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Palcoscenico

La rivoluzione scenica di Adolphe Appia

Adolphe AppiaChiunque di noi abbia occasione di fare qualcosa a cui a lungo ha anelato, indipendentemente dalla cosa in sé, ha sempre grosse aspettative. Adolphe Appia si recò per la prima volta a teatro solo in età adulta, avendo alle spalle le forti restrizioni di una famiglia calvinista e portando con sé l’ansiosa trepidazione di assistere a quello spettacolo completo e perfetto che era, nel suo immaginario, lo spettacolo teatrale. E, proprio come spesso capita a molti di noi quando finalmente arriva un momento tanto atteso, Appia rimase fortemente deluso.

A differenza di molti di noi, però, la sua delusione fu tale da non poter resistere all’impulso di intervenire e rimediare all’inadeguatezza che percepì. L’edificio teatrale, a quei tempi, aveva già subito la trasformazione concepita da Wagner, che aveva voluto la sala buia e l’orchestra parzialmente nascosta sotto il palcoscenico per immergere gli spettatori nell’atmosfera di ciò che chiamava “un golfo mistico”, affinché più forte fosse il loro coinvolgimento. La riforma del teatro, tuttavia, si era fermata alla sala e non aveva interessato la scena, sulla quale l’attore si muoveva circondato da una scenografia bidimensionale, cioè quella costituita da fondali dipinti in uso fin dal Rinascimento. Fu proprio il contrasto tra questa scenografia bidimensionale e l’attore nella sua fisicità a deludere Appia, che avvertì irresistibile l’impulso di completare il lavoro di Wagner, portando la riforma architettonica anche sul palcoscenico.

Erano quelli gli anni in cui si era diffuso l’impiego della luce elettrica nei teatri, che permetteva cambi di illuminazione repentini e drastici in sala; Appia ne intuì e applicò il potenziale sulla scena. Propose, poi, scenografie essenziali, costituite da pochi elementi tridimensionali contro i quali la luce, opportunamente diretta e manovrata, creava atmosfere e suggestioni fino ad allora mai viste. L’idea di Appia, però, andava ben oltre il mero sostituire elementi pittorici con elementi architettonici valorizzati da un uso creativo di uno strumento all’avanguardia, che invece diventava un vero e proprio canale espressivo dell’autore, insieme alla musica e la lirica, ad esse subordinato e da esse dipendente.

La scena di Adolphe Appia

Egli, infatti, riteneva che la componente principale e determinante del Wort-tondrama (il dramma wagneriano di parola e suono) fosse la musica. Doveva essere questa, con i suoi ritmi, a definire il tempo, a determinare fisicamente la durata di azione e parlato, che dovevano inserirsi armoniosamente nel flusso sonoro di note e pause, come imbrigliati in uno schema che non lascia loro alternative.

La musica, allo stesso modo, doveva determinare lo spazio. Così come imponeva il tempo, doveva imporre all’attore il movimento e la misura dei gesti, che a loro volta dovevano quantificare e qualificare lo spazio in cui egli si muoveva. Lo spazio, dunque la scena teatrale, diventa, in quest’ottica, una conseguenza necessaria della musica, e il movimento che lo determina dovrebbe poter essere scritto su un’ipotetica terza riga di partitura (soluzione che, peraltro, Appia non tralascia di suggerire), ed è anch’esso riconducibile – attraverso la parola, prima, e la musica, poi – ad un livello superiore, quello della creatività dell’autore.

Per comprendere come Appia sia giunto a queste concezioni, è utile ripercorrerne i momenti biografici più salienti.

Visse precisamente sessantacinque anni e mezzo, essendo nato – come già ricordato, in una famiglia calvinista – il primo settembre 1862 a Nyon, una località della Svizzera francese, e deceduto il 29 febbraio 1928 (a Ginevra). Figlio di uno dei medici fondatori della Croce Rossa Internazionale, ultimo di quattro fratelli – nati sistematicamente a due anni di distanza e curiosamente distribuiti “a chiasmo”, con i maschi all’inizio e alla fine della nidiata – Adolphe non ebbe con i familiari un rapporto di affetto profondo, anzi, la sua indole bohemienne lo rese ben presto la pecora nera, tanto che la sorella Helene fu l’unica a mostrare comprensione nei suoi confronti e ad aiutarlo economicamente, di nascosto, nonostante il loro rapporto spesso conflittuale. Alla morte di lui, fu sempre e solo Helene a raccoglierne e conservarne gli scritti e i disegni, andati successivamente distrutti per mano della nipote di Appia, la figlia del fratello maggiore, il quale, al contrario della sorella, non amava che la propria rispettabilità di banchiere venisse messa in discussione dall’accidentale parentela con lo scenografo.

Respinto dalla famiglia, Adolphe Appia non venne neppure accettato dalla società, che lo spinse periodicamente a ricoverarsi per via dei suoi fragili nervi.

