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Cinema

Sorelle Mai, la forza delle radici

Sorelle Mai di Marco BellocchioViene spontaneo domandarsi, guardando Sorelle Mai, perché Venezia si sia dimostrata così ingenerosa da negare, a un film simile, l’adito al concorso. Il paragone fra gli italiani in gara per il Leone e quest’opera, ingiustamente relegata al fuori concorso, autorizzerebbe (eccome se le autorizzerebbe) polemiche postume che, tuttavia, non ha senso ora sollevare.

Avevamo lasciato Marco Bellocchio tra le perplessità e le divisioni che è immancabilmente destinata a suscitare un’impresa complessa come Vincere, piaciuto, forse, più all’estero che in patria (e, in ogni caso, difficilmente catalogabile come la migliore pellicola del Maestro).

Lo ritroviamo, ora, in un film che colpisce, innanzitutto, per l’esilità che lo caratterizza. Il che non significa rachitismo tematico o trascurabilità tecnica. Al contrario. Esile perché elegge a proprio metro procedurale la scala del minimalismo, sia produttivo (pochi e frugali i mezzi a disposizione), sia concettuale (la scarna essenza del quotidiano, in un luogo costitutivamente lontano da rivolgimenti epocali, è quanto il racconto, in ultima analisi, ci fornisce).

Sorelle Mai è frutto della collazione di esperienze diverse, maturate da Bellocchio e dagli allievi del seminario Farecinema, da lui tenuto annualmente nella natia Bobbio, in un arco cronologico che si estende fra il 1999 e il 2008. Sei episodi, individuati dal cartello indicante l’anno di riferimento (per la precisione: 1999, 2004, 2005, 2006, 2007, 2008), tutti ambientati in quell’ermo territorio del piacentino, là dove scorre il Trebbia, in una dimensione quasi onirica. Una quiete sospetta cinge la casa della sorelle del titolo, le quali hanno i volti delle sorelle di Bellocchio, Maria Luisa e Letizia, mai allontanatesi dall’abitazione di famiglia (ormai una senescente palazzina di provincia). La stessa casa che conosciamo fin da I pugni in tasca, primo, folgorante lungometraggio del cineasta, essendone stata uno dei set.

Sorelle Mai di Marco Bellocchio

A turbare le abitudini di queste due anziane zie (benché turbate non appaiano mai), rimaste nubili a vegliare il focolare paterno, provvedono i nipoti con lo strascico di guai che si portano dietro dalla città (anzi, dalle città: Milano e Roma) dove sono emigrati per inseguire i loro sogni, a ricalco delle inquietudini e del diavolo in corpo che spinsero il giovane Marco a lasciare il paesello. Sara (Donatella Finocchiaro), perseguendo con pertinacia il suo obiettivo, ci è quasi riuscita, a diventare, come desiderato, un’attrice. La figlioletta l’hanno però allevata, a Bobbio, le zie. La piccola, sorprendente Elena, che osserviamo crescere – lungo la successione degli episodi, da bambina ad adolescente – e che è Elena anche nella vita: Elena Bellocchio, figlia del regista e della montatrice Francesca Calvelli (anch’ella, naturalmente, parte della troupe, con la bravura di sempre).

Giorgio, invece, brancolando fra velleità letterarie e aspirazioni attoriali (“Volevo scrivere, recitare, inventare”) – riassunte, alla perfezione, nella scena d’apertura dove, nella penombra, legge Cechov – sembra imbarcarsi in situazioni dagli esiti, talvolta, perigliosi. Ammirato fino all’idolatria dalla nipote, scalognato in amore, esprime, nella sua sete di vita, ma anche nei crucci esistenziali che ne adombrano la felicità, i turbamenti più intimi di Bellocchio, che, non a caso, ha affidato il ruolo al primogenito Pier Giorgio, attore professionista (e di vistoso talento), nato dal legame con l’attrice Gisella Burinato.

A completare il quadretto, il personaggio surreale di Gianni (Gianni Schicchi Gabrieli), amico di vecchia data e amministratore zelante dei beni di famiglia, emblema della lunare alienazione del vivere campagnolo dalla modernità e da tutte le sue pretese (straordinario quando propone a Sara di lasciare Milano per la filodrammatica locale). E, nell’episodio ambientato nel 2008, la non meno surreale professoressa Vitaliani (impersonata da una strepitosa Alba Rohrwacher), affittuaria in casa Mai e consumata da tribolazioni amorose impastate a una cronica insicurezza.

Il bagno al Trebbia, i ritrovi di piazza, il melodramma verdiano, le visite ai cari estinti al cimitero: la provincia emiliana che invecchia con il soccorso imperituro dei suoi rituali antichi, piangendo l’abbandono dei giovani che hanno scelto di andarsene. Ma che talvolta tornano. Anche se ormai, non più giovani, come Marco Bellocchio. Sorelle Mai possiede la seduzione di una melanconia nostalgica, di un’elegia baritonale sulla quale incombe un (mal)umore luttuoso. Come, d’altra parte, esprime un idillio intriso di vita, dei profumi della campagna e dell’innocenza di un’umanità semplice e mansueta.

Sorelle Mai è un ritorno alle origini anagrafiche, ma anche – inevitabilmente – a quelle registiche di Bellocchio (i due aspetti vanno a braccetto, nel suo lavoro). Ed ecco che affiorano, a ineludibile contrappunto in bianco e nero, scampoli dei Pugni in tasca e, per un istante, ritroviamo Paola Pitagora, Lou Castel e il gatto che mangiava sul tavolo apparecchiato. Immagini che, se fraintese, indurrebbero a gridare al ripiegamento autocelebrativo, quando invece è molto di più ciò che il regista propone: è l’incoercibile potere delle radici, che richiamano senza che si possa opporre loro resistenza, il senso ultimo della meravigliosa riflessione cinematografica di Bellocchio. L’origine che assorbe l’originato, come l’archè per gli antichi Greci.

Sorelle Mai di Marco Bellocchio

Non commettiamo alcun peccato svelando l’epilogo. Quando, dopo essersi esibito in un’interpretazione sui generis di Vecchio frac di Modugno, Gianni finisce letteralmente ingoiato dal fiume, lasciando di sé il solo cilindro, assistiamo al compiersi della metafora che, nel suo seno, racchiude il film intero, oltre che uno dei momenti più poetici che il cinema italiano ci abbia dispensato nelle ultime stagioni.

Sorelle mai

Regia e sceneggiatura: Marco Bellocchio
Anno: 2010
Cast: Pier Giorgio Bellocchio, Donatella Finocchiaro, Elena Bellocchio, Letizia Bellocchio, Maria Luisa Bellocchio, Gianni Schicchi Gabrieli, Alba Rohrwacher, Valentina Bardi.
Fotografia: Marco Sgorbati, Giampaolo Conti
Scenografie: G. Maria Sforza Fogliani
Montaggio: Francesca Calvelli
costumi: Daria Calvelli
Musiche: Carlo Crivelli, Enrico Pesce

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