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Cinema

Gli angeli hi-tech di Nolfi. I Guardiani del Destino

Il mondo fantascientifico non si è ancora ripreso dall’azzardo infrangi-realtà rappresentato da Inception di Christopher Nolan, che lo sceneggiatore di The Bourne Ultimatum rilegge Philip Dick in salsa fanta-melò. Ed è (inaspettatamente) un successo.

Sebbene sia stato supervisionato personalmente da una delle figlie (Isa Hackett Dick, che figura tra i produttori esecutivi), I Guardiani del Destino non risulta del tutto aderente al racconto di Dick. E meno male, aggiungiamo. Pellicole alla mano, l’approccio letterale all’opera dickiana non ha mai prodotto capolavori. Tutt’al più filmetti godibili (come Screamers e il meno riuscito Impostor) e divertissement come Confessions d’un barjo, trasposizione inedita in Italia del romanzo mainstream più conosciuto di Dick[1]. La scelta vincente dello sceneggiatore e regista George Nolfi è stata quella di tradire con moderazione l’ambientazione e la trama del racconto[2] di Philip K. Dick,  trasportando al tempo presente la storia di un uomo degli anni Cinquanta (il tempo dickiano per eccellenza) che penetra le maglie di una realtà eterodiretta.

 I Guardiani del Destino

Il tradimento in questione appartiene a molti grandi film, non ultimo Blade Runner, anche se non arriviamo a quelle vertigini espressive. Uno dei punti a favore del film di Nolfi è quello di non aver ridotto il geniale “Adjustment Team” (datato 1953 e che vanta una lunga serie di emulatori, grazie ad Harlan Ellison e a tutta la scuola di sceneggiatori passati sotto la serie di culto Ai confini della realtà) a un banale action movie, sorte capitata a “The Golden Man”[3] e in parte a “Paycheck”. Nella pellicola girata da George Nolfi convivono tensioni di generi molto diverse tra loro, tenute in piedi da un’ottima prova di Matt Damon, che torna in auge dopo il ruolo compassato nell’ultimo film di Clint Eastwood. Politico in carriera lui, ballerina professionista lei (Emily Blunt), i personaggi del film di Nolfi si discostano in maniera pressoché totale dalla loro origine letteraria. Eddie Fletcher, protagonista del racconto dickiano, è un rappresentante della middle class, anonimo abitante delle suburbs statunitensi che svolge la sua classica routine di ogni giorno. Ciò che manda letteralmente di traverso la sua esperienza è l’errore formulato dal Convocatore[4] di turno (un cane), che ritarda di un minuto la sua azione prevista. Questo provoca un’alterazione nel corso degli eventi preventivato dal “Piano”, portando l’ignaro Eddie Fletcher a contatto con un’esperienza traumatica: la de-energizzazione di un settore, il T137, cioè il rimodellamento del suo ufficio secondo le direttive provenienti dai “piani alti”. Matt Damon (David Norris) sperimenta qualcosa di simile quando il suo Convocatore, interpretato da Anthony Mackie, si appisola (esattamente come il cane del racconto di Dick) e non riesce a fargli perdere l’autobus. Come in Sliding Doors, questo evento produce un’alterazione – in quel caso duplice e parallela – del continuum spazio-temporale previsto dal Piano, che si concretizza in due deviazioni dal percorso prestabilito: David ritrova la ragazza che lo aveva tanto scosso e galvanizzato (ma che lui non dovrebbe frequentare), inoltre – poiché arriva in ufficio prima del previsto – assiste alla manipolazione mentale del suo collega da parte degli “Uomini col Cappello”.

Norris a dialogo con Richardson

Quest’esperienza traumatica lo mette brutalmente di fronte alla realtà, spiegatagli da Richardson (un John Slattery in gran spolvero). Siamo tutti parte di un Piano più alto di noi, di cui non abbiamo pressoché alcun controllo e nessuna percezione, che si serve di una squadra di agenti (o angeli, che dir si voglia) i quali hanno il precipuo compito di sorvegliarci e garantire che non ci discostiamo troppo dal cammino prestabilito, il tutto per il nostro bene. Ovviamente il Piano non si occupa di ogni singola persona in ogni singolo momento, ma segue macro-tendenze di avvenimenti (in maniera non troppo dissimile dai principi della psicostoriografia asimoviana), ma  – come si scopre ben presto – ogni influenza degli agenti nel nostro continuum spazio-temporale ha degli effetti, tra cui il temibile “effetto onda”, ovverosia alterazioni così profonde o di dimensioni così estese da costituire un problema serio per lo svolgersi del Piano.

Di fronte alla minaccia di una formattazione totale della memoria (una tabula rasa psichica), il protagonista non fa parola con nessuno di questa tremenda verità, ma non può fare a meno di non cercare l’incontro con la ragazza dei suoi sogni. Quasi come in un capovolgimento degli scandali della presidenza Clinton, il Norris di Nolfi si confronta in maniera romantica con una delle questioni più popolari in assoluto: la relazione con l’altro sesso e la possibilità che un fugace incontro rappresenti addirittura un mutamento radicale nell’esistenza di una persona, offrendo quel quid che spesso manca in una vita che a volte sembra filare anche troppo liscia.