Intorno ai quindici anni si dedicò allo studio della musica, e fu questa la miccia che innescò in lui il desiderio di assistere ad un’opera teatrale. Lo studio lo portò in diversi centri europei, fra cui, naturalmente, Bayreuth, dove Wagner aveva reso concreta la sua idea di teatro riformato. Fu proprio di fronte alla magnificenza del dramma wagneriano che egli sentì di non poter tollerare l’inadeguatezza della scena.

Il teatro di Bayreuth

All’inizio del Novecento, inoltre, Appia fece l’incontro che definitivamente determinò le sue concezioni; conobbe, infatti, Emile-Jacques Dalcroze, inventore di un particolare tipo di disciplina ginnica in cui i movimenti del corpo ricalcavano quelli della musica, poiché gli veniva attribuito un valore formale equivalente a quello degli elementi del solfeggio. Si trattava della ginnastica ritmica, che muoveva allora, è il caso di dire, i primi passi, e otteneva l’interesse di un vasto pubblico. Nata come una sorta di esperimento all’interno del conservatorio di Ginevra, in pochi anni vide attivare numerosi corsi pubblici, e presto il metodo di insegnamento “Dalcroze” venne accettato e inserito nelle scuole, finché, nel 1911, lo stesso Dalcroze, con l’aiuto del filantropo Schmidt, fondò una scuola a Hellerau, frequentata spesso da Appia. Una serie di movimenti del corpo che traduceva con espressività e rigore quelli della musica era per Appia al tempo stesso lo spunto e la conferma della sua teoria scenica: l’attore, “mosso” dalla musica, definiva lo spazio intorno a sé coerentemente con quanto il compositore aveva creato.

L’altra figura che senz’altro influenzò l’immaginario di Appia fu quella del pittore francese Puvis de Chavannes, autore di diverse opere simboliste e di un quadro che raffigura Santa Genoveffa mentre veglia su Parigi. Quest’opera, più di tutte, sembra avere condizionato la matita dello scenografo svizzero, poiché raffigura la Santa colta nell’atto di guardare la città da un balcone; esso ha linee squadrate (il quadro è diviso orizzontalmente in due sezioni nette), di cui quella inferiore mostra superfici perpendicolari: la figura umana è in piedi sul pavimento, alla sua destra dei gradini, di fronte il parapetto.

L’essenzialità delle linee architettoniche e l’utilizzo “costruttivo” della luce da un lato e l’espressività del corpo umano dall’altro sono i due poli entro i quali si muove il rinnovamento di Appia.

L’allestimento scenico, dunque, doveva favorire l’espressione dell’autore nella fisicità dell’attore e degli elementi che lo circondano. Appia immagina una scena essenziale e fisica, in cui l’attore possa muoversi in profondità senza “sbugiardare” l’illusione ottica della prospettiva dei pannelli posteriori. Pertanto la sua scena è costituita da praticabili, ossia da elementi che l’attore può percorrere e calpestare, quali scale, gradini, piani inclinati, che offrano resistenza alla sua corporeità e interagiscano con i suoi movimenti.

L’ambientazione è data proprio dai comportamenti degli attori che non sono più, ad esempio, immersi in una scenografia che raffigura una foresta, bensì che camminano, agiscono e si muovono come se fossero in una foresta.

Le innovazioni di Appia non furono accolte con unanime favore. Particolarmente, fu proprio la vedova di Wagner, probabilmente condizionata dal culto per il marito nel quale viveva, a disprezzare i suoi bozzetti, definendoli miseri e ridicoli. Anche la collaborazione con con la Scala di Milano fu tutt’altro che un trionfo: l’allestimento per il Tristano e Isotta, presentato il 20 dicembre del 1923, non piacque né al pubblico né alla critica, che gli rimproverò di non aver saputo rendere il “senso di profonda poesia” cui lo spettatore delle opere di Wagner era abituato, e di risolvere l’allestimento in una serie di drappeggi disposti arbitrariamente, che non riuscivano nell’intento di far volare la fantasia dello spettatore. Fu solamente grazie all’interessamento diretto del direttore d’orchestra, Arturo Toscanini, che lo spettacolo venne replicato.

Pubblicità concomitante con la rappresentazione con scene di Appia e diretta da ToscaniniAppia accusò molto il clima di sfiducia e scarso apprezzamento che si formò intorno a lui a Milano e si abbandonò nuovamente all’abuso di alcol.

Negli ultimi anni della sua vita realizzò disegni sempre più essenziali fino a farli diventare quasi completamente scevri di indicazioni su quella luce che un ruolo tanto centrale aveva avuto nella concezione del rinnovamento scenico, producendo di fatto solo schizzi, talmente ridotti alla linearità che si è pensato – ma non esistono memorie o altri indizi che lo confermino – che tali ambienti non fossero stati pensati per accogliere la figura umana.

Commenti

Un commento a “La rivoluzione scenica di Adolphe Appia”

  1. Adolphe Appia, ha avuto un grande intuito per lo spazio scenico. Purtroppo non è stato capito per quei tempi. Lascia però una preziosa eredità per il teatro.

    Di donato d'alessandro | 12 Settembre 2011, 15:48

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