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Cinema

È Locarno, bellezza!

Festival del film Locarno 2010Un uomo con una scatola in mano. Un ragazzo e una ragazza seduti uno di fronte all’altro in un ristorante. Un enorme schermo in una piazza acciottolata. Una rotonda interrata, rumoreggiante e zeppa, di cibo e corpi. Un via vai di ombrelli e biciclette leopardati. La sala e l’altra sala. Un gattone giallo e nero che ogni sera, dopo lo scoccare di un orologio sul campanile, attraversa con un ruggito e zampe felpate il campo visivo di una folla seduta all’aperto, prima che gli occhi vengano inondati dallo scorrere dei fotogrammi. Sono alcune delle immagini che abbiamo trattenuto, negli occhi, dei dieci giorni passati al Festival del cinema di Locarno, oltre a quelle che, a pioggia, ci hanno lasciato le decine di film visti. Locarno, Svizzera. Svizzera italiana, a voler essere puntigliosi. Eppure, a nessun titolo, questo suo essere geograficamente etichettata può avere un qualche senso di vicinanza con la pur confinante lontanissima entità. Tutto è più caro, in Svizzera. A Locarno, al festival. E, nonostante questo, tutto è altamente più accessibile. Non ci sono luoghi proibiti, in questo microcosmo fatto di schermi, pellicola, esseri umani che fanno finta d’essere altri esseri umani, telecamere, uomini e donne mutanti, provvisti di laptop integrato e pass stampa, registi vestiti come skater e critici tirati a lucido, direttori appena lanciati che si mischiano alla folla degli aperitivi. Non ci sono luoghi proibiti, soltanto luoghi molto organizzati. Una struttura, il festival di Locarno, che proprio perché solida, permette flessibilità. Come il famoso Emmenthal che ingloba i buchi nella propria conformazione, l’eccezione fa parte della regola. Cose che ci si può permettere in luoghi da sempre abituati a rimanere esterni, super partes. Luoghi talmente compresi in se stessi da non temere intrusione alcuna. Impermeabili, verrebbe da dire, non fosse che il concetto è esattamente opposto. Tutto è aperto e accessibile, ché la paura dell’attacco e dell’invasione è scongiurata da secoli. Locarno, dunque, ti accoglie e coccola ben conscia della tua pochezza d’aggressore, rispetto alla stabilità rocciosa della sua identità. Così questo festival, dove le code per accedere alle proiezioni pubbliche sono nient’altro che rutinarie attese per il proprio turno in mezzo ad altri piuttosto che sbuffanti ring di aggressività repressa e occasioni per spuntare una misera vittoria, momenti per guardarsi intorno piuttosto che pretesti per erigere steccati. Attese che durano il giusto, foss’anche mezz’ore intere. Dove gli uomini addetti alla security sembrano null’altro che operatori logistici, indistinguibili da coloro che staccano i biglietti, assicurano la distribuzione dei posti a  sedere, siedono ad un desk pronti a dsare informazioni. L’edizione 2010 ci ha visti, fra il 4 e il 14 agosto, piacevolmente partecipi di questa giostra. Più che un festival, un mirabolante parco giochi dove la scelta delle attrattive è virtualmente infinita. La selezione, fra film in concorso, retrospettive, corti, sezioni speciali e film fuori concorso, prevede centinaia di proiezioni. Impossibile seguire tutto, a meno di non disporre di un team di giornalisti in numero perlomeno pari a quelli in campo per un qualsiasi sport di squadra. La soluzione quindi, come in ogni esperienza sensoriale che si rispetti, è sempre quella di lasciarsi andare al naturale corso delle cose. Fucine dunque, nella persona dell’avventata reporter scrivente e del fotografo Giulio Donini, si è catapultata senza paracadute dentro i meandri del Festival elvetico e sotto i portici di Locarno alla ricerca della formula, del segreto, del quid di questa fortunatissima manifestazione.

Locarno Generali | Foto di Giulio Donini

Locarno richiede una scelta, nel modo di raccontare. A dispetto dell’ovvia possibilità di seguire un ordine cronologico, che sembrerebbe scontata, vista la propensione svizzera ad occuparsi per tradizione del tempo che scorre forgiando pregevoli oggetti a ciò preposti, decidiamo per un approccio di narrazione più vicino alla natura del festival. E, seguendo la suggestione dei film che più ci affascinano, non ne spieghiamo didascalicamente né l’intenzione, né lo sviluppo. Semplicemente, andiamo per immagini.

