione mentre giravo i miei film era di essere nelle cose. Wholly Communion o Charlie Is My Darling li ho scritti, montati, ma ho anche vissuto quanto raccontano.”

In The Benefit of the Doubt, Whitehead mostra la Royal Shakespeare Company alle prese con lo spettacolo US di Peter Brook, dove US ha il doppio significato di noi e di Stati Uniti, poiché viene trattato l’atteggiamento che secondo Brook dovrebbero tenere gli inglesi nei confronti della guerra in Vietnam. Alternando parti dello spettacolo con la manifestazione davanti all’ambasciata americana, Whitehead ottiene l’effetto di rafforzare anche esternamente la portata teoretica delle scelte teatrali di Brook, che per US già si avvaleva del grotowskiano coinvolgimento del pubblico, al fine di spingerlo con maggiore forza ad una presa di posizione tangibile. Lo scenario apre prospettive assai interessanti nell’analisi dell’operazione di Whitehead, se si considerano i pensieri di Grotowski circa le differenze tra il mezzo filmico e quello teatrale (con quest’ultimo che deve puntare di più sul coinvolgimento del pubblico), nonché la doppia attenzione di Brook stesso, che ha sempre alternato (nella sua pratica registica) e contaminato l’uso dei due linguaggi (Brook in quel periodo era particolarmente affascinato dalle teorie di Artaud e dalle pratiche del Living Theatre).

Peter attua una ricerca intenzionale anche dall’interno, fin dall’uso della macchina da presa, che partecipa da vicino e ripetutamente alle scene teatrali, cercando di trascinare al massimo grado il pubblico. The Fall (1969), considerato da Whitehead il suo film più importante, è un’opera di straordinario valore cinematografico e una riflessione incisiva e personale sull’America di fine anni Sessanta. Girato interamente a New York, dall’ottobre 1967 al giugno 1968, The Fall raccoglie le testimonianze di Robert Kennedy, Paul Auster, Arthur Miller, Robert Rauschenberg e molti altri. Un film per certi aspetti sperimentale, in cui Whitehead documenta una società in rivolta, ma anche in fermento, vitale. Le proteste per la guerra in Vietnam, l’attivismo dei movimenti afroamericani, le rivolte scatenate dall’omicidio di Martin Luther King. E poi, nel finale, un documento davvero unico: il regista, asserragliato alla Colombia University con gli studenti che la occupano, filma i giorni dell’occupazione e la carica della polizia.

Benefit Of The Doubt

Tralasciando The Perception of Life [2] del 1964, e Daddy [3] del 1973, si giunge a Fire in The Water del 1977, vale a dire a requiem for the 60s: un regista non crede più che il cinema possa cambiare il mondo, e si ritira nelle Highlands con la fidanzata per lavorare al suo ultimo film. Mette mano ai materiali, mentre la ragazza si allontana nella campagna scozzese. In questo lavoro c’è tutto il cinema di Peter Whitehead. L’immagine di un incanto tanto limpido, l’aerea cascata del capriccioso pellegrinaggio di Nathalie Delon (altra sua storia d’amore), che perde ogni forza di gravità e si dipana nel vento, in uno svaporìo di gocce senza peso. Poco dopo aver terminato il montaggio di Fire in The Water (in una sorta di coerenza artistico-biografica), Whitehead decide di abbandonare la carriera cinematografica e trascorre dieci anni tra Afghanistan, Pakistan, Alaska, Marocco, Algeria, e Iran, finché costruisce in Arabia Saudita un centro di cura per i falchi in via di estinzione (l’Al Faisal Falcon Center, che subirà una brusca fine durante la Guerra del Golfo). Peter non pensava più che il suo operato avrebbe sinceramente potuto contribuire alle giuste cause insite nel mare di eccessi e follie degli anni precedenti.
Quando Peter torna in Europa, il cinema non lo interessa più (dopo un attacco di cuore che lo costringe al riposo, comincia a scrivere romanzi, traduce la sceneggiatura di Alphaville di Godard, viaggia nella Rete e diventa editore e precursore della cultura cyberpunk), almeno fino al 2009, quando torna dietro alla macchina da presa (non più l’Eclair degli anni Sessanta ma per la prima volta una digitale). Il set è Vienna, mentre il titolo, Terrorism Considered as One of the Fine Arts, ha origine da un suo romanzo ispirato alle vicende di un gruppo di ecoterroristi. I protagonisti sono una Wholly Communion che ritorna nella trilogia di cui Terrorism… è l’ultima parte; gli altri sono Nature’s Child e Girl on the Train.

