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Cinema

Alejandro Amenábar e Alfred Hitchcock: i due volti della paura

The OthersQuando nel 2001 negli Stati Uniti fu proiettato in anteprima mondiale il film The Others, la stampa spagnola, che già da tempo elogiava lo stile e il talento cinematografico del regista ispano-cileno, non esitò a definire Alejandro Amenábar l’erede di Alfred Hitchcock. Un po’ delusi, in effetti, dalla scelta strategica di presentare il film prima in America e poi in Spagna, motivata dalla presenza di Nicole Kidman nel ruolo della protagonista e da quella di Tom Cruise in qualità di produttore esecutivo, i critici spagnoli non rinunciarono tuttavia a cercare di individuare le affinità tra il loro compatriota e uno dei più celebri registi inglesi. Affinità, a dire il vero, riconosciute da alcuni e smentite da altri, vista e considerata la non vastissima produzione cinematografica di Amenábar, che fino al 2001 aveva diretto tre film (Tesis, Apri gli occhi e The Others), e visto anche il suo modo di rapportarsi con la morte.

Tesis e l’idea di violenza

Nato nel 1972 a Santiago del Cile, da madre spagnola e padre cileno, ma trasferitosi a Madrid con la famiglia in seguito al colpo di stato di Pinochet nel 1973, Alejandro Amenábar si fa notare nel panorama cinematografico spagnolo a ventiquattro anni,  quando dirige il suo primo lungometraggio, Tesis (1996), che gli vale non solo il premio Goya, paragonabile all’Oscar americano, ma anche il Premio del pubblico al Festival di Annecy. Il film ha per protagonista una studentessa della Facoltà di Scienze della Comunicazione, Ángela, che, durante lo svolgimento di una tesi sulla violenza audiovisiva, scopre come all’interno della sua facoltà si girino snuff-movies con torture e omicidi reali. Il suo relatore morirà per un attacco d’asma durante la visione di una di queste pellicole e lei rischierà di diventare la protagonista inconsapevole del prossimo snuff-movie.

In Italia, a causa della tematica affrontata, il film è stato trasmesso in chiaro solo in orario notturno, benché lo scopo di Amenábar non fosse quello di mostrare violenza gratuita – nelle scene in cui il professore prima e la protagonista poi vedono il video, l’inquadratura si sofferma sui loro volti atterriti e non su ciò che stanno guardando – ma piuttosto far riflettere lo spettatore sul ruolo della violenza nei film e sulle opposte reazioni che, assieme alla morte, può suscitare: Bosco, un compagno di studi della protagonista, è molto attratto dall’argomento, Ángela invece ne è talmente disgustata che alla fine abbandonerà l’argomento della tesi.

Anche Hitchcock, alla pari di Amenábar – benché Tesis oscilli continuamente tra il thriller e l’horror – era contrario all’uso della violenza quando non necessaria:

“Secondo me l’orrore va suscitato nella testa dello spettatore, senza metterlo necessariamente sullo schermo. Tempo fa ho girato un film, piuttosto ironico, intitolato Psycho; molti, dopo averlo visto, hanno commentato: «È terribile», «Che orrore», e così via. Per me, però, contiene degli elementi cinematografici davvero eccezionali. Non era altro che un grosso scherzo, e sono rimasto inorridito nel vedere che in parecchi l’avevano preso sul serio. Doveva far urlare e strillare il pubblico e via dicendo, ma non più di quanto avrebbe urlato e strillato andando sulle montagne russe. All’inizio di questo film c’è una scena spaventosa in cui una ragazza viene uccisa nella doccia; l’ho concepita molto violenta apposta. Poi, però, nel resto del film, c’è sempre meno orrore fisico, eppure la tensione nella mente degli spettatori aumenta in modo considerevole, perché l’ho trasferita dallo schermo alla loro testa”[1].

foto di scena di Psycho

Apri gli occhi e la differenza tra realtà e sogno

L’opera seconda di Amenábar, Apri gli occhi (1997), proietta invece lo spettatore in una realtà più visionaria. César, il protagonista, è un uomo che nella vita ha praticamente tutto: donne, successo e denaro. Un giorno però si innamora di Sofía, la ragazza del suo migliore amico, e questo scatena la gelosia della sua amante regolare, Nuria, che, per vendicarsi, decide di schiantarsi in un precipizio con la macchina portandosi dietro César come passeggero. Nuria muore, mentre César resta sfigurato e la sua vita si trasforma in un incubo; la realtà infatti inizia a confondersi con il subconscio e con la fantasia facendogli quasi sfiorare la follia. Solo alla fine si scoprirà che alla base di tutto c’è un contratto da lui firmato con l’impresa americana Life Extension, il cui scopo era farlo vivere in una realtà virtuale nella quale tutti i suoi sogni sarebbero stati realizzati. Come afferma la studiosa Fátima de los Santos Romero in un articolo comparso su Frame[2], rivista della Facoltà di Scienze della Comunicazione di Siviglia, si tratta di un film sul dualismo tra vita reale e sogno, tra bello e brutto, tra presente e passato, tra amore e disamore, tra vita e morte. Dualismo segnato dalla presenza sulla scena di Nuria, che simboleggia il desiderio, la passione, l’instabilità e l’avventura; e di Sofía, che è invece l’amore, la tenerezza e la stabilità. Amenábar si diverte a confondere lo spettatore con una frammentazione narrativa in cui il tempo e lo spazio non seguono un ordine lineare ma si sovrappongono, e in questo senso la definizione di Antonio Sempere riassume perfettamente la situazione:

Apri gli occhi è come un gioco di scatole cinesi, in cui una serie di sogni compaiono all’interno di un sogno, un racconto al presente che in realtà è il futuro di un passato che è presente”[3].

locandina del film Apri gli occhiUn remake del film è stato poi realizzato nel 2001 con il titolo Vanilla Sky, con Tom Cruise nel ruolo del protagonista e Penélope Cruz nello stesso ruolo interpretato nella pellicola originale, ovvero quello di Sofía; la regia è però passata nelle mani di Cameron Crowe dopo che Amenábar si era rifiutato di dirigerlo.

Anche La donna che visse due volte (1958) di Alfred Hitchcock è un perfetto esempio di dualismo, ma quello che interessa di più al regista, in questo caso, non è tanto confondere lo spettatore quanto aumentare la suspense. Da qui deriva la sua scelta di stravolgere parzialmente il racconto di Boileau e Narcejac, D’entre les morts del 1954, da cui il film è tratto, per fornire immediatamente a chi guarda tutti quegli elementi in grado di orientarlo e di angosciarlo al tempo stesso: se nel racconto il lettore scopriva solo alla fine che Madeleine e Judy sono la stessa persona, nel film la vera identità della donna viene rivelata prima, in modo da dare allo spettatore un vantaggio su James Stewart e chiedersi quindi quale sarà la sua reazione quando lo scoprirà. Per rendere l’idea di passato e presente che si fondono con la scenografia, Hitchcock ricorre invece alla tecnica della carrellata circolare, che pur essendo realizzata con strumenti più “primitivi” rispetto alle tecniche di Amenábar non manca assolutamente di attrattiva:

“Anzitutto volevo dimostrare che se un uomo ricorda qualcosa non è che la vede sottoforma di tradizionali flashback, come accade in moltissimi film, ma la vive in prima persona. Volevo un uomo che, con una donna tra le braccia, prova una sensazione identica a quella del momento originale. Per ottenere ciò, prima ho fatto costruire un set con una stanza d’albergo e una stalla, poi ho sistemato le due scenografie una a fianco dell’altra, creando così il fondale che appare sullo schermo, con i due ambienti uniti. A questo punto ho sistemato i due attori su una piccola piattaforma girevole e ho coordinato i due movimenti rotatori”[4].

In Io ti salverò (1945), in compenso, pur essendo presente la tematica del sogno, il contesto è molto diverso rispetto a quello di Amenábar. Il protagonista, infatti, soffre di problemi psichici legati a un trauma da lui vissuto che lo spingono a credere di aver ucciso un’altra persona e che lo inducono a essere ossessionato dalle linee parallele. Benché all’interno del film il regista abbia inserito una sequenza onirica, con le scenografie di Salvador Dalí, la realtà è ben distinta dall’immaginazione e lo spettatore è perfettamente in grado di separare i due momenti senza confonderli l’uno con l’altro.

Kim Novak e Alfred Hitchcock sul set di La donna che visse due volte

The Others paragonato ai film di Hitchcock

The Others, il terzo film del regista ispano-cileno, a cui seguiranno Mar Adentro (2004) e Agora (2010), ha tutte le caratteristiche per richiamarsi a Hitchcock: una casa isolata (che ricorda l’albergo di Psycho), una protagonista di nome Grace (come Grace Kelly, attrice culto di molti film di Hitchcock, della quale si riprende perfino il taglio di capelli), due bambini che soffrono di una malattia rara (sono fotosensibili, anche se Hitchcock era più interessato alle malattie psicologiche che a quelle fisiche: Antony Perkins in Psycho è psicopatico, Tippi Hedren in Marnie è cleptomane, James Stewart in La donna che visse due volte soffre di vertigini, Gregory Peck in Io ti salverò è malato di mente) e tutta una serie di elementi atti a creare la suspense (la luce del sole vista come nemico da combattere, il piano che suona da solo, i rumori generati dagli “altri” e quel riferimento alla religione interpretata più come punizione che come salvezza, stesso problema che si poneva Hitchcock in Io confesso, dove Montgomery Clift si faceva carico dell’altrui peccato nella convinzione di dover espiare la propria colpa). Va detto che l’atteggiamento dei due bambini ricorda di più quello di Flora e Miles nel romanzo Giro di vite di Henry James, anche se lì i due erano posseduti dai fantasmi di un’istitutrice e di un maggiordomo, mentre nella pellicola di Amenábar non c’è nessuna possessione, sebbene i due domestici siano comunque figure inquietanti.

La storia della donna che vive isolata con i suoi due figli malati e con i domestici e che inizia a sospettare che la casa sia “abitata” da altre presenze funziona come un meccanismo a orologeria, e Amenábar dimostra di conoscere bene la lezione hitchcockiana secondo la quale tra “mistero” e “suspense” c’è una grossa differenza: il mistero, infatti, è un processo intellettivo, e lo si applica soprattutto nei film gialli quando lo spettatore cerca di scoprire il colpevole; la suspense, invece, è un processo emotivo, e un bravo regista è in grado di mantenerla solo se dà al pubblico delle informazioni. L’elemento che in questo caso distingue profondamente Amenábar da Hitchcock è l’utilizzo del soprannaturale. Hitchcock amava di più i “fantasmi” della mente che quelli dovuti a oscure presenze, Amenábar si diverte a insinuare nello spettatore l’idea della soprannaturalità anche se poi alla fine inverte la situazione. Il finale del film è abilmente orchestrato ma, come afferma la critica cinematografica Tónia Pallejá, sarebbe stato un capolavoro solo se lo spettatore non avesse conosciuto l’altro magnifico precedente, ovvero Il sesto senso di M. Night Shyamalan.

Nicole Kidman in The Others

Quello che maggiormente colpisce di questo terzo film di Amenábar è probabilmente la sua capacità di inserire in un contesto fantastico un elemento reale che solo uno spettatore esperto in materia sarebbe in grado di individuare: la fotografia funebre. La scena in cui Nicole Kidman scopre le foto dei suoi domestici defunti, infatti, non è pura invenzione del regista ma si basa su un’usanza galiziana della seconda metà del XIX secolo e della prima metà del XX: fotografare i propri morti in uno scenario che permettesse ai vivi di accettare meglio la loro dipartita. “Il cadavere non è né un essere vivente né un oggetto. È una presenza/assenza; o piuttosto una presenza che si fa assenza. La fotografia agisce come arma di difesa: di fronte alla decomposizione della morte appare la ricomposizione attraverso l’immagine. Con il tempo, il corpo scompare nell’oscurità; tuttavia, nel laboratorio fotografico, l’immagine oscura riemerge a poco a poco come un abbagliamento”, questo afferma la studiosa Virginia de la Cruz Lichet nel suo saggio Más allá de la propia muerte, en torno al retrato fotográfico fúnebre, e questo cerca di trasmettere Amenábar attraverso l’idea dell’inconsapevolezza della morte.

le più celebri coppie dei film di Alfred Hitchcock

Alejandro Amenábar, quindi, pur essendosi effettivamente ispirato ad Hitchcock in alcune parti dei suoi lavori, non rinuncia mai a trovare uno stile suo proprio, che gli permetta di esprimere al meglio se stesso e di coinvolgere lo spettatore in storie che siano anche in grado di farlo riflettere.

a ventiquattro anni

Note

[1] Alfred Hitchcock, Io confesso, conversazioni sul cinema allo stato puro, a cura di Sidney Gottlieb, Minimum Fax, Roma 2008, pp. 93-94.
[2] http://fama2.us.es/fco/frame/new_portal/estudios_3.htm
[3] Antonio Sempere, Amenábar, Amenábar, Editorial Club Universitario, Alicante 2004, citato da Fátima de los Santos Romero.
[4] Alfred Hitchcock, op.cit., p. 165.

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