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Musica

Il mondo senza noi dei Locrian

A settembre 2010 i Locrian e Jenks Miller (Horseback) suonano all’Hopscotch Festival in North Carolina. Si conoscono, sono apparsi anche sulla stessa etichetta (Utech Records) e decidono di registrare qualcosa insieme. Nasce New Dominions, uscito da poco per Utech in trecento copie in vinile, provvisto dell’artwork monumentale del moscovita Denis Forkas Kostromitin, che meriterebbe quasi un articolo a parte: un immaginario edificio sacro (ispirato alle chiese di legno russe), la cui esistenza prosegue in un mondo apparentemente senza uomini, un tipo di ambientazione che ben si adatta soprattutto ai Locrian. Due sole tracce, stranamente rarefatte per due progetti capaci di occupare da soli tutto lo spettro dell’udibile: The Gift, molto buona per un thriller/horror nel suo essere allo stesso tempo tesa e spezzata, e il quarto d’ora di Our Epitaph, una rugginosa litania psichedelica.

New Dominions, copertina di Denis Forkas Kostromitin

È vero che Horseback è finito sotto l’importantissima Relapse Records, ma per il momento scegliamo di soffermarci sui Locrian. Questa loro ultima collaborazione prolunga ancora quello stato di grazia creativo che dal 2009 li ha portati progressivamente sotto gli occhi di una fetta sempre più grande di pubblico. André Foisy (chitarre) e Terence Hannum (sintetizzatori) danno vita al progetto nel 2005, dopo aver suonato assieme – paradossalmente, vedremo – negli acustici (ma “doom”) Unlucky Atlas. Non più giovanissimi, insegnano entrambi presso l’Università di Chicago e a nome Locrian intendono far uscire musica che riassuma le loro molteplici influenze, che vanno dall’hardcore al metal, ma anche dal noise all’industrial e a sperimentazioni connesse, il tutto in un periodo in cui in ambito estremo sempre più piede prende la drone music, quindi derive ambientali e lontananza dalla forma canzone per brani al 99% strumentali (anche la voce, quando c’è, è più che altro uno strumento).

Il primo album significativo è Drenched Lands, che esce nel 2009 supportato dalla Small Doses al di là dell’Atlantico e dalla At War With False Noise qui in Europa. Il film al quale intendono far da colonna sonora è già perfettamente riconoscibile: un ipotetico “day after” ambientato tra periferie urbane in rovina, con la telecamera che entra in parcheggi e centri commerciali vuoti e abbandonati, muovendosi lungo strade di cemento del tutto dissestate. Dal punto di vista musicale, lontano sullo sfondo si vedono come sempre Fripp & Eno, poi più vicini si trovano Skullflower e – in piena beatificazione, all’epoca – i Sunn O))) e la loro particolarissima versione del doom metal. Questo senza contare le similitudini con altri artisti coevi, ad esempio Mike Gallagher (chitarrista degli Isis) con la sua avventura solista MGR, che disegna lo stesso tipo di paesaggi da dopobomba. La costruzione dei brani segue un classico schema in crescendo (da vuoto a pieno), sia quanto a stratificazione dei suoni sia quanto a volume: chitarre stridenti che si fanno sempre più rumorose e invasive, sulle quali si ammassano loop e note di synth obsoleti (sempre l’estetica della rovina?), oltre che alle grida effettate di Hannum. La versione su cd si chiude con la traccia bonus Greyfield Shrines, a tutt’oggi una delle loro performance più convincenti: un viaggio di mezzora senza ritorno, dal quale emerge anche come il duo lasci consciamente un certo spazio all’improvvisazione per liberare tutte le energie (negative) del proprio sound. Il successivo Rain Of Ashes, sempre del 2009 (è la prolificità del nuovo millennio), pubblicato da Basses Frequences, mostra lo stesso modus operandi, con un’altra improvvisazione che sfrutta il passaggio da vuoto a pieno e poi viene messa addirittura in reverse.