L’immagine in movimento, la regia, i flash back

Innanzitutto, i film. La selezione di Locarno è sempre una sorpresa. Non c’è mai nulla di scontato, nella rosa di pellicole che, in tutte le sezioni, vengono mostrate al pubblico, anno dopo anno, nella rassegna. Poco da fare, il Locarno Film Festival non è cumulabile o paragonabile a nessun’altra rassegna di pari durata o importanza. Ha un posto tutto suo, unico, nell’agenda dei professionisti dell’industria cinematografica e dei semplici appassionati, una miriade di monadi che si sfiorano e s’incrociano in un luogo di entropia contenuta, attirate tutte da uno schermo e non da un tappeto rosso. L’unico red carpet a Locarno è quello della Piazza Grande, è lungo il tempo di venti, trenta passi da un’entrata laterale invisibile al pubblico fino alle scalette per il palco, esattamente sotto uno dei più grandi schermi del mondo. Niente parate, niente sfoggio di abiti sfarzosi, niente firme di autografi. Chi va a Locarno non ha certo bisogno di stiparsi contro una transenna per vedere i creatori di sogni. Gli incontri con il pubblico sono numerosi e aperti a tutti, gli spazi adeguati. Attori, registi, produttori, critici, giurati, stampa e pubblico frequentano gli stessi posti, per vedere o partecipare ad un incontro, a una presentazione, per bere un caffè o pranzare, per l’aperitivo e per le feste. Alcune occasioni, certo, sono private, ma sono molto poche e non ostentate, prive di quello snobismo che tanto piace ai “cugini” dei Paesi confinanti che ospitano i Festival storici, come li ha chiamati il Presidente Marco Solari che, nel chiudere questa scoppiettante edizione ha detto: “A Locarno non si cede a pressioni e a beghe politiche, non permettiamo che nessuno cavalchi questo Festival per giochi di potere”. L’inflazionata espressione “isola felice” non ci piace, ma calzerebbe a pennello.

Locarno Generali | Foto di Giulio Donini

Innanzitutto i film, dunque. La selezione, si sa, nei festival è spesso enormemente influenzata dalle scelte personali del direttore artistico di turno e del suo entourage. Quest’anno, a Locarno, il primo artefice era al suo debutto. Il critico cinematografico e giornalista francese Olivier Pére, rubato alla Quinzaine des realisateurs di Cannes, ha portato sulle sponde del Lago Maggiore una ventata di freschezza, un ardimento che soltanto il tocco leggero di un’anima incontaminata poteva rischiare. Naturalmente dotato di un’eleganza innata, si è districato, evanescente eppure presentissimo, fra le miriadi di incontri pubblici, presentazioni, cerimonie e gathering più o meno ludici sfoggiando sempre impeccabili completi bianchi o neri, concedendosi al massimo un mélange dei due toni base con macchie di grigio. Parla pochissimo, Olivier Pére, ma è uomo d’azione precisa e mirata. Il suo staff lo affianca adorante e tuttavia assolutamente autonomo. Alcune sue scelte sono state pure scommesse: la presenza in concorso di film al limite del porno, come L.A. Zombie di Bruce la Bruce e Homme au Bain di Cristophe Honoré, entrambi interpretati dalla star internazionale del porno gay, François Sagat, per esempio, o la proiezione in Piazza Grande di film di genere come Monsters o Rubber. Pére è riuscito nell’intento di coniugare la forte vocazione locarnese verso i film di giovani autori e la scoperta di sempre nuove cinematografie con uno sguardo al passato, a puntare i riflettori sul cinema d’autore pur dando il giusto spazio a ottime produzioni di puro entertainment. La retrospettiva di quest’anno ci offre la misura di quest’equilibrio: quale migliore autore di Ernst Lubitsch, colui che ha fatto della commedia intelligente e sofisticata arte pura? Il numero di spettatori che ha riempito le sale per avere un assaggio del Lubitsch touch ha dimostrato quanto questa cifra sia azzeccata. La storica sala dell’ExRex ha ospitato quasi tutte le proiezioni dei 52 film inclusi nella retrospettiva, curata da Joseph McBride in collaborazione con la Cinémathèque française. Lubitsch, qundi. Un filo rosso lo lega stretto, ci pare, al nostro direttore dall’impeccabile stile black&white. Come scrive lui stesso, presentando la retrospettiva del grande maestro, definendone lo stile: “una sapiente miscela di eleganza, satira, spirito, senso del ritmo e dell’ellissi”. Ci pare di poter applicare queste stesse parole anche ad Olivier Pére nella sua veste di neo-direttore.

