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Palcoscenico

Una Bohème monocromatica distante dalla tradizione!

Sembra strano da immaginare, ora che festeggiamo il suo 150° anniversario ma, almeno per la lirica, l’Unità d’Italia rappresentò un vero e proprio disastro. Infatti, se molti dei regni, ducati e principati spazzati via dal Risorgimento erano sempre stati disponibili a sovvenzionare i propri teatri, già il primo governo repubblicano di Cavour iniziò a vedere di cattivo occhio il costante indebitamento del settore lirico-operistico. A partire dal 1861, governi di breve o brevissima durata presieduti dalla destra storica si alternarono ad altrettanto brevi governi della sinistra storica, ma da quest’alternanza i teatri lirici praticamente non trassero alcun beneficio. Dal punto di vista musicale, l’Italia uscita dal processo di unificazione era poco più che un deserto, agli antipodi rispetto al vivace mondo mitteleuropeo o anglosassone, che accoglieva con entusiasmo tutto il frutto dell’italico ingegno che, in quegli anni, aveva il nome di Rossini, Donizetti, Bellini e Verdi.

La Bohème
Superata la metà del secondo Ottocento, seppur giunto alla fine della sua gloriosa carriera, Verdi rimaneva ancora un modello inimitabile e per questo tenuto a debita distanza dai giovani compositori. Il grande pubblico preferiva rivedere le opere del grande maestro piuttosto che quelle di giovani autori o compositori europei. In altre parole, un certo conservatorismo culturale impediva alla cultura europea di penetrare i nostri confini nazionali, mentre oltreconfine il nostro teatro lirico era apprezzato e rappresentato.

Solo al termine del suo percorso artistico Verdi venne “contaminato” da quello che viene considerato il movimento culturale più importante del secondo Ottocento, ovvero la Scapigliatura, alla quale partecipava in pieno Arrigo Boito, librettista di Otello e Falstaff, ultime opere del maestro parmense. Fu proprio il tumulto portato dalla Scapigliatura all’interno di un mondo culturale ancora legato a valori romantici e istanze localistiche e risorgimentali che rese possibile il fenomeno Puccini e, in particolare, la creazione della sua opera forse più popolare, quella più radicata nel vissuto politico-economico-sociale dell’epoca: La Bohème.

Assieme al giovane Puccini, il coetaneo Arturo Toscanini iniziava ad aprire uno spazio importante per le opere di Wagner, decretato come il più influente compositore dellOttocento europeo. Toscanini, il “maestro di maestri”, direttore al Teatro Regio di Torino, dopo una breve esperienza come violoncellista, la sera del 1° febbraio 1896 si ritrovò tra le mani la tragedia di Mimì e Rodolfo: prima mondiale di una delle opere assieme più romantiche e semplici nella struttura che l’Ottocento ci abbia lasciato, ispiratrice di romanzi, lavori letterari, dipinti e film.

Mimì è malata e lo confessa con fatica a se stessa, incontra Rodolfo e con lui un’allegra compagnia di amici tanto poveri quanto felici, appunto, scapigliati, bohémien. Ben presto, Mimì e Rodolfo, assieme a Marcello e la sua vispa compagna Musetta, vengono coinvolti in una serie di litigi e incomprensioni che sono quanto di più facile possa succedere a persone che convivono in spazi angusti e con pochi soldi in tasca. Le due coppie si separano, finché, all’improvviso, riappare Musetta che annuncia l’agonia di Mimì, la quale muore scatenando uno dei celeberrimi “Mimì” che resero eterno Luciano Pavarotti. Quell’opera che, appena un anno dopo, un recensore del Los Angeles Times definiva per il suo parlare del “… paese della povertà e della buona compagnia…”, anticipava l’avvento del cinema, anzi, definiva un ritmo, una compartecipazione dei personaggi, il delicato processo della loro trasformazione psicologica che, di lì a poco, sarebbe diventato patrimonio culturale comune – appunto – del cinema moderno. In un certo senso, l’opera di Puccini rappresenta l’anello di congiunzione tra la più importante forma di intrattenimento del 700-800, il teatro lirico, e la settima arte, che in pochissimi decenni andrà a impadronirsi degli spazi lasciati vuoti dal teatro, per poi soccombere a sua volta di fronte all’avvento della televisione.

La Bohème - il palco

Con questo impressionante e affascinante carico sulle spalle entriamo in Arena e, superata la scalinata che immette in platea, ci troviamo di fronte a un palco completamente bianco, monocromatico, leggermente inclinato per compiacere la vista del sempre numeroso pubblico. La struttura è a forma di enormi blocchi posti sia parallelamente sia perpendicolarmente ad esso, dai quali prima o poi dovrà uscire qualcosa, come in effetti accadrà, nella forma di una pioggia interminabile di coriandoli. In luogo dell’ottocentesco caffè Momus (indimenticabili le antiche scenografie di Luzzati!), che assieme alla soffitta rappresenta il secondo ambiente in cui si svolge l’opera, attraverso una massiccia entrata di comparse sul palco si materializza uno spoglio e asettico bancone, camminando sul quale Musetta canta la sua celeberrima aria “Quando men vo’”.

In seguito, il duetto tra Rodolfo e Marcello “O Mimì, tu più non torni”, si svolge ai piedi di un vecchio e spoglio carro ferroviario. Ritornando a bomba, l’incontro tra Rodolfo e Mimì, che dobbiamo immaginare in una vecchia soffitta, nella direzione accelerata di Arnaud Bernard perde molto del suo fascino originario, in quanto non appare il lume che si spegne, la ricerca della chiave persa da Mimì è posticcia e, in sostanza, nonostante il bianco domini ovunque, la scenografia sembra poco confacente a restituire le misere condizioni di vita del gruppo di amici. Spesso i movimenti tra i protagonisti – si pensi ad esempio come viene fisicamente sbeffeggiato Benoît, il padrone di casa che irrompe in soffitta reclamando la pigione – sono forzati e francamente superflui nell’economia dell’opera, che già nel libretto esaurisce gli atteggiamenti dei personaggi. Venendo ai protagonisti,  Marcelo Álvarez è nel ruolo di Marcello, in una serata dove – pur non dando il meglio di sé – riesce a conferire al personaggio quell’ampiezza di suoni, quell’impronta drammatica che, seppur latitante dal punto di vista musicale, persiste sul piano scenografico fino alla fine dell’opera. Fiorenza Cedolins è una pulita, efficace Mimì, applaudita dal pubblico e morbida nei suoni, anche se non sempre costante nell’emissione. In particolare, sembra soffrire verso la fine del quarto quadro, quando a Mimì è richiesta un’emissione più greve e sofferente. L’allegra combriccola, Vincenzo Taormina (Schaunard), Luca Salsi (Marcello), Deyan Vatchkov (Colline) riesce, nonostante la suddetta scenografia e alcune brusche scelte registiche, a dare la sensazione del gruppo di bohèmien squattrinati, ma allegri e senza troppi pensieri. Musetta ha la voce e le movenze di Natalya Kraevsky, affascinante dal punto di vista scenico ma veramente approssimativa in quanto a fraseggio e in diversi acuti. In particolare, la già citata aria di Musetta non convince, forse complice la scelta di farla pericolosamente camminare sul bancone del bar inclinato rispetto alla scena. Certo, lo spettacolo deve avere un posto di prim’ordine in Arena, ma dopo avere visto Violetta cantare appesa al cielo e Mimì camminare sulla graticola, ci chiediamo dove sia il confine tra quello e il rispetto per la professionalità dei cantanti. Alla bacchetta, John Neschling, che nonostante le discendenze eclatanti (pronipote di Schönberg e di Arthur Bodanzky) non riesce ad imprimere quel ritmo che siamo abituati ad ammirare, soprattutto nei duetti e negli insiemi.

Giacomo Puccini

La tradizione è lontana, lontanissima, si perde in quei filmati d’epoca dal sapore di un giradischi consumato dal tempo, quando la Caballè ti teneva come sospeso al filo dei suoi interminabili pianissimi piani, quando Alfredo Kraus dipingeva con la brillantezza dei suoi inimitati acuti quella notte di luna piena, dove la luna era vicina e la gelida manina era quella di Mirella Freni o Renata Scotto che, seduta accanto a Luciano Pavarotti, per farsi intendere s’alzava e quel “primo sole” lo sentivi veramente sulla pelle, mentre s’avvicinava al pubblico impietrito da cotanta soave bellezza! Della Bohème altro non saprei narrare, son solo uno che scrive e spera di non importunare.

Vita bohémien nel quartiere latino

Durante l’inverno del 1892-1893, poco prima della première di Manon Lescaut, a Puccini venne l’idea di scrivere un’opera basata sul romanzo picaresco di Henry Murger Scènes de la vie de bohème. Questo progetto fece immediatamente nascere una controversia con Ruggero Leoncavallo che sosteneva di essere stato il primo a voler trattare l’argomento. Ciò provocò numerose dispute tra le loro rispettive case editrici, Sonzogno e Ricordi, così come tra i due giornali “Il Secolo” e il “Corriere della Sera”. Ciononostante Puccini portò avanti il suo progetto; in generale il lavoro su La Bohème procedette però lentamente, in parte anche perché lo stesso Puccini trascorse la maggior parte dei due anni seguenti all’estero per dirigere le rappresentazioni di Manon Lescaut in diverse città europee.

Come librettisti per la sua opera Puccini scelse Luigi Illica e Giuseppe Giacosa. Grazie anche al considerevole sostegno dell’amico Giacosa, nel giugno 1893 Illica aveva già finito di scrivere per l’opera una sceneggiatura in prosa che consisteva di quattro atti e cinque scene. Entro la fine di giugno lo stesso Giacosa ne aveva completato la versificazione, per presentarla poi sia a Puccini sia a Ricordi, che fiduciosi annunciarono alla “Gazzetta musicale” di Milano che il libretto era pronto per essere musicato. Questo annuncio si rivelò tuttavia piuttosto avventato: Giacosa venne infatti esortato a modificare alcune parti dell’opera. Per il librettista quest’ulteriore lavoro di revisione comportava uno sforzo alquanto pesante e fu per questo motivo che espresse il desiderio di abbandonare definitivamente il progetto. Alla fine Ricordi riuscì comunque a convincerlo a non demordere.

Finalmente Puccini iniziò a comporre anche la musica per La Bohème, lavorando a stretto contatto con i suoi librettisti. Nel corso della composizione sia questi ultimi che il compositore avanzarono diverse richieste di modifica di alcune scene dell’opera. Puccini insisteva nel voler eliminare una scena in cui Mimì lasciava Rodolfo per un ricco “Viscontino”, per tornare infine da lui soltanto nell’ultimo atto. I librettisti non erano d’accordo con lui, ma alla fine Illica decise di arrivare a un compromesso e propose una soluzione, e cioè di far aprire l’ultimo atto con una scena simile a quella dell’inizio dell’opera, ovvero con i quattro bohémien, invece che con una Mimì sul letto di morte. Puccini suggerì inoltre che la scena ambientata alla barriera d’Enfer, difficile da musicare, venisse sostituita con un altro episodio tratto dal romanzo di Murger, ma Illica si dimostrò contrario. A un certo punto fu poi lo stesso Illica a chiedere che la scena al Café Momus venisse eliminata, ma Puccini si rifiutò in difesa della sua originale rappresentazione del quartiere latino, nonché della scena di Musetta che era una sua invenzione personale. Puccini si fece coinvolgere in maniera così profonda nelle modifiche al libretto, tanto che Giuseppe Giacosa disperava che il compositore ne sarebbe mai stato soddisfatto.

Ultimata la partitura nel dicembre del 1895, si stabilì che la prima dell’opera avesse luogo al Teatro Regio di Torino, dal momento che gli spartiti di Ricordi non erano ovviamente accettati da Edoardo Sonzogno, l’editore che gestiva La Scala di Milano. Fu il Maestro Arturo Toscanini a dirigere la prima a Torino il 1° febbraio 1896.

Le prime reazioni del pubblico nei confronti di questa produzione furono piuttosto disparate: alcune parti dell’opera furono accolte positivamente, ma altre non ebbero grande successo. Ciononostante l’opera venne proposta in lungo e in largo e fu rappresentata in teatri come il Teatro Argentina a Roma e il Teatro Politeama Garibaldi a Palermo. Molte delle prime de La Bohème al di fuori dell’Italia vennero rappresentate in teatri più piccoli e nella lingua del paese. Nel 1898 l’opera venne rappresentata all’Opéra-Comique di Parigi con il titolo La vie de bohème.

Nel corso degli anni l’opera è divenuta una tra le preferite dal pubblico ed è ampiamente riconosciuta per il capolavoro che è in realtà: ogni volta la sua delicata storia d’amore e il finale straziante riescono a commuovere il pubblico. Tra le arie più famose de La Bohème ricordiamo l’aria di Rodolfo ‘Che gelida manina’ e il duetto tra Rodolfo e Mimì ‘O soave fanciulla’. Questi pezzi musicali sono ora tra i brani del repertorio lirico classico più eseguiti a livello internazionale. Con Tosca e Madama Butterfly, La Bohème rappresenta uno dei capisaldi del repertorio italiano: gli eventi organizzati in occasione del suo centenario nel febbraio del 1996 non hanno potuto che confermare la sua fama senza tempo.

Fonte: scheda dello spettacolo sul sito dell’Arena di Verona

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