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Cinema

Far East Film Festival 13

Far east film festival 2011-locandinaOgni inaugurazione che si rispetti ha inizio con les pique-assiette: processione di Udine-bene sempre informata sui luoghi in cui trovare buffet e tartine offerte dal Comune, signorotte con la Messa in piega che si precipitano a ingollare crudo e gubana senza distinzione di papille, purché le mani nodose raggiungano il tavolo delle vivande prima che sparisca tutto. Per i Vip: sushi, ben nascosto dalla portata della plebe ma non alla vista: barchette di gamberoni come benvenuto agli ospiti dal lontano est, che sono venuti in Italia proprio per mangiare come a casa loro. All’esterno del Teatro Giovanni da Udine, dove ogni anno si svolge il Far East, la banda di Venzone ha appena concluso Oh ce biel cjscjel a Udin, preceduto dalla marcetta Mameli, hit dell’anno che sta conquistando ogni evento senza nemmeno un campionato mondiale.

La fanfara poi lascia il posto a quattordici aitanti figuranti concentratissimi nella Danza del Pesce, un antico rituale con grandi pesci di carta pesta fissati su un bastone, danze e coreografie coloratissime e scroscio di applausi soprattutto da parte degli ospiti venuti da lontano, che fanno partire la tempesta di flash e poi si ficcano dentro l’inquadratura per la foto. Finita la performance, entra in scena la protesta anti-nucleare, un nugolo di contestatori con tute anti-radiazioni sottolineano l’imperituro no alle scorie e pubblicizzano il referendum sull’acqua, mentre il praticello attorno al Teatro è invaso da sdraio e ombrelloni, che, in contrasto con le proteste, danno un’aria allegra e po’ frivolona al festival: “un progetto, non un evento” specifica il volantino. Ma nonostante la città sia tappezzata da quelle corna non proprio azzeccate che sono lo slogan della tredicesima edizione, gesto anti sfiga che va fatto all’orientale, le borse dell’evento disegnate da Guido Scarabottolo sono pro Japan, dato che sarebbe decisamente fuori tema fare finta di niente.

Partecipo al festival da profana diffidente, per questo accolgo con piacere la compagnia di un veterano del Far East, Alessandro, che nel tempo libero fa fotografie. Così, oltre al pass che mi concede privilegi finora solo immaginati, sono pure accompagnata dal foto reporter. Gli dico che non ho mai superato la bruciatura di 2046, il film del cinese Wong Kar-wai: Mi sembrava di essere seduta da mesi quando è finito. Alessandro sgrana gli occhi e mi mette a tacere: Non toccare quel film. Comincio a preoccuparmi.

Quark Henares - Foto di Alessandro QuaiaAlle 17 la sala è piena, sul palco sale il filippino Quark Henares regista del film Rakenrol, che proietteranno subito dopo. Parla un ottimo italiano, flirta con creanza con la presidentessa del Cec, dice che suona in una rock band, che volendo ci sono anche i CD in vendita, ringrazia, scatta foto, applausi. Il film parla di una band indie composta da universitari che vogliono emergere nel settore indipendente evitando di vendersi o di montarsi. Un’incompiuta storia d’amore tra la vocalist e il bassista dai risvolti un po’ adolescenziali è il sottofondo, senza stonature, ma gli altri due protagonisti annientano ogni aspetto svenevole con volgarità e battute scurrili che danno la giusta irriverenza ai personaggi e al film nel complesso. Il finale non è per niente mieloso: equilibrato, non pirotecnico e per questo di buon gusto, l’epilogo sfuma verso la chiusura più fedele possibile alla realtà. Il potere salvifico dell’arte, della grazia e dell’umiltà sono la chiave della credibilità e della coerenza. Nonostante le icone un po’ inflazionate stampate sulle magliette dei personaggi, da Einstein alla banana Warhol-Velvet Underground, le ambizioni da ribelli del rock sono ormai patetiche, tanto che alla fine, la semplificazione delle scelte e delle necessità conduce a un sereno compromesso. Gli atteggiamenti coatti della local star, nel film interpretato da un tamarro del quartierino, sono al massimo fonte d’ilarità nonché punto di riferimento verso il basso.

Quando usciamo, la giornata si è raffreddata all’arrivo della sera, tutti gli spettatori sono visibilmente sollevati dalla cognizione di una poetica ordinarietà. Sappiamo che la proiezione successiva sarà altrettanto delicata, ma dal punto di vista opposto: accanto al titolo Lover’s discourse, “romance” suggerisce il genere, ma nonostante sia un film sull’amore, la pellicola di Derek Tsang e Jimmy Wan è un magnifico susseguirsi di immagini sulla preziosa fragilità delle relazioni. Hong Kong, l’amore in città, tre episodi collegati tra loro dalla casualità degli incontri, ma indipendenti per quanto riguarda l’interiorizzazione del sentimento.
La vicenda più particolareggiata comincia e conclude il film, è un tradimento incrociato tra giovani professionisti, fedifraghi destinati all’agnizione della colpa perché la contemporanea modalità sempre connessi lascia troppe tracce tranne quelle inaspettate. E al contempo, di fronte all’appannamento della dignità che ci impedisce di vedere oltre al vetro che ci separa dai cambiamenti, la violenza dell’abitudine ci costringe a diffidare dalle lusinghe delle novità, che sembrano condurre verso la sostituzione delle persone, ma non delle delusioni. È un episodio ambientato sempre al buio, tra la pioggia battente, l’anonimato dei trasporti pubblici e la riservatezza dei parchi. C’è l’impossibilità di accettare la non esclusività: non bastare all’altro dequalifica e l’evidenza del torto subito basta a deresponsabilizzarsi dalla colpa dell’estinguersi dell’amore. La scelta di una trama descrittiva, attraverso immagini e dialoghi sceltissimi, è di sicuro effetto, in particolare nell’episodio del tradimento coniugale, smascherato dal ragazzo che frequenta la casa di un amico perché è innamorato della madre. Quando, per conquistarla, le fa vedere le foto del maroito che amoreggia con una sconosciuta, la stabilità casalinga cambia. Dai manicaretti della cuoca ai cartoni del take away: si intuisce l’abbandono forzato ma volontario della madre, liberatasi dal sacrificio del ménage familiare. L’episodio centrale, tuttavia, è di una leggerezza toccante: una commessa in una lavanderia a gettoni immagina la sua storia d’amore con un cliente, delle cui tasche colleziona il contenuto. La moderna lavandaia non guarda quasi mai negli occhi l’oggetto del suo amore, ma immagina il romanzo epico-cavalleresco con il signor Lin, che appare in vaneggi trasognati e sempre impersonato da un manichino, finché la sua partenza non viene sostituita da un altro fantoccio, simulacro dell’amore pensato, volutamente illusorio, con o senza lo spigolo vivo della realtà.

Far East Film Festival - Foto di Alessandro Quaia

Dopo queste deliziose sorprese, mi metto alla prova con Confessions, il revenge drama del giapponese Nakashima Tetsuya. La correttezza opinabile della vendetta è perfettamente sviluppata in questo dramma che ha per protagonista un’insegnante che vuole la giusta ricompensa per la morte della figlia, trovata morta nella piscina della scuola. Dopo le indagini, il caso è stato archiviato come incidente, ma la donna sa che i responsabili sono due studenti della sua classe. L’antica vendetta “occhio per occhio” non è un piatto freddo, ma un’operazione gelida come acciaio chirurgico. Il massacro psicologico è un gioco instillato con pazienza, un lavorio calcolato e instancabile, come in un’arnia, in cui ognuno ha il suo ruolo imposto dalla regina, l’impassibile protagonista Takako Matsu. L’insegnante congeda i suoi alunni alla vigilia delle vacanze di primavera; mentre illustra il suo piano di morte alla classe distratta, invita gli alunni a riflettere su quanto sia caduca e preziosa l’esistenza. Paradossalmente – come diceva sardonico Duchamp – sono sempre gli altri che muoiono, ossia quelli che restano. La poesia del film è data dalla lentezza degli slow-motion che preannunciano il compiersi del dramma: danzano i petali di ciliegio, ma i colori non sono affatto collegati al risveglio della natura, anzi, vivono i grigi dei flashback dai quali spiccano il rosso e il verde marcio della piscina che dà la morte. Da qui i continui richiami all’acqua, dalle bolle di sapone alle pozzanghere. Ancora una volta è la solitudine degli abbandoni il fulcro della trama, troppo amore o troppo poco, i genitori lasciano in dote ai figli le incertezze del loro corredo genetico, macchiato dal terrore di risultare comunque sbagliati, inadatti, incapaci. Il film calca la mano sulla fragilità della pubertà, ingolfata dagli stimoli e dalla percezione adolescente di essere sempre in attesa di approvazione. La “mente” dell’omicidio è ossessionato dal dimostrare il suo potenziale alla madre, severa ricercatrice che ha abbandonato la famiglia per le proprie ambizioni. L’errore di superbia commesso dal baby omicida è il tipico passo falso di chi si sovrastima, dell genio incompreso preoccupato di sbrogliare l’impiccio di passare inosservato, per elemosinare le attenzioni di una figura aleatoria, ma insostituibile. Confessions è stato premiato al Far East sia con il My movies audience award che con il Black dragon audience award; pochi film mi sono parsi tanto raffinati e curati, sia nella sceneggiatura che nella fotografia, e in quel caustico umorismo nero che imprime un ghigno che ha il sapore scorretto della vendetta.
La compiutezza dei film asiatici è avvalorata anche dall’importanza della colonna sonora: quella di Confessions ne è solo un esempio (firmata dai Radiohead scelta dal B side di In Rainbows), ma in tutti i film è una componente fondamentale per accompagnare le immagini; l’importanza della musica è un aspetto spesso sacrificato nelle produzioni europee, ma comune ai registi orientali è la tendenza a diluire i dialoghi per non sacrificare l’eloquenza dell’allegoria.

Far East Film Festival Market - Foto di Alessandro Quaia

Per districarmi fra le innumerevoli iniziative, oltre ottanta film, due retrospettive, conferenze stampa, ospiti, presentazioni, mercatini e eventi connessi, dipano ogni dubbio scegliendo un paio di film per nazione.
Incuriosita dalla torbida reputazione del genere, mi approccio al filone sexploitation della retrospettiva Pink wink, un genere a basso costo nato in Giappone negli anni Sessanta che è un misto di sottinteso erotismo, violenza e tragedia. I film durano il tempo di una pausa pranzo impiegatizia, e il campo di distribuzione della casa cinematografica Kokuei era ovviamente controllato dalla censura e dal perbenismo, accortezze che oggi, non serve specificare, sembrano ingenuamente bigotte.
Spiccano i coreani, visionari e fiabeschi come in Romantic heaven, un film corale sulla morte versione rosa edulcorata e nel divertentissimo Foxy Festival.

Una parentesi a parte è tutta per la Cina, che appare come un eterno cantiere in cui tutto è in attesa di definizione: progetti, infrastrutture, rinnovamenti, accelerazioni con l’effetto di rimpicciolire gli abitanti, perduti nelle province o nelle città brulicanti. Quello che sembrano comunicare le storie cinesi è l’impossibilità di decifrare il proprio io interiore, lo spaesamento di fronte ai cambiamenti epocali della nazione, contrapposti alle politiche inflessibili della Repubblica popolare. Ma, se c’è una traccia del più pacifico comunismo in queste opere, è la salvezza della cooperazione. Lo si vede nel non memorabile The piano in a factory, di Zhang Meng, dove il padre di una promettente pianista si adopera con una squadra di amici per costruirle un pianoforte. Sullo sfondo, le torri di raffreddamento della centrale nucleare e quelle usanze kitsch che conferiscono un’aria ancora più decadente all’anonimato produttivo e meccanico del nord est cinese. Altrettanto desolante, ma delicato e profondissimo, è l’ottavo film di Li Yu, Buddha Mountain, che segue tre giovani coinquilini che si arrabattano per vivere, dividono il possibile e convivono con una dispettosa padrona di casa tormentata da un lutto. Ma la condivisione delle proprie sfortune a tratti si allevia, forse proprio quando i quattro protagonisti tornano nell’epicentro del violento terremoto che ha sgretolato la provincia di Sichuan del 2008. Là, dove poco è rimasto in piedi, è come se realizzassero di essere parte di un’incognita inespugnabile, ma mitigata dal più sottile fatalismo: la consolazione di esserci ancora, e di non essere soli.

Anti-tredici - Foto di Alessandro Quaia

Nonostante la diversa matrice storica, culturale e tradizionale che ci distanzia dall’Asia (e le differenze stesse che intercorrono tra le diverse nazioni asiatiche che hanno partecipato al festival), ho trovato consolatoria e rassicurante l’attenzione alle difficoltà più comuni dell’essere umano, e un’inquadratura così discreta da trasformarla in una superba forma d’arte. “La decenza quotidiana”, per scomodare Montale, la tragedia esistenziale che si placa con i beni di prima necessità: quelle relazioni primordiali e sensoriali che avverano desideri semplici, facendo i conti con la beffarda condizione di provvisorietà e dell’ indispensabile come sinonimo di irraggiungibile.
Il trapasso dal male all’incerto futuro non è mai una svolta hollywoodiana, è sempre realisticamente dolorosa. Come il protagonista di Wandering home, del giapponese Higashi Yoichi, un alcolizzato ricoverato in un’asettica comunità di recupero, che scopre di aver irreversibilmente corroso il suo corpo; eppure, il ritorno alla vita non si compie senza le carezze dei figli, o la conquista di un bramato piatto di pesce al curry dopo mesi di dieta bianca.

La sorpresa più piacevole di questo festival volto ad est è stata la cognizione ovvia, ma del tutto inattesa, che, nonostante le diverse provenienze cinematografiche, le storie che vale la pena di raccontare nel cinema d’autore non hanno bisogno di sensazionalismi. Le prospettive cambiano, i silenzi si allungano, le tecniche cinematografiche variano: se i supereroi hanno poteri extra terreni, gli antieroi combattono i mostri delle personali guerre civili, scoprendo che la congruenza della vita è per metà volontà e per metà caso.
Per questi motivi ho piacevolmente saltato la proiezione di chiusura del Far East 13, il remake versione cinese di What women want: in qualsiasi continente, cosa vogliano le donne è una delle incognite irrisolte dell’esistenza e come super potere è decisamente invalidante.

Far East Film Festival - Foto di Alessandro Quaia

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