Locarno Generali | Foto di Giulio Donini

E, stranamente, o forse proprio al punto, anche al vincitore del concorso internazionale di quest’anno, la commedia cinese Han Jia (Winter Vacation). La giuria del Concorso, composta dal regista di Singapore Erik Khoo, dall’attrice iraniana Golshifteh Farahani, dall’attore francese Melvil Poupaud, dal regista svizzero Lionel Baier e dal regista statunitense Joshua Safdie ha scelto come vincitore assoluto il film del poeta e scrittore Li Hongqi, che nel 2004 aveva portato via sempre a Locarno il premio NETPAC con il suo lungometraggio d’esordio. Per Han Jia pubblico e stampa si sono divisi equamente fra amore e odio. Nella definizione dello stesso Olivier Pére durante la cerimonia di premiazione, il film è senz’altro “la commedia più lenta nella storia del cinema”. L’atmosfera rarefatta di un paesino cinese durante le vacanze invernali, i silenzi interminabili degli adolescenti protagonisti, immersi nella desolazione innevata, le lunghissime inquadrature fisse sui volti di vecchi, giovani e bambini, le poche battute di dialogo fulminanti a spezzare interminabili pause hanno messo alla prova molti spettatori. E questi stessi elementi, uniti ad un brillante humour nero, hanno convinto e affascinato molti altri. Noi siamo fra quelli. Parte della stampa, poi, non ha gradito l’espressività a dir poco parca del regista, il quale si è limitato ad emettere pochissime sillabe in ogni occasione pubblica cui ha partecipato. Noi pensiamo, invece, che siano i film a parlare, e che i silenzi siano un discorso d’altro tipo, semplicemente. Ad affiancare Li Hongqi negli incontri, nelle presentazioni e conferenze stampa, il più loquace produttore Alex Chung, cinese che vive in Svizzera da anni, il quale, durante la cerimonia di premiazione, ci ha regalato una battuta nello stile del film: “Sono il primo produttore ti-cinese della storia”. E l’effetto sul pubblico ha riprodotto la stessa magia della formula del film. Lunga pausa, risata. Ogni sezione ha riservato al pubblico scoperte e delusioni, come accade in tutte le rassegne di questa portata. Per noi, oltre al vincitore, le sorprese del concorso internazionale sono state il brasiliano Luz na trevas, per la regia di Helena Ignez e Icaro C. Martins, caleidoscopico e anarchico affresco sul cinema, una sceneggiatura che il grande Rogério Sganzerla ha completato prima della sua morte, avvenuta nel 2004. E Pietro, unico film italiano in concorso, di Daniele Gaglianone, prodotto da Babydoc e Gianluca Arcopinto: un film duro, teso, disturbante, con una interpretazione intensa e straziante di un Pietro Casella in stato di grazia. Gaglianone ha portato a casa il secondo premio per la miglior regia della giuria dei giovani, i cui componenti sono stati scelti durante il Festival fra i partecipanti all’iniziativa Cinema e Gioventù. I film in concorso che ci hanno convinto di meno sono Bas Fonds di Isild Le Besco e Womb di Benedek Filegauf. Il primo, la storia di tre donne emarginate, disadattate e lesbiche alle prese con una vita ai margini dell’indigenza non riesce mai a coinvolgere, nonostante le numerose scene violente e l’atmosfera opprimente. La Le Besco ci lascia lì a guardare, senza renderci partecipi, senza mai farci empatizzare con la disperazione e la solitudine dei personaggi. Si resta freddi, senza mai sentirlo, il freddo, veramente. Viene in mente Hanecke, che invece è maestro nel congelare lo spettatore in modo che senta i personaggi e che sia partecipe della storia. Womb non ripete il miracolo di Dealer, il film che nel 2004 fece conoscere Filegauf al pubblico con una serie di fortunate presenze a diversi festival. Al tema della clonazione, comune a molte pellicole di recente produzione, viene dato un twist morboso che non convince e distrae dall’ottima fattura. Il palco dell’incesto non tiene e le scene della rivelazione sono francamente imbarazzanti, alcune addirittura talmente artefatte da suscitare ilarità. Peccato per lo splendido lavoro degli attori, una impossibilmente bella Eva Green e un intenso Matt Smith, ultimissima incarnazione di Doctor Who sul piccolo schermo britannico. Lo stesso tema è stato, a nostro parere, sviluppato in modo eccellente da un film di Duncan Jones del 2009, Moon, in cui l’impatto psicologico della clonazione non scadeva mai nella banalità, in una tensione che lungo tutto il film teneva inchiodati alla poltrona, nonostante la presenza in scena di un unico attore, il bravissimo Sam Rockwell che, per inciso, aveva giganteggiato sullo schermo della Piazza Grande nel 2008 in Choke (Soffocare), tratto dal romanzo omonimo di Chuck Palahniuk.