Led ZeppellinIl motivo di questo ritorno ci viene spiegato dallo stesso Whitehead durante una cerimonia di premiazione: “Quando ho smesso di fare cinema, l’ho fatto perché ritenevo che l’artista non potesse più essere efficace dal punto di vista politico. E penso che la situazione sia più o meno la stessa anche adesso. Il problema attuale è che la realtà è solo immagine, solo ed esclusivamente immagine. E c’è una passività imposta al mondo da questo insieme delle immagini. C’è quasi un fascismo dei media che va ad influenzare le persone fino nei loro sentimenti e forse, in un contesto come questo, l’unica forma d’arte che può cambiare il mondo, che può avere effetto sul mondo, è il terrorismo, come racconto appunto nel mio ultimo film (Terrorism considered as one of the fine art, Ndr) e come Osama Bin Laden ha mostrato con grande efficacia in quello che può essere definito il suo film. Quando mi sono reso conto di non poter più avere effetto sul mondo come regista, ho deciso di ritirarmi dalle scene e di lavorare su me stesso, di cambiare me stesso e di diventare una persona naturale per sfuggire appunto a questa logica opprimente della società e a questo fascismo dell’immagine.” In un certo senso, Whitehead sembra riprendere le sagaci osservazioni di Guy Debord racchiuse nella sua opera più celebre, La società dello spettacolo .

Nel 2008, il settantatreenne cineasta inglese è stato ospite al Bellaria Film Festival e al Biografilm Festival di Bologna per la prima retrospettiva cinematografica italiana, dove oltre ai suoi film, sono stati presentati filmati inediti che celebrano l’inizio di carriera dei grandi gruppi che hanno fatto la storia del rock: Rolling Stones (Rare Rolling Stones on Tour ), Led Zeppelin (Live at the Royal Albert Hall ), Pink Floyd (Pink Floyd London ‘66-‘67 ), Velvet Underground & Nico (I’m Not Sayin ), Beach Boys (The Beach Boys in London [4]), e Jimi Hendrix (Hey Joe ).

Ha sempre detto che lo scopo principale dei suoi lavori “è stato quello di trasferire nelle immagini la grande energia della musica”, che, in Led Zeppelin del ’70, martella e trapassa lo schermo con i gridi riccioluti, quasi femminili, della band, rovesciandoci addosso le chitarre taglienti, con effetti di 3D al naturale, senza bisogno di occhialini polarizzati. Nel filmato del ’66 sui Beach Boys (voce narrante Marianne Faithfull, poi compagna di Whitehead), le camicie pop, un po’ galeotte, a larghe strisce bianche e blu, si alternano ai millenari passi ritmati davanti a Buckingham Palace, della Guardia della Regina.

Il suo talento visionario emerge anche nei videoclip psichedelici su Jimi Hendrix, grazie alle zoomate di esplosioni rosso-porpora che contrastano con lo scuro dei capelli e della pelle del leggendario chitarrista americano. Covo di fumo, fili elettrici e riflettori, dentro il cerchio magico di una ribalta ridotta a un volto e una chitarra, grazie al quale il regista sa suscitare l’eco di un’epoca, in uno psichedelico va e vieni che ridipinge mani e faccia. La bocca scolpita dai controluce, Hendrix che bacia e lecca la chitarra, è un uccellaccio solitario, l’ultimo milite di una trincea musicale.
E a proposito di chitarre (il simbolo della musica rock per eccellenza), è sempre di Whitehead l’intuizione di riprendere quello che è ormai considerato un rito: sfasciare sul palco lo strumento elettrico. Del resto, proprio in quegli anni (1967) il regista scriveva un libro dal titolo emblematico che rivedeva il famoso detto cartesiano: Destroy Therefore I Am (Distruggo dunque sono).