Rain Of Ashes è chiaramente un’uscita interlocutoria, mentre il successivo Territories (pubblicato grazie agli sforzi di tutte le etichette nominate in precedenza!) mostra come Foisy e Hannum ben siano inseriti nella scena della loro città, sperimentale e non. Vale la pena ricordare che Chicago ha una storia che va da Sun Ra ai Big Black, ma anche oggi, specie in ambito estremo, non scherza. In Territories, infatti, c’è un po’ del nuovo e meno nuovo milieu “pesante” locale. Anzitutto, in Inverted Ruins, si trova il pezzo di bravura “recitativa” di Mark Solotroff, mente della Bloodlust! e fondatore dei Bloodyminded, uno degli esponenti di spicco del noise americano: il suo soliloquio rauco e disturbato da continui feedback ben si amalgama con lo sferragliare cigolante dei Locrian, in una delle tracce che più si ricorderanno nella loro discografia. Fedeli allo Zeitgeist, i Locrian passano attraverso più generi estremi, collegandoli: chiamano in causa il batterista di una band loro amica (Andrew Scherer dei Velnias), ma soprattutto Blake Judd dei più famosi Nachtmystium, per controbilanciare con esplosioni black metal i loro disegni ambientali. Non manca nemmeno il sax di Bruce Lamont (Yakuza, Circle Of Animals, Bloodiest), musicista fin troppo eclettico che qui stupisce con le dissonanze di The Columnless Arcade.

The Crystal World, copertina di Justin Bartlett

È ancora il 2010 e i Locrian non si fermano. Il duo diviene una band vera e propria con l’ingresso di Steven Hess alla batteria. Hess è un batterista con un background jazz, ma con una carriera particolare che lo porta non di rado a declinare il linguaggio del proprio strumento secondo criteri ambientali, talvolta avvicinandosi come suono alla musica concreta. Spesso, inoltre, si cimenta in prima persona con l’elettronica. Eccolo dunque apparire in dischi come For Waiting, For Chasing del progetto Pan•American di Mark Nelson dei Labradford (da poco ristampato dalla Kranky) e suonare con gli Haptic, gli On, gli Ural Umbo e i Cleared, tutti progetti legati al drone e alla manipolazione elettronica degli strumenti. Il trio appena formato, oltre che – come abbiamo visto – a confrontarsi con Jenks Miller per New Dominions, registra The Crystal World, album che vede dei Locrian più maturi e più strutturati (cioè meno propensi a sciogliere i lacci all’improvvisazione), tanto che viene da chiedersi cosa s’inventeranno prossimamente per non ripetersi e per tenere sempre alto il livello. Il disco prende spunto da uno dei romanzi catastrofici di Ballard, quindi di nuovo dal tema di un mondo al suo termine, che ritorna sempre come controparte visiva alla loro musica. Esce, come New Dominions, per Utech Records, etichetta americana attentissima all’estetica delle proprie uscite, nelle quali coinvolge fotografi e artisti di peso: qui è toccato all’illustratore Justin Bartlett, che ha realizzato una copertina che lo stesso Ballard avrebbe voluto per il suo libro. Grazie alla polivalenza di Hess, The Crystal World si arricchisce ancora nei momenti ambientali, ma allo stesso tempo alcune parti dei brani si riavvicinano di più a forme tradizionali, di modo che i caratteristici crescendo della band non sono più solo rumoristi, ma anche melodici e per brevi tratti vicini al doom classico. Tornano persino frangenti acustici, perfettamente integrati al mood del disco. Restano, invece, alcune scelte stilistiche ormai riconoscibili: i suoni sintetici volutamente datati, le grida di Terrence – filtrate e in loop – che qui danno autentico senso alla parola terrore (Obsidian Facades), reminescenze black metal di Territories e il nuovo viaggio interminabile di Extinction.

Locrian: Hess, Hannum, Foisy

Col ritorno degli Earth e il successo non così prevedibile dei Sunn O))) presso certa critica alternativa, oltre che per l’influsso i Jesu di Justin Broadrick, sono saltati fuori progetti solisti e band che hanno piegato il suono delle chitarre di modo da avvicinarsi all’ambient, al noise e a generi sperimentali distanti dalle strutture tradizionali, fino a che – come sempre – non si è giunti alla saturazione e alla noia, dato che concetti come “drone music” hanno preso spazio anche altrove, non solo in campo metal o post-core. Di gente con un approccio “poco ortodosso” alla sei corde e lontano dalla forma canzone ne è venuta fuori da tutte le parti (da Grouper a Tim Hecker, passando per una miriade di gruppi che hanno riscoperto/rimasticato anche lo shoegaze). I Locrian – che a eclettismo sono figli di quest’epoca in cui tutta la musica è accessibile senza più barriere di sorta, ma che a personalità e idee chiare riguardo la loro estetica si trovano un gradino sopra a molti altri – si candidano a sopravvivere alle mode e a essere ricordati più a lungo.

Sulla pagina Bandcamp dei Locrian si trovano in full stream alcuni degli album trattati nell’articolo.

Per una visione d’insieme della vasta discografia della band, fatta di edizioni limitate sui supporti più disparati, è come sempre d’aiuto Discogs.

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