Locarno Generali | Foto di Giulio Donini

Lo schermo di Piazza Grande ci ha regalato invece, quest’anno, più serate memorabili: il Kòngavegur di Valdis Oskarsdottir, con la sua ironia tagliente in salsa islandese (si ride molto di più dove c’è molta neve, pare questo il trend!); Monsters, di Gareth Edwards, road movie sull’accidentata fuga di una coppia non troppo assestata dal Messico invaso da creature aliene; Rare Exports: a Christmas Tale, dark tale finlandese di Jalmari Helander, che ha portato a casa il premio Variety, in cui si scopre che “Babbo Natale è un cattivo ragazzo”; Rubber, storia di un pneumatico killer follemente innamorato della bellissima Roxane Mesquida, il metacinema di Quentin Dupieux ambientato nel deserto californiano; The Human Resources Manager, vincitore del Prix du Public UPS, in cui il regista Eran Riklis fa partire il protagonista, un ottimo Mark Ivanir, per un viaggio accidentato che sarà una ricerca interiore; Gadkij Utenok di Garri Bardin, eccezionale animazione in stop motion in cui il Brutto Anatroccolo è alle prese con il razzismo dei suoi simili sulle note di Čaikovskij, un film che ha richiesto ben otto anni di lavoro. La sezione Cineasti del Presente ha invece dato spazio, come ogni anno, ai giovani registi alla loro prima o seconda opera. Le scelte della giuria hanno privilegiato il documentario d’autore, assegnando il Pardo d’oro in questa sezione a Paraboles, quinto capitolo di una serie (proiettata integralmente fuori concorso) in cui la regista Emmanuelle Demoris scava nella vita quotidiana e nell’intimità degli abitanti di Mafrouza, l’enorme bidonville alla periferia di Alessandria d’Egitto. E, quasi a tracciare una sottile linea rossa, il Premio speciale della giuria va a Foreign Parts, di Verena Paravel e JP Sniadecki, il cui occhio ci ha restituito il microcosmo della vita nella zona industriale di Willets Point, un sobborgo del Queens a New York. Destinata ad essere demolita, l’area dismessa ospita discariche e sfasciacarrozze improvvisati e la vita della comunità si svolge attorno al commercio e al riciclo degli scarti e dei rifiuti industriali. I registi indagano nell’identità di alcuni dei personaggi di questo strano enclave di confine. Il film si aggiudica inoltre il Pardo per la migliore opera prima. Successo di pubblico e critica anche per Tilva Roš, di Nikola Leizac, un My Own Private Idaho ambientato a Bor, in Serbia, con eccezionali attori non professionisti e atmosfere e location che potrebbero benissimo appartenere al Mid-West degli Stati Uniti.