Una delle sue capacità basilari è stata quella di intuire negli artisti quello che oggi si indica come fattore X, prima ancora che diventassero famosi. “Quando ho detto sì al manager dei Rolling Stones, non avevo ancora ascoltato una loro canzone. È anche vero che loro non erano ancora i Rolling Stones… Sono stato la loro cavia e, forse, un po’ il loro trampolino: li ho filmati proprio l’attimo prima che divenissero famosi. Esattamente quel che è successo con i Pink Floyd: sono stato il primo a riprenderli. Il filmato in cui si esibiscono a Londra al poi mitico Night Club Ufo è il loro battesimo di celebrità: fino a quel momento non erano nessuno. Senza saperlo, mi hanno ricambiato il favore: grazie alla riedizione in dvd nel ‘94 dei miei filmati, il mondo del cinema e della musica mi ha riscoperto”.

Peter WhiteheadFiglio, e padre, dei leggendari Sixties (“mi hanno definito il regista degli anni Sessanta. Ma quando filmavo, filmavo quel che vedevo, non mi ero fatto un programma, tipo: sto documentando un’epoca. Memorizzavo solo esperienze, emozioni, ribellioni di quel momento. Solo dopo, sarebbero divenute storia”), Whitehead ha stipato dentro una cinematografia contratta in poco più di dieci anni, dal ‘64 al ‘77, un patrimonio di eventi e di icone, non solo musicali: da Robert Rauschenberg e Bob Kennedy in The Fall a David Hockney (con un paio d’ occhialoni alla Elton John ricavati dalla scritta luminescente zOOm!), alla celebre performance della gallina bianca strisciata su una tastiera e poi sbattuta (suonata) contro i resti del pianoforte distrutto. Il suo è stato un lavoro di vera cronaca musicale in presa diretta, una registrazione attenta di suoni ed anche di visoni non musicali. L’inventore riconosciuto dei videoclip c’era sempre nei momenti che contavano, quelli topici diventati poi storici. In una cinematografia densa di emozioni, il cineasta inglese ha racchiuso un’antologia di performance e di miti di un decennio che non ha eguali. Peter Lorrimer Whitehead è, e sarà per sempre, il più grande documentarista della storia del rock.

[1] Roger Keith Barrett, noto agli amici e ai fan come Syd, era entrato in contatto con Peter Whitehead fin dai tempi di Cambridge. La stima reciproca permise, a carriere avviate, le piacevoli e interessanti collaborazioni di cui sopra. Proprio a proposito di Syd, in un incontro al Biografilm Festival 2008, Whitehead ha rivelato che ad un certo punto della sua vita, “intorno a Barrett si poteva percepire un muro invisibile creato dallo stesso Syd per non fare entrare nessuno nella sfera più personale e intima della propria anima”.


[2] Un documentario scientifico su come la biologia si sia evoluta parallelamente al progresso tecnologico, realizzato nel museo e nei laboratori della Cambridge University dove Whitehead era stato studente, e filmato utilizzando tre secoli di microscopi, compreso lo strumento che svelò a Francis Crick la struttura del DNA.


[3] Iniziato come un documentario sulla scultrice francese Niki de St Phalle – sua fidanzata al tempo delle riprese – fu poi trasformato in una fantasia surreale incentrata sui tentativi di una donna di esorcizzare l’influenza del padre.


[4] Della partita non prese parte Brian Wilson, cuore e anima della band, rimasto a Los Angeles per terminare le registrazioni dinSmile, il disco che avrebbe dovuto risolvere definitivamente la sfida con i Beatles…

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