Voli imprevedibili e ascese velocissime, traiettorie impercettibili, codici di geometrie esistenziali

Franco Battiato, Gli Uccelli

Il deus ex machina del film non arriva mai a disvelarsi in maniera chiara e univoca, anche se la configurazione narrativa  lo avvicina molto all’architetto di Matrix[5] o al regista Cristof di The Truman Show, che dirigeva un’intera cittadina per simulare il mondo di una singola persona, tenendo d’occhio tutti i movimenti con un sistema di telecamere, come accade nel televisivo Grande Fratello. Il Principale, come viene chiamato dai “guardiani”, ha un Piano maiuscolo, di cui non deve rendere conto a nessuno. Le nostre vite, per insignificanti o di rilievo che siano, ne fanno tutte parte.
Curioso l’utilizzo, presente anche in Men In Black, del copricapo – in questo caso un borsalino – come elemento distintivo (che in realtà non distingue nulla, semmai uniforma) grazie al quale gli Impiegati possono accedere ad altri luoghi della città, semplicemente aprendo delle specifiche porte (un po’ come i punti di accesso alla matrice di Matrix o ancora i deck del videogioco di Alien, dove era possibile accedere agli altri livelli).

Nel film di Nolfi è interessante anche il modo e il supporto sul quale viene visualizzato il Piano. Assecondando lo stile generale del film, che riattualizza un racconto del 1953, anche un taccuino vintage nasconde al suo interno una sorta di iPad di ultima generazione. Nello schermo vengono geolocalizzati i soggetti in tempo reale lungo una mappa che visualizza i cosiddetti “punti di flessione” dei soggetti stessi rispetto al Piano, e gli eventuali “effetti onda” cui possono dare luogo. Una modalità analoga è presente nell’adattamento di Steven Spielberg, Minority Report, nel quale John Anderton, agente della Precrime, è autorizzato a manipolare materiale sensibile dei cittadini, in barba alla privacy, e interviene con l’arresto coatto laddove i precog pre-vedano il verificarsi di un crimine. Nella Washington del 2054 – ambientazione del film di Spielberg – l’accento è futuristicamente posto sull’invasività dei meccanismi di controllo in una sorta di panopticon hi-fi, uno dei temi più cari alla fantascienza sociale, si pensi a Orwell.

Di sicuro, nel caso de I Guardiani del Destino, si può parlare di un noir dalle tinte sovrannaturali, che richiama per certi versi la Dark City di Alex Proyas (1999), dove tutto veniva controllato dallo scandire dell’orologio e da loschi individui con un mantello nero. Il connotato metropolitano, infatti, è  – come in tutti i noir che si rispettino – un elemento assolutamente centrale nell’economia narrativa della pellicola. La città si configura come qualcosa di attraversabile e riconfigurabile, avendo le giuste chiavi di accesso al sistema. Dal punto di vista spaziale, la metropoli viene esplorata dai bassifondi fino al terrazzo dei grattacieli (l’ultima scena è ambientata proprio a queste altezze) ed è tutto un turbinio di mezzi di trasporto: bus, taxi, battello, ascensori.

I Guardiani normalmente passano inosservati, ma diventano determinanti nella vita delle persone quando ricevono l’ordine di intervenire in tal senso. Come in Inception ci sono dei dettagli che permettono agli angeli custodi di entrare in sintonia con i soggetti e addirittura cambiare il loro modo di vedere alcune cose, se non rispondente al piano previsto. Come in Blade Runner o Atto di Forza, ci sono dei ricordi particolari, che possono essere costituiti da memorie infantili piuttosto che da memorabilia investiti di sentimenti, che costituiscono dei veri e propri trigger (stimolatori) spartiacque nella concezione della vita dei soggetti, e quindi delle loro future azioni.

In un racconto può succedere tutto; l’autore si limita a tagliare i personaggi su misura rispetto agli avvenimenti. Quindi, in termini di azioni e avvenimenti, il racconto è per l’autore molto meno restrittivo del romanzo. Quando l’autore crea un romanzo, lentamente il romanzo comincia a imprigionarlo, a togliergli la libertà; i suoi personaggi prendono il sopravvento e fanno quello che vogliono fare, non quello che lui vorrebbe far loro fare. Questa è da un lato la forza del romanzo e, dall’altro, la sua debolezza.

Philip K. Dick, 1968[6]

Questa considerazione pirandelliana sulla natura dei personaggi, unita alla peculiarità del medium breve del racconto rispetto al romanzo, rende palese l’approccio dickiano alla scrittura. Fonte primaria di analisi e descrizione del mondo, nonché osservatorio privilegiato nei confronti di una realtà che si cela sempre dietro le ombre di una caverna mai così platonica.

Nel testo i virgolettati corrispondono ai titoli dei racconti originali. In corsivo maiuscolo le opere cinematografiche.

Note

[1] Confessioni di un artista di merda, (1956) Roma, Fanucci,2002.

[2] Il titolo del racconto originale di Philip K. Dick da cui è tratta la pellicola è “Adjustment Team”, tr. it. “Squadra Riparazioni”, contenuta in Le Presenze Invisibili. Tutti i racconti vol. 2, Mondadori, 1997, Milano, p. 219.

[3] parliamo di Next, adattamento girato con discutibile gusto da Lee Tamahori nel 2007, con il monoespressivo Cage.

[4] il termine Convocatore compare nella traduzione italiana al racconto contenuta in Le Presenze Invisibili, e si riferisce al ruolo di determinati soggetti che devono eseguire esattamente le istruzioni date loro dagli Impiegati, ovvero gli “uomini col cappello” del film di Nolfi.

[5] Ovvero qualcuno che ha letteralmente costruito il nostro piano di esperienza (la nostra realtà) e che tiene sotto controllo le nostre vicende, con tanto di schermi, nel caso di Matrix.

[6] La citazione è tratta dalla Postfazione a Le Presenze Invisibiliibidem.

Commenti

2 commenti a “Gli angeli hi-tech di Nolfi. I Guardiani del Destino”

  1. Bellissimo film e bellissima recensione!!

    Di Camilla | 9 Luglio 2011, 12:38

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