Locarno Generali | Foto di Giulio Donini

Locarno rivolge da sempre un’attenzione particolare a quei film che spesso rappresentano trampolino di lancio e banco di prova per i giovani autori ancora in nuce. Oltre ai Pardi di Domani, divisi fra una sezione internazionale e una nazionale, i corti sono stati celebrati anche da due sezioni fuori concorso, una che raccoglieva i migliori visti nei 20 anni di vita del concorso e una dedicata solo ai corti d’autore. Quest’ultima sezione ha visto la presentazione del primo cortometraggio dell’attrice Valeria Golino, Armandino e il MADRE, delicato racconto sulla visione dell’amore di un bambino, quasi tutto ambientato nelle meravigliose sale del museo d’arte contemporanea di Napoli. Capitava d’incontrare per le vie di Locarno il terzetto della meglio gioventù del cinema italiano, Golino-Scamarcio-Rohrwacher. Riccardo Scamarcio infatti era impegnato su più fronti: come produttore, con la neonata Buena Onda, del lavoro della Golino e come coprotagonista, insieme appunto ad Alba Rohrwacher e a Louis Garrel, di Diarchia, il cortometraggio di Ferdinando Cito Filomarino in concorso internazionale. Quest’ultimo ha ricevuto da parte della giuria la nomination per gli European Film Awards, pur avendo lasciato il pubblico relativamente freddo. Le atmosfere estremamente oppressive e alto-borghesi del film non hanno convinto molti, nonostante il buon lavoro filmico di Cito Filomarino. Un tendere ad Antonioni che non può bastare, insomma, da parte di un vero talento forse ancora troppo in fieri. Pieno successo, invece, sia di pubblico che di critica, per Yuri Lennon’s Landing on Alpha 46, una coproduzione svizzero tedesca a firma del regista Anthony Vouardoux, l’ennesima prova, se ce ne fosse bisogno, che l’etichetta di genere non preclude affatto l’eccellenza in fatto di cinema. Il corto ha ottenuto infatti il Pardino d’argento nella sua sezione, secondo solo a Kwa heri Mandima di Robert-Jan Lacombe, che porta a casa il Pardino d’oro con la storia autobiografica dei suoi primi dieci anni di vita passati in un paesino a nord-est dello Zaire. Interessanti le proposte fuori concorso, ne citiamo una fra tutte: Io sono Tony Scott, ovvero come l’Italia fece fuori il più grande clarinettista del jazz, prova riuscita del nostro Franco Maresco (per una volta impegnato solo, senza il suo compagno di avventure Daniele Ciprì), alle prese con la storia di un grande musicista dimenticato dal suo Paese d’origine e osannato in America. Altre chicche si trovavano annidate nelle tre sezioni “indipendenti” del festival. Open Doors quest’anno si è concentrata sul cinema dell’Asia Centrale, offrendo un eccellente insight nelle migliori produzioni di questa zona del mondo negli anni ’90 e 2000. La giuria della Settimana della Critica ha attribuito il premio a Reindeer Spotting – Escape from Santaland, altro film finlandese a firma Joonas Neuvonen, crudo e per niente scontato, un viaggio dentro l’esistenza di un gruppo di amici tossicodipendenti, e due menzioni speciali a film interessantissimi per ragioni molto diverse: il documentario Blood Calls You di Linda Thorgren, intenso racconto in prima persona di una storia di violenza domestica e The Furious Force of Rhymes di Joshua Atesh Litle, musicista e regista statunitense, un film sulla potenza dell’hip hop come musica di protesta, a New York come a Parigi, a Tel Aviv come a Gerusalemme, a Bogotà come a Dakar. E infine, l’Appellation Suisse, con appena otto anni di vita all’attivo, creatura dell’agenzia federale di promozione del cinema svizzero SWISS FILMS, che attraverso questa sezione vuole dar spazio a film di produzione svizzera con un reale potenziale di diffusione internazionale. Interessanti scorci, nella selezione. Cosa voglio di più, produzione italo-svizzera per la regia dell’ormai affermatissimo Silvio Soldini, uscito nel 2009, un film sull’amore extraconiugale, complicato e clandestino, che ha conquistato il pubblico nelle sale. E il nostro preferito in assoluto, Pepperminta, coloratissimo Amelie in acido, un film con uno spirito anarchico davvero poco visto sul grande schermo. Pipilotti Rist, che ne ha curato la regia, è una delle artiste più interessanti nel panorama dell’arte ultra d’avanguardia al mondo. Certo non confinata alla sua Svizzera, spopola in rete con i suoi lavori da anni e ci pare non abbia affatto esaurito il suo potenziale. Peccato che il suo film non sia stato apprezzato a sufficienza da essere distribuito un po’ più capillarmente. Restare confinati ai cinema d’essai non giova certo ad un’artista così eclettica e inventiva, che potrebbe piacere anche ad un pubblico mainstream, se solo le fosse data l’opportunità di diffondere meglio il suo lavoro. Purtroppo la Rist non era a Locarno, impegnata altrove e certo non in estrema necessità di promuovere un film ormai vecchio di un anno. Fosse stata sulle rive del lago Maggiore, l’avremmo braccata per un’intervista per chiederle quale sia la sua magica formula per colorare il mondo.

