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Scrittura

Il desiderio e la critica: il caso Susan Sontag

1.

“La nostra è una delle epoche in cui l’idea dell’interpretazione è generalmente reazionaria e soffocante. Come le esalazioni dell’automobile e dell’industria pesante inquinano l’atmosfera, così le emanazioni delle interpretazioni artistiche avvelenano oggi le nostre sensibilità. In una cultura dove il problema ormai endemico è l’ipertrofia dell’intelletto a scapito dell’energia e della capacità sessuale, l’interpretazione è la vendetta dell’intelletto sull’arte”[1]. Questi pensieri folgoranti si leggono in uno dei primi saggi importanti scritti da Susan Sontag (1933-2004) contenuto nel volume Contro l’interpretazione (1964). Affermazioni del genere sembrerebbero sottintendere la classica ritrosia dell’artista verso il mondo degli intellettuali, alla maniera di Walt Whitman o di H.D.Thoreau. Ma è proprio su questo punto che Sontag diverge in modo netto da una tradizione di scrittori naif e s’immerge, nei primi anni Sessanta, in una scena culturale molto diversa: il modernismo urbano, orientato verso la cultura europea, che prorompe sulle pagine della Paris Review, dove Sontag lascerà il suo indelebile “marchio di fabbrica”, ovvero quel suo stile costituito da una prosa limpida e militante, informata sui cambiamenti in atto e non priva di ironia, qualche volta graffiante.

Susan Sontag

Se prescindiamo dalla sua attività di scrittrice di romanzi e di pièce teatrali, la prima impressione che ricaviamo dai saggi di Sontag è quella di un palinsesto critico dove fluttuano nomi come Sartre, Tolstoj, Levi-Strauss, Artaud, Dostojevski e tanti altri. Si tratta di un disordine apparