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Fumetto

Walter Chendi

Fumetto di confine

Raggiungo non senza difficoltà il paese del Carso triestino che sto cercando. Non sono pratico dei luoghi e così chiedo informazioni a una donna del posto, di cultura slovena come la maggior parte della gente che abita qui. Mi indica una casa non lontana dalla chiesa. Incontro Walter Chendi in un mattino tiepido di fine inverno, ben diverso da quel freddo mattino dell’inverno 1950, quando, come piace ricordare al padrone di casa, a Trieste tirava bora scura e lì nasceva il fumettista che oggi sono venuto a intervistare.

Walter Chendi

Trieste, la bora, il confine, le minoranze e i diversi sono temi affrontati nei suoi racconti a fumetti, sviscerati con passione nel corso di questa chiacchierata. Prima però Chendi mi mostra le tavole originali, a matita e a china, de La Porta di Sion. Ne è orgoglioso, visto che grazie a questa fatica ha ricevuto uno dei più importanti riconoscimenti del fumetto italiano, cioè il premio “Gran Guinigi” 2010 per la miglior storia lunga. È davvero un piacere ammirare le tavole mentre ti svela cosa si nasconde dietro a ogni dettaglio che ha voluto rappresentare. Starei ore ad ascoltare, e forse anche lui a raccontare, ma il tempo stringe e non voglio ritardare il pranzo della famiglia Chendi. Quindi ha inizio l’intervista durante la quale  l’autore ha occasione di parlarmi della sua più che ventennale carriera, delle sue opere, dei temi a lui cari e del suo stile.

Alessandro Olivo (AO): Vorrei partire dalla fine, dal suo ultimo libro pubblicato: il terzo de Le Maldobrìe, uscito a fine 2010 per l’editore Bianca e Volta (seguito di altri due volumi del 2004 e 2005). Nell’introduzione al volume lei racconta di come è avvenuto il lungo approccio con gli autori Carpinteri & Faraguna, nel corso di molti anni. So anche che le Maldobrìe rappresentano un suo grande amore, nutre per loro una vera passione e disegnarle costituisce un enorme divertimento. Ci può raccontare meglio il suo rapporto con queste novelle, come è nato? Leggendo La Cittadella su Il Piccolo (quotidiano locale, ndr)? E che cosa hanno suscitato in lei che le ha fatto desiderare di rappresentarle a fumetti?

MaldobrìeWalter Chendi (WC): Innanzitutto io avevo cominciato ascoltando la trasmissione radiofonica “El Campanon” (fortunata e popolare trasmissione della Rai che proponeva in dialetto triestino le novelle del duo Carpinteri & Faraguna, ndr), perché all’epoca, nel 1960, avevo 10 anni. Poi quando sono uscite in volume le prime Maldobrìe, nel 1963, mi sono state regalate per Natale. Da quella volta ho avuto tutti i volumi e ho letto tutte le storie di Carpinteri & Faraguna. È stato subito amore, perché in quei racconti c’era il divertimento, l’immaginazione di questi posti lontani, le navi, i marinai, le avventure: una specie di Conrad nostrano in piccolo, divertente e caricaturale.

AO: Le Maldobrìe sono uno Zibaldone di storie di terra e di mare, ambientate nelle province del litorale adriatico dell’Impero austro-ungarico, ironiche e divertenti: a chi è rivolto questo libro? Ai nostalgici? A quelli che hanno una certa età? Possono interessare anche i giovani?

WC: Beh, io, come ho detto, ero giovane: ho letto Le Maldobrìe dai 13 fino ai 18 anni. Era un altro periodo, certo, però la loro lettura potrebbe fare del bene anche adesso, non tanto per la nostalgia – non è questo il punto principale – quanto per una questione storica, culturale. Il fatto che ci fosse stata l’Austria a quell’epoca è indipendente, in fondo, dalle storie, anche se sono ambientate nel mondo austroungarico, in Dalmazia, nella nostra costa, a Trieste, e nelle città vicine. Se qualcuno vuol sapere da dove viene, dovrebbe leggerle.

AO: Sono storie rappresentate su sequenze di poche tavole e contengono una beffa finale, hanno un aneddoto gustoso che evidenzia il carattere dei triestini: anche questo è un modo di parlare di Trieste, di mettere alla berlina i suoi cittadini, questa volta con un tono più leggero e ironico rispetto ad altre sue opere più “drammatiche”?

WC: Sì, però, mettiamo fermo il punto che non sono storie mie ma sono storie di Carpinteri & Faraguna, che io ho solo tradotto in sceneggiatura e quindi in immagine. Sono molto triestine pur essendo di ambientazione istriano-dalmata, ma non so cosa voglia dire “divertimento triestino”. A parte alcuni vocaboli particolari che fanno divertire più chi li conosce in quanto dialettali, le storie sono delle grosse barzellette. Sembrano racconti molto seri, ma in fondo nascono con la battuta finale, sono costruiti su questo. Credo dovrebbero divertire chiunque abbia il coraggio di leggere questo dialetto, col quale ho avuto difficoltà anche io la prima volta. È un po’ come leggere Camilleri con quello strano siciliano: bisogna prima impararlo un po’, e poi si gode.

Walter Chendi - MaldobrìeAO: Ne Le Maldobrìe si può apprezzare uno strumento narrativo, il flashback, che lei utilizza anche in altre sue opere. Tra l’altro, dal punto di vista tecnico, lei lo realizza in colori diversi rispetto al tempo della narrazione. Al di là del fatto che ne Le Maldobrìe i racconti sono dei ricordi giovanili del pescivendolo Bortolo, esposti alla Siora Nina, il flashback è uno strumento narrativo che lei trova congeniale al suo modo di raccontare una storia?

WC: Non veramente, perché il flashback può diventare noioso. È molto difficile non annoiare con un sistema che diventa ripetitivo specialmente ne Le Maldobrìe, dove continuamente bisogna tornare dentro la pescheria o comunque ai due personaggi narratori, e poi ritornare nella parte raccontata perché è quella più esteticamente interessante. È difficile mantenere l’attenzione continuamente: infatti Bortolo e Siora Nina non sono sempre nella pescheria. Delle quasi 200 pagine de Le Maldobrìe che ho già fatto, ne avrei disegnato 60 sempre nello stesso luogo. Sarebbe stata una cosa terribile, e quindi ho dovuto immaginare Bortolo e Siora Nina che vanno in corriera, che vanno in un negozio, che si incontrano per strada, oppure, come in una delle ultime, addirittura in un cimitero a far la visita del 2 novembre. È obbligatorio dare un po’ di vita.

AO: Andiamo ora indietro nel tempo. So che lei svolgeva un lavoro completamente diverso, prima di dedicarsi ai fumetti a tempo pieno. Cosa l’ha spinta, dentro e fuori di sé, sulla soglia dei 40 anni, a decidere di imparare a fare fumetti?

WC: Ai miei figli raccontavo, per un certo periodo, ogni sera una favola sempre diversa per farli addormentare, e in quel periodo ho capito che sapevo raccontare qualcosa. Mettendo insieme il fatto che intorno ai 40 anni si  ha qualche squilibrio, l’aver scoperto di saper raccontare qualcosa e la consapevolezza di esser capace da sempre disegnare abbastanza bene, ho fatto un po’ di conti, ho smesso di fumare e mi son messo a far fumetti.

AO: Mi vuole parlare del suo incontro e rapporto con quello che per lei è il Maestro, Vittorio Giardino? Se non sbaglio, anche Giardino aveva compiuto un viaggio professionale  passando dal mestiere di ingegnere a quello di fumettista.

WC: Beh, sì insomma, con le dovute misure… Io l’ho incontrato nel 1989, alla fiera del libro di Bologna, l’ho fermato e gli ho chiesto un parere. Gli avevo inviato delle cose prima, mi scrisse una lettera, e poi mi invitò nel suo studio. Andai così a Bologna a prendere la prima lezione. Ne ho prese molte altre e ancora continuo.

AO: Grazie a Giardino lei incontra i tipi della Comic Art: mi vuole parlare dei primi lavori, come la storia Ritocco di Cronaca (su Rembrandt) e Nuvola Rossa, pubblicate sulla rivista a partire dall’inizio del ‘90 fino al dicembre ‘92? Quanto furono importanti quegli esordi per la sua maturazione come fumettista?

Chendi a BolognaWC: Come sempre l’inizio è importante perché è l’inizio, comunque. La prima volta che andai al Festival del fumetto di Lucca, Giardino mi presentò a Rinaldo Traini, editore della Comic Art, e a Oscar Cosulich, che all’epoca dirigeva la rivista. Avevo fatto Ritocco di cronaca perché sono sempre stato affascinato da Rembrandt e sono sempre stato affascinato dalla Storia. In quel racconto c’è già tutta la ricerca dei particolari, il gusto di costruire il racconto. C’è la vera storia di Rembrandt, di quel quadro e di tutto il contorno d’epoca. Poi, dopo essermi presentato con quello, Comic Art aveva accettato le Nuvole Rosse: dei raccontini scritti e disegnati, molto brevi, da 2 a 5 pagine, piccole favole che erano nate come tappabuchi, in fondo solo per poterci essere. Perché all’epoca su Comic Art venivano pubblicati grandi autori e arrivare là dentro costituiva un onore. Avevo proposto queste storielle da due, tre, quattro, cinque pagine che potevano infilarsi facilmente nella redazione delle 128 pagine di Comic Art. Rodolfo Torti (il disegnatore, che allora era impegnato nella costruzione di questi numeri) ogni tanto sceglieva le mie storie e le infilava  in mezzo ad autori come Cavazzano, Otomo, Micheluzzi, Crepax, Eisner, Toppi, Malet e Tardi, Boucq, Rotundo e altri. Ne hanno prese otto o nove, credo. Ne è rimasta solamente una, l’ultima, inedita. Forse perché avevo deciso unilateralmente che fosse l’ultima. Non lo so… Poi hanno stampato una Nuvola Rosa, che era l’inizio di un’altra serie, dal taglio molto sexy. Erano storie che riguardavano solo il sesso: hanno stampato la prima, che era carina, di tre pagine, si intitolava Nuvola Rosa: periferia, citofonare.

AO: Parliamo del suo primo libro Vedrò Singapore? edito per la Lizard nel 2004 e tratto dal romanzo di Piero Chiara. Scrittore realista, portato all’indagine della vita e delle psicologie tipiche della provincia, Chiara contraddistingue le sue opere per le trame ricche di grottesco e ironia. Il romanzo è autobiografico: protagonista è un impiegato statale di basso rango degli anni ‘30, di cui si narrano le peripezie professionali, gli amori e i colpi di scena fra Aidussina, Venezia, Trieste e Friuli. Cos’è che l’ha attratta di questo romanzo? L’ambientazione geografica nelle sue terre? Il fatto che ha trovato una consonanza fra la sua sensibilità e quella di Chiara?

Walter Chendi - Vedrò Singapore?WC: Sì, certamente le due cose insieme. Fondamentalmente il romanzo mi aveva divertito, è un ottimo romanzo. Poi il fatto che si svolgeva appunto qua da noi. Ho sempre avuto questa voglia di rappresentare storie nostre, nostre in senso molto lato, dalla Carnia alla Dalmazia, non solamente di Trieste. Questo romanzo funzionava benissimo perché è stato facile spostarsi qua e là, fotografare, vedere i luoghi, andare nei posti giusti e ricostruire così l’ambiente. D’altra parte è stata anche una scuola piuttosto difficile, perché ho dovuto ribaltare alcune cose, tagliare molte altre. È un romanzo infatti di 260 pagine circa, che, tradotte in fumetto, sono diventate 128. Non è stato un ottimo risultato, a vederlo adesso, perché ci sono troppe parti con didascalie, molto scritto. Quindi nonostante i miei grossi sforzi, credo che adesso verrebbe meglio. Però devo essere molto riconoscente a Federico Roncoroni (scrittore e curatore testamentario di Piero Chiara), che mi ha aiutato a mettermi in contatto con gli eredi di Chiara, ai quali chiesi i diritti concessi. Sono molto grato alla Lizard che mi dette la possibilità di cominciare a pubblicare, perché quello è stato il mio primo volume. Volume che è andato benino, anche per il merito di essere accoppiato al nome di Chiara. Peccato per il secondo: io infatti avrei voluto fare anche Il cappotto di astrakan. Ero andato a Parigi e avevo fatto tutte le fotografie nei luoghi dove si svolgeva il romanzo. Però poi, per un problema diciamo tecnico, ho dovuto rinunciare: il permesso di farlo, infatti, mi arrivò troppo tardi, un paio d’anni dopo che l’avevo richiesto e ormai stavo già facendo altro. Il cappotto di astrakan è eccezionale: se qualcuno ha visto il film con Johnny Dorelli, se lo dimentichi, perché quel film non è Il cappotto di astrakan di Piero Chiara.

AO: “La svogliatezza era solo la voglia di non aver voglia”: lo dice il protagonista, pigro ma passionale, all’inizio di tutto. Anche in questo caso, lei racconta di una persona comune sullo sfondo di periodi storici bui, che qui vengono solo sfiorati, in realtà, mentre in altre opere sono ben più che solo accennati. In ogni caso, una caratteristica dei suoi libri (o in quelli da lei sceneggiati, come Vedrò Singapore?) è che lei racconta la storia di persone comuni, dei loro turbamenti e delle loro passioni, con una cornice storica molto presente, cioè la storia personale dentro la Storia con la S maiuscola. È solo una mia interpretazione o è uno schema narrativo che le piace? E se sì, perché?

WC: È giusta come interpretazione. La voglia di non aver voglia, come dice il personaggio di Piero Chiara, io l’avevo tradotta in personaggi che sono anoressici nei sentimenti; sono dei freddi di solito i miei personaggi, lo so, probabilmente è un problema dell’autore. Sono dei freddi che guardano quello che sta succedendo. Cosa che di solito può accadere: la Storia passa sopra le teste, non passa mai davanti al naso e allora uno è là, che vede, intravede, annusa un po’ e poi, a posteriori magari, qualcun altro lo vedrà immerso nella Storia. Le persone reali non sono immerse. Son là, come i birilli di un bowling. Per fare un paragone con il protagonista de La Porta di Sion: anche lui è uno che (credo sarebbe successo anche a me) era molto più interessato alla ragazza polacca che non ai problemi della sua gente (la discriminazione verso gli ebrei, ndr). Non sappiamo se, nel periodo successivo alle due settimane in cui si svolge la storia, abbia preso coscienza del grave problema, se abbia combattuto in qualche maniera, non lo sappiamo. Ma in quei giorni a lui capita di vedere, di sentire il primo amore, e basta.

Walter Chendi - La porta di Sion

AO: Non ho letto il romanzo di Chiara, ma mi pare che non compaia l’alter ego del protagonista, un doppio con cui mettere a nudo pensieri e stati d’animo. Perché l’ha introdotto?

WC: Perché quello funzionava un po’ come Bortolo, Siora Nina e i flashback. È un sistema un po’ più semplice per mettere in un dialogo grosse parti del raccontato in prima persona. Allora avevo inserito Piero Chiara stesso che faceva una passeggiata per Trieste accompagnato da un giornalista, che gli rivolgeva alcune domande sul suo romanzo. E tutta questa lunga passeggiata accompagna grossi pezzi del racconto.

AO: Dal punto di vista stilistico, oltre al flashback appena citato, realizzato in colori diversi rispetto al tempo della narrazione, troviamo la cura per i dettagli, sia per gli oggetti che per i luoghi, che sono riprodotti con fedele precisione. Qui si evidenzia una sua caratteristica, ovvero l’accuratezza degli sfondi, degli scorci di città vere e l’importanza delle fotografie: ne emerge uno stile molto realistico. Quanto occupa nel suo lavoro questa parte, ovvero la ricerca delle fonti storico-documentali che per lei è così importante? E perché è così importante?

WC: Occupa moltissimo tempo, dato per scontato che io impiego molto tempo per fare un fumetto. La ricerca è iniziale, in fondo. L’idea, il soggetto è la prima spinta ma, subito dopo, viene la ricerca dei luoghi, le immagini del periodo. E allora oggetti, automobili, scorci delle città. Trovo delle cose che poi mi inducono a raccontare, sono degli stimoli che mi danno lo spunto a qualcosa in più. E quindi la scelta dei particolari, e la precisione per quanto possibile, mi aiutano a credere io stesso nella storia che sto raccontando. Spero così di essere più credibile agli occhi di chi poi la leggerà.

AO: Nel disegno lei utilizza la tecnica della linea chiara, di ispirazione franco-belga, ma direi a questo punto “giardiniana”. Ciò le consente di essere molto preciso anche nel delineare e caratterizzare i volti delle persone in modi molto vari e vicini alla realtà: penso che nel suo lavoro preparatorio conti molto anche quindi l’osservazione diretta delle persone. È così?

WC: Sì, la maggior parte delle persone le trovo sempre sulle stesse fotografie. Alcuni, i personaggi principali, sono costruiti apposta, ovviamente. Però certi nascono come riempitivo, quindi sono delle facce che passano davanti all’obbiettivo, come al cinema. E quelli nascono nel momento che passano, non sono precostituiti. Magari in quel momento stavo pensando a qualcuno e quindi nel racconto passa quel qualcuno.

AO: Veniamo a Mont Uant, pubblicato sempre per Lizard nel 2005. Si tratta di tre racconti che hanno per tema la morte e come comune denominatore il monte, visto come metafora delle tremende scalate di fronte davanti alle quali ci si può trovare nella vita. Personalmente l’ho trovato il più nero, il più tragico fra i suoi libri, ma anche uno fra i più chiari e forti, che colgono nel segno: mi ha colpito molto per questo. Le ispirazioni dei tre racconti sono diverse, pur nei loro temi unificatori, mi vuole dire come le sono venute?

Walter Chendi - Mont UantWC: Questo libro è quello più sentito. È quello dove in fondo c’è stato un cambiamento nel mio modo di pensare le storie, perché Est-Nord-Est, che è uscito dopo, era nato molti anni prima. Quindi Mont Uant è stato un cambiamento. Le tre storie sono nate da racconti veri, da vita vera. Non sono reali completamente, ovvio, però lo spunto è dato da roba mia. Guardando con attenzione nel disegno si potrebbe scoprire quanto mia è certa roba.

AO: Il primo racconto, Mont on Ton, parla di un uomo che ricorda le nefandezze compiute durante la guerra d’Algeria, pur di dimostrare a se stesso di essere un uomo, cercando invano di superare così gli abusi subiti in età infantile. L’epilogo è tragico.

WC: Nasce da un racconto che mi aveva fatto, quando ero ragazzo, mio zio, che era nella Legione Straniera. E le fotografie che sono dentro il racconto rappresentano proprio mio zio: sono le sue. Ovviamente tutto il resto è un’invenzione.

AO: Mont Saù vede come protagonista un ragazzo di una terra di confine invasa da un esercito straniero. C’è il tema della guerra e della pulizia etnica, ma visti attraverso gli occhi di un ragazzo che ha come alter ego Long John Silver dell’Isola del Tesoro, con il quale cerca di fuggire dalla realtà terribile del presente. La storia è senza lieto fine, senza morale, tragica anche in questo caso. Mi ha colpito la scena della scuola in cui il maestro parla una lingua ignota, quella dell’invasore: allusione all’occupazione italiana delle terre qui vicine. Quanto è importante il confine per lei e per le sue opere, come in questa Mont Saù? Quanto ha contato il confine nella nostra storia e come lo vive oggi che non c’è più, almeno apparentemente, visto che forse nelle coscienze di molti esiste ancora?

WC: La storia è comune a molti in queste terre: lo spunto, specialmente della scuola, mi sembrava molto interessante, mi è stato dato da un uomo che viveva qui ma che poi emigrò in Australia. Un’estate è venuto da me a bere un bicchiere di vino e mi ha raccontato proprio quell’episodio là. Io non avevo mai capito quanto fosse stato difficile in quel periodo andare a scuola per un ragazzino di lingua slovena che sapeva pochissimo l’italiano. Lui mi ha raccontato che si trovava talmente spaesato dal fatto di non capire le parole, che restava muto. E infatti, cosa che non ho raccontato, addirittura questi ragazzi venivano spediti nelle classi differenziali in quanto ritenuti deficienti. Ho dovuto inventare per il maestro una lingua che non esisteva, perché dovevo scrivere in italiano. In questa storia non sono descritti veramente i tedeschi, i nazisti, i fascisti. È una roba un po’ confusa ma che riprende ovviamente quel periodo.

Per quanto riguarda Long John Silver, ci sono molti brani dell’Isola del Tesoro e di Moby Dick, sono molto affezionato a questi due romanzi. La tematica del confine c’è stata, certo, e c’è, perché in fondo ho sempre tentato di fare (così come in Est-Nord-Est) storie di diversi, storie di minoranze. Anche La Porta di Sion è la storia di una minoranza, di diversi, di un confine che è un confine dentro le persone. Forse quello con le bandiere, la sbarra a colori, la riga per terra, quello è il confine più semplice da oltrepassare, questi altri invece sono quasi insormontabili.

AO: Mont Uant è, fra le tre, la storia più positiva, nonostante la pesantezza del tema trattato, cioè la grave malattia che si abbatte su una persona. Anche qui, come nei due racconti precedenti, c’è un oscillare continuo fra presente e passato, tra realtà e visioni, per cercare di superare gli ostacoli della vita. Ma la morale è chiara ed è esplicitata: alcune salite ti permettono di apprezzare la fatica che fai nel compierle, di scoprire che il piacere può essere anche solo appoggiare bene il piede per il prossimo passo. Ha voluto lanciare con questo racconto un messaggio ben preciso, non è così?

WC: Questa è stata la storia più vissuta da me. L’ho sentita importante. Almeno sembrava importante all’epoca in cui la scrissi. Diciamo che è forse la più autobiografica. Poi, lanciar messaggi è un altro discorso…

Walter Chendi - Est Nord EstAO: Veniamo a Est-Nord-Est, pubblicato da Lizard nel 2007. Qui è riuscito a parlare di Trieste in modo geniale, senza citarla direttamente, perché il racconto può essere applicato a qualunque posto. In questa città fra mare e monte un terribile vento da est-nord-est, la Borne, toglie prima i colori e poi si porta via i veri figli della città. Ma perché i veri figli sono quelli che si nascondono dietro le rassicuranti conventicole cittadine e temono il diverso? Chi sono veramente questi uomini e queste donne?

WC: Mah, io non lo so chi siano i veri figli e chi siano gli altri. Ma c’è sempre qualcuno che è più vero degli altri o che si dichiara tale. È sempre un racconto di diversi, comunque, son diversi anche quelli che sono stati portati via dalla Borne, che non è altro che il vocabolo francese per dire pietra di confine: in fondo siamo sempre là. Però non so quanto sia applicabile in generale, perché credo che questa storia sia stata capita molto più a Trieste che in altri posti e, per chi l’ha letta, sia stata odiata più a Trieste che in altri posti, perché è una critica verso la città e basta. Io ho sempre pensato che a Trieste abbiamo questa capacità di rovinarci.

AO: La vicenda è narrata da un gruppo di nomadi slavi in fuga che, giunti in una terra sconosciuta, ritrovano un diario e lo leggono. Torna appunto il tema del diverso, delle divisioni fra etnie, delle intolleranze. Perché il diverso fa così paura?

WC: Il diverso è sempre misterioso. È nostra normale attitudine quella di scansare il mistero, quello che non conosciamo. Credo sia insito in tutti noi, non credo assolutamente nella bontà d’animo di chi a priori, invece, avvicina il diverso senza remore: non ci credo, non è possibile! Abbiamo tutti delle remore. È normale: se si incontrano per strada tre ragazzi con chiodo nero, stivali e catene, hai paura per un motivo molto semplice, perché hai paura del mistero, perché non li conosci, perché non sai cosa può succedere. Il nero, il giallo, quello con il turbante, quello con i calzoni alla zuava ti mettono questa sensazione. Poi, quando loro si avvicineranno, dipende da te vedere se e come parlare, capire. E poi diventa un ping pong, non è unilaterale la faccenda. Io non gioco a ping pong con uno che non ha la racchetta in mano. Bisogna giocare in due.

AO: La porta di Sion, edita dalle Edizioni BD nel 2010, è stata la sua consacrazione, anche ufficiale, a livello nazionale: ha vinto il premio Gran Guinigi 2010 per la miglior storia lunga, consegnatole nello scorso autunno durante il Festival del fumetto di Lucca. Ho letto che non se l’aspettava, ma cosa rappresenta per lei un premio simile? Un riconoscimento del lavoro svolto o uno sprone per continuare? Oltre ai premi ufficiali, poi, quello che conta per lei veramente è fare un lavoro che le piace e riceverne il riscontro positivo direttamente dai suoi lettori?

WC: È tutto questo messo insieme. Non me l’aspettavo perché questo genere di fumetto veristico, storico, attualmente non credo sia in auge. Qua bisogna fare roba iper-super-eroistica, oppure intellettualmente molto indirizzata e schifosamente disegnata. Bisogna far altro, non quello che faccio io. E allora beccarsi un premio per questa roba completamente fuori dai canoni attuali di moda o di tendenza è stata una sorpresa. D’altra parte io ho partecipato per vincere ed è l’unica volta che ho partecipato ad un concorso e l’averlo vinto mi riempie d’orgoglio. Come mi riempie di felicità il fatto che alcune persone come Michele Medda, lo sceneggiatore che era presidente della giuria, mi abbiano fatto complimenti sinceri. Sinceri perché io non sono legato a nessun carro particolare nel mondo del fumetto. E anzi, viste le facce che c’erano poi alla manifestazione, so di essere particolarmente sconosciuto, nonostante l’età e nonostante siano 25 anni che vado a Lucca. Quindi soddisfazione di sicuro e anche spinta a far meglio. La prima cosa che ho pensato è che il mio prossimo libro, se mi hanno dato questo premio, deve essere all’altezza. Spero di riuscirci.

Walter Chendi - La porta di Sion

AO: Il tema trattato ne La Porta di Sion è molto importante: la diversità questa volta di una minoranza di persone che viene ufficialmente dichiarata diversa dalla maggioranza. Il riferimento storico è preciso: 13 settembre 1938, Mussolini presenta in piazza Unità a Trieste le leggi razziali. So che questa storia ha notevoli spunti: uno fu una mostra della Comunità ebraica di Trieste dal titolo “L’Educazione spezzata”, che ripercorreva l’espulsione dei bambini ebrei dalle scuole in seguito all’avvento delle leggi razziali. Ce ne vuole parlare? Perché la colpì così tanto?

WC: Perché è come il discorso del diverso che bisogna conoscerlo per capirlo. Un po’ come la scuola di Mont Sau: il fatto che dei ragazzi venissero tirati fuori dalla scuola, quelli perché creduti deficienti in quanto non capivano la lingua, questi perché di un’altra religione e quindi separati immediatamente in modo che non dovessero neanche andare a scuola, è una roba tragica! Abbiamo rivisto una cosa del genere con i talebani, che privavano le donne di qualsiasi cultura o tutti di poter godere della musica: è una roba assurda, pazzesca, talmente potente che bisogna combatterla.

AO: Un altro spunto fu la scoperta che Trieste, negli anni ‘30, rappresentò un porto di salvezza per circa 160 mila ebrei dell’Europa centro-orientale, che fuggivano le persecuzioni salpando proprio da Trieste verso la Palestina. Un fatto poco noto anche per i triestini. In questo caso ha sentito, oltre che un forte interesse, anche il dovere di raccontare questi fatti?

WC: Sì assolutamente, perché avendo io scoperto molto tardi questa storia, mi sono sentito in colpa. È assurdo che una storia così non sia a conoscenza neanche dei triestini. Poi non è  accaduta in un breve lasso di tempo: addirittura dagli anni ‘20 fino agli anni ‘40 è andata avanti questa organizzazione sempre migliore del trasporto degli ebrei dall’interno dell’Europa in quella che allora si chiamava Palestina. Era affascinante l’idea che la società marittima del Lloyd Triestino avesse istituito una rotta, un servizio settimanale con delle navi che erano strutturate in modo da avere la cucina kosher e anche  una piccola sinagoga, una sala apposita perché viaggiavano anche di sabato. Non c’era niente di male a ricordarlo. Anzi, avrebbe dovuto essere una specie di merito, invece questo merito è andato alla città di La Spezia. E mi ha fatto incazzare il fatto che, cercando su internet “Porta di Sion”, il primo link uscito si riferisse alla città di La Spezia perché aveva organizzato uno, due, tre viaggi nel ‘45. In quella città continuano a fare delle mostre, continuano a organizzare delle manifestazioni e noi qui a Trieste, come al solito, dormiamo e non ci fregiamo di questi meriti. Sono stati indiscutibilmente dei meriti, anche se erano viaggi che economicamente rendevano e noi li abbiamo dimenticati.

AO: Un terzo spunto è familiare, so che fra i suoi avi ci sono degli ebrei, se non sbaglio una sua bisnonna si sentì come scalza dopo il discorso del Duce. È vero?

WC: Sì è vero, si riferisce alla mitica bisnonna che si era sposata con un Emilio Weiss, figlio di Giacomo, “Ottico di Baviera”, c’era sull’insegna a Trieste. Mi aveva accennato a questo fatto e io l’ho usato perché era un’immagine eccezionale.

AO: Infatti la trovata narrativa della nudità dei piedi per sottolineare diversità e il dolore ad ogni passo è stata vincente, così come quella di rappresentare tutti questi temi così forti e pesanti non direttamente, ma attraverso i modi con cui li vive un ragazzo ebreo triestino, Jacob. È lui a vedersi scalzo, e quindi diverso e, insieme a lui, tutti gli ebrei triestini che incontra. Fra l’altro qui si innesta il tema dell’amore, che Jacob scopre nei confronti di una ragazza ebrea polacca in transito, e per la quale deciderà di partire anche lui verso la Palestina. Nelle sue opere il tema dell’amore conta molto, non è così?

WC: Io spero che conti molto per tutti. Sa, poi amore è una parola: io credo che sia pulsione sessuale più che amore perché di solito capita ai giovani, quando capita a età diverse di solitoè follia. È ovvio, fa parte della vita, ed è, come dicevo prima, la spinta fondamentale di quasi tutte le azioni umane.

Walter Chendi - La porta di SionAO: Anche dietro a questa opera ci sta un enorme lavoro di documentazione: so che ha studiato molto, sia leggendo, sia incontrando persone, sia studiando in loco il ghetto ebraico, cercando di immaginare come fosse all’epoca. Anche qui grazie ai dettagli riesce a catturare l’attenzione del lettore e a rendere più realistica la scena. C’è la figura reale di Umberto Saba, della sua libreria e di Carlo Cerne, suo collaboratore; non è l’unico volto reale introdotto, c’è anche lei nei panni del medico; la figura dello psicanalista Edoardo Weiss (che lei chiama Eugenio Zeiss); il sapone della mamma; il golem; i membri del comitato che aiutava gli ebrei dell’est sono reali. Perché tanto attaccamento ai dettagli? Desiderio di realismo o c’è dell’altro?

WC: Per quanto riguarda la documentazione ho avuto molti aiuti letterari, da Magris, da Ovadia, da Kezich e dall’amico Valerio Fiandra, che mi ha introdotto al mondo ebraico. Per il discorso, ricorrente, dei dettagli, dovremmo guardare per un momento il fumetto come se fosse un film. Senza fare dei paragoni troppo arditi, noi abbiamo esaltato Barry Lyndon e altri film, per la precisione dei dettagli, per le atmosfere reali. Nel film Salvate il soldato Ryan, i primi venti minuti di quella battaglia sono la battaglia: è vera, è sangue vero. E allora la precisione nel riprodurre diventa la realtà di chi legge, di chi guarda: questa realtà deve essere la più vera possibile per coinvolgere nella maniera migliore. Lo scrittore ha le armi delle parole per creare un’atmosfera e per avvolgere il lettore in quell’atmosfera. Chi disegna i fumetti cosa ha, se non la precisione dei dettagli per creare l’atmosfera? Per questo son un po’ contrario alla moda del disegno raffazzonato.

AO: Il libro è stato presentato il 27 gennaio del 2010, Giornata della Memoria, al Museo Ebraico di Trieste: anche questo è un importante riconoscimento della serietà del suo lavoro. Come ha vissuto quel giorno?

WC: Io sinceramente sono un po’ contrario a tutte le date commemorative. A me è sembrato un pochettino una cosa forzata, anche se devo ovviamente ringraziare la comunità ebraica che mi ha concesso questa possibilità. Però mi sembra sempre come parlare del papà il 19 marzo o della donna l’8 marzo. Tirar dentro queste date per parlar di qualcosa mi sembra talmente riduttivo che dà un po’ fastidio in fondo. Per cui se il libro fosse uscito il 35 di marzo sarebbe stato meglio. Non vorrei uscire in agosto, ecco…

AO: Vorrei parlare anche della sua tecnica e del suo stile, in particolare dell’uso del computer per la colorazione. Quali vantaggi ha?

WC: Ha dei vantaggi ovvi, che sono la possibilità di cancellare, fare, ripetere velocemente e mantenere un certo tipo di colore. E poi ci sono tutte le possibilità che offre photoshop, o altri programmi, oltre che quella di poter produrre molte copie e di non avere un originale che può decadere. Ha lo svantaggio di essere in un certo senso un po’ freddo, un po’ omologante. Io, che non lo so usare molto bene, ho certe difficoltà. La Porta di Sion è venuta piuttosto bene anche perché l’ho fatta solo coi grigi: non è bellissimo usare solo il grigio però se l’avessi fatta a colori, come ho fatto Est-Nord-Est, forse sarebbe stato troppo “effetto Paperino”. Se dovessi colorare La Porta di Sion credo che la colorerei in maniera molto molto diversa.

AO: Ho notato che il montaggio della tavola col tempo si è fatto più mosso, c’è una maggiore dinamicità delle vignette sa formale (le dimensioni sono varie) che contenutistico (le persone sono riprese a vari piani). È stata una naturale evoluzione spontanea o una scelta esplicita?

WC: È come quando si va in bicicletta, prima si va dritti, poi si comincia a saper far le curve. È chiaro che più ci si impadronisce del mezzo, più lo si usa e, spero, meglio. Quindi è normale che sia così, sempre se ci si vuol spendere anche nel disegno e non solo tirar via le pagine, ovviamente.

AO: Mi ha già risposto in parte precedentemente, ma qual è il suo metodo di lavoro? Parte dalla storia? Dove la cerca? Nella realtà, nella vita?

ineditoWC: Le storie capitano: ho un racconto di 8 pagine (ce l’ha proprio Vittorio Giardino perché gliel’ho regalato) che non ha mai visto la luce, sul nostro primo incontro. Mi piace dire che quella storia l’ho trovata infilata nei raggi della bicicletta posteggiata nel portone dello stabile dove aveva lo studio all’epoca il maestro. Le storie così si trovano: si trovano fra i raggi della bicicletta, sul tavolo dell’osteria, sul giornale, andando per mostre. Di solito almeno metà delle storie son racconti che ho sentito, in famiglia, dagli amici, dagli amici degli amici. Il 50% delle storie sono vere-vere.

AO: Considerando che il maestro Giardino è più famoso in Francia che in Italia e che di Manuele Fior e della sua vittoria recente ad Angouleme si è più parlato nei mass media d’Oltralpe che qui da noi, cosa pensa della situazione del fumetto oggi in Italia? Guardando anche la sua esperienza, pensa che sia difficile per un buon fumettista emergere nel nostro paese?

WC: Io mi sento in difficoltà a parlare del fumetto in Italia. perché non sono nessuno rispetto a tantissimi che hanno una più grande esperienza, più grandi conoscenze, più cultura fumettistica. Io ho letto pochissima roba, per cui veramente posso dire poco, non è modestia. Posso solamente criticare questa moda del colpo unico: questa roba che è usare una situazione e tirar fuori un fumetto. M’hanno detto che hanno già fatto il fumetto sull’ultimo omicidio, che prendono a prestito l’ultimo fatto di cronaca e che lo sfruttano. Questo a chi serve? Serve all’editore che riuscirà a vendere 500 copie? Quest’idea di vendere il fumetto nei primi tre mesi dall’uscita con un po’ di campagna pubblicitaria mi sembra deleteria. Il fumetto, come il libro, dovrebbe essere qualcosa che resta un po’ per il suo valore. In Francia hanno avuto la capacità e l’accortezza di creare questa loro idea di “francesità”. E, gonfiando il loro petto orgoglioso bianco, rosso e blu, hanno gonfiato il fumetto, hanno creato la struttura per la quale i ragazzini compravano il fumetto e hanno continuato a farlo anche da grandi. Esce il fumetto di Goscinny e ne scrive in prima pagina Le Figaro o Le Monde. Ad Angouleme va il ministro della cultura a dare il premio perché hanno la cultura del fumetto. Il motivo è che hanno dato una dignità al fumetto, e il fumetto se l’è presa questa dignità, e non gratis. In Italia non l’abbiamo fatto. Perché l’accezione comune è che il fumetto è Bombolo oppure il fumetto è Fellini, però non viene accettato come Bombolo e Fellini nel cinema.

AO: Personalmente mi ritengo un appassionato di fumetti di formazione bonelliana, ovvero una persona che, da bambino, come tanti, ha scoperto i fumetti grazie agli albi della casa editrice milanese. Poi sono cresciuto e ho imparato ad apprezzare tanti altri autori e generi, ma Bonelli mi ha dato gli strumenti per farlo e tuttora lo seguo. Oggi c’è la tendenza in Italia da parte di molti a contrapporre un fumetto d’autore, da libreria, a un altro popolare, da edicola, per cercare di invogliare ai fumetti coloro, e sono tanti purtroppo, che credono che si tratti solo di una lettura banale per ragazzi. A tal fine si usa anche il termine graphic novel quasi distaccandosi, anche con le parole, dal termine fumetto. Non pensa che si tratti solo di un’operazione di marketing e che in realtà il fumetto è un linguaggio e che il valore artistico di un’opera va al di là del fatto che sia pubblicato in edicola o in libreria?

WC: È ovvio, o dovrebbe esserlo. Il fatto che il fumetto sia pubblicato in edicola o in libreria è una scelta editoriale, commerciale, di distribuzione. Riguardo al termine “graphic novel”: allora, diciamo che io non faccio fumetto ma faccio bande dessinée, anzi, visto che sto a Trieste, mi suona meglio historieta. Se io facessi delle historietas, sarebbe diverso? Io sempre quelle storie faccio! Il problema ritorna agli editori, secondo me, perché se, come ho letto, fare l’editore non è stampare libri ma non stamparne certi, forse basterebbe solo questo. Ci vorrebbe più selezione. Se ci fosse una selezione, ci sarebbe una crescita di prodotto. È lo stesso discorso della televisione: nessuno ha interesse a fare in televisione L’idiota o I fratelli Karamazov, è meglio a fare un paio di isole, invece di produrre 3 ore ne produciamo 34 con metà dei costi, senza problemi e con i culi di fuori. Ci sono troppo ragazzi in fila per presentare della roba fatta in poco tempo. Il tempo ha la sua importanza.

AO: Mi sembra di capire, che lei non legga molti fumetti?

WC: No, io non leggo molti fumetti. Io leggo su internet le presentazioni, guardo le pagine, non riesco a leggere la maggior parte delle storie pubblicate. Ho dei buoni fumetti nella libreria: ho Gibrat, Baru, Bilal, Moebius, Gipi, Paco Roca, Berardi e Milazzo, Cavazzano, Smudja, Floc’h e Riviere, Manara e Castelli e Giardino, naturalmente, e altri che studio attentamente.

AO: Cosa può anticiparci dell’ultimo lavoro che sta facendo?

WC: È una storia lunga e difficile. Piuttosto tragica, ma anche normale, per certi tempi. È una storia che si svolge in due posti, in due tempi contemporaneamente. Non è che voglio fare il ritroso, ma è che è solo scritta, per cui potrebbe ancora cambiare qualcosa. E poi ci vorrà tanto di quel tempo…

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