Locarno Generali | Foto di Giulio Donini

Il primo piano

Close up sui premi e gli eventi speciali di quest’edizione, succulente occasioni di venire a contatto con il lavoro di artisti eccezionali che hanno già fatto un lungo cammino nella storia del cinema. Prima di tutti, JIA Zhang-ke, uno dei maggiori registi cinesi ad emergere negli anni ’90 con le sue storie sulla Cina moderna, racconti di un Paese che cambia pur restando ancorato a tradizioni millenarie. A lui va uno dei Pardi d’onore di quest’anno. Un altro viene assegnato al veterano Alain Tanner, regista svizzero figlio di quegli anni ’60 che tanto hanno rivoluzionato la settima arte. E un primo piano, il più ravvicinato possibile, lo merita Chiara Mastroianni, cui viene assegnato l’ambito Excellence Award Moet & Chandon di quest’anno, per una carriera in cui le scelte fatte sono state tutt’altro che scontate, in cui la sua eccezionale versatilità d’interprete è andata a servizio di alcune fra le opere autoriali più interessanti degli ultimi anni. Un’artista cosmopolita già per nascita, non ha dormito sugli allori delle peraltro pesantissime eredità dei suoi illustri genitori, ma è stata in grado di crescere in una propria sfera di espressione, fra la Francia e l’Italia, l’America e la Germania. Sinceramente commossa durante la premiazione, l’attrice è stata introdotta da un filmato in cui lei e suo padre, sullo stesso schermo, dialogano e s’interrogano. Marcello Mastroianni è stato ricordato così, lui che fu alter ego di Fellini sullo schermo, lui che ha creato alcuni dei personaggi più indimenticabili della storia del cinema mondiale, in intimità con sua figlia, anche lei inevitabilmente parte dell’incredibile pianeta cinema. Infine, il premio Raimondo Rezzonico, in onore del più longevo direttore artistico del Festival, è andato al produttore israeliano Menahem Golan, un visionario del cinema indipendente che ha lavorato con i registi migliori di più generazioni, da Altman a Cassavetes, da Norman Mailer a Barbet Schroeder. Ed altri primi piani, dedicati ad artisti estremamente diversi fra loro, ma tutti capaci di lasciare un’impronta fondamentale sugli schermi di tutto il mondo.

Locarno Generali | Foto di Giulio DoniniI programmi speciali di quest’anno hanno visto protagonisti come John C. Reilly, uno degli attori più incisivi della sua generazione, capace di passare dalla commedia esilarante di Walk Hard a film drammatici della portata di Magnolia, dal cult movie di Paul Thomas Anderson Boogie Nights a un blockbuster comico come Stepbrothers. In Piazza Grande, presenta il suo nuovo film, Cyrus, diretto dai fratelli Jay e Mark Duplass, un film che esalta la sua maestria nei ruoli insieme delicati e forti, dove la sua capacità di calarsi nel bambino che c’è in ognuno di noi cammina fianco a fianco con una intensa consapevolezza delle vicende umane adulte. Un attore e un oratore istrionico, divertente, sempre pronto alla battuta e alla canzone (ricordate quando canta in Magnolia?), ha deliziato il pubblico di Locarno soprattutto nelle situazioni non ufficiali. La foto che forse più lo rappresenta è fra quelle ufficiali del festival: lo ritrae mentre fa una smorfia impertinente in compagnia del protagonista bambino di Rare Exports, Onni Tommila. Altro programma speciale per Philippe Parreno, artista visionario multimediale, promessa indiscussa di opere di cinema ancora a venire. Nella Piazza ha portato uno stralcio del suo Invisible Boy, sei minuti che diventeranno un film. Sei minuti che tolgono il fiato, tanto la sua animazione è capace di aprire nuovi canali di percezione in chi guarda. Oltre a numerosi corti, il programma su Parreno ha fatto conoscere agli spettatori il suo lungo Zidane, un portrait du 21éme siécle, un film straniante e bellissimo, in cui il calciatore e il campo su cui si sfidano il Real Madrid e il Villareal in quella partita del 2005 diventano un mondo, un immaginario fatto di respiri e incroci di sguardi, di sforzo fisico e di tensione emotiva. I primi piani si sprecano, in questa edizione: Rogerio Sganzerla, Rainer Werner Fassbinder, Michel Soutter, Bernardo Bertolucci. Di quest’ultimo, abbiamo avuto l’enorme fortuna di poter vedere nella Piazza un corto del 1966 sul canale di Suez, pura poesia in undici soli minuti di pellicola. Poi, il cinema svizzero riscoperto, per quell’attenzione estrema che Locarno rivolge sempre ai talenti locali più interessanti. Infine, Corso Salani. E nulla avrebbe potuto essere più appropriato e appassionato di un omaggio come questo a un regista così unico nel suo genere, capace di dirigere lavori di fiction così come documentari con uno stile impeccabile e sempre nuovo, che a Locarno ottenne il Premio speciale della giuria della sezione Cineasti del presente nel 2007 con il documentario Imatra. Alla fine, il Pardo alla carriera. Un omaggio sentito, affettuoso, completo a uno dei grandi registi che hanno dato al cinema capolavori immarcescibili: Francesco Rosi. La terra trema, Bellissima, Salvatore Giuliano, Le Mani sulla città, Uomini Contro. Rosi ha parlato di ognuno di questi film con passione ancora intatta, ha risposto alle domande del pubblico e dialogato con critici e giornalisti, ha raccontato Gian Maria Volonté e il suo apporto prezioso ad un’idea di cinema che, insieme a lui, il grande attore condivideva: un cinema d’impegno, come si usava dire in tempi diversi dai nostri, un cinema che oltre a portare la bellezza, porti la coscienza e la riflessione all’attenzione di chi guarda.

Locarno Generali | Foto di Giulio Donini

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A Locarno i film tendono a seguirti per le strade, la notte quando si accende la rotonda e cominciano le feste. Di giorno, quando fai colazione nel centro medievale, di spalle allo schermo di tutti, quello grande nella Piazza, in un gazebo fatto apposta per vedere gli altri, incontrare persone nuove, assistere a show sempre diversi di artisti che vogliono essere partecipi dell’atmosfera rilassata e vivace al tempo stesso che avvolge la città in quei giorni. Nel pomeriggio lungo il lago, mentre aspetti di tornare davanti a uno schermo illuminato e guardi i traghetti che si muovono lenti fra una sponda e l’altra. Torni al gazebo per un aperitivo, e ti capita di assistere allo spettacolo di artisti come le sorelle Marinetti, in drag elegantissimo e storicamente impeccabile, che cantano le canzonette degli anni ’40 con falsetti ispirati.

Locarno Generali | Foto di Giulio Donini

Vaghi per gli acciottolati dietro al castello, ti trovi di fronte al Rivellino, la galleria d’arte il cui curatore è amico intimo di Peter Greenaway. E ti racconta storie su di lui e la città, ti fa entrare, anche se sarebbe chiuso, a fare un giro fra le valigie di Tulse Luper come fosse niente. Al Rivellino vedi un corto inedito di Greenaway sugli esperimenti nucleari finora provocati nel mondo, sulle bombe esplose. E capisci quante sono state, già, quanto sia orribile e affascinante insieme il potere distruttivo dell’uomo. In loop, le rivedi una, due, tre volte, non te ne sai staccare. E rimangono con te a lungo, così come ogni film di questo geniale creatore di mondi, lui sì, come ogni artista del cinema che si affaccia qui a Locarno ogni estate. Come ogni piccola ruota di questo meccanismo oliato che non dà mostra della cura necessaria a portarlo ogni anno, intatto e cambiato al tempo, davanti agli occhi di migliaia di spettatori: chi ti serve il caffè, chi ti prepara il pranzo, chi si cura della tua sicurezza, chi ti fa ballare e cantare. Soprattutto, chi ti fa entrare da attore protagonista dentro la macchina dei sogni, dentro il cinema che si spalma sulle strade di questa piccola, isolata città che sonnecchia discreta senza far tanto parlare di sé, tutto l’anno.

Fino alla prima quindicina di agosto, in cui diventa il centro del mondo.

Locarno Generali | Foto di Giulio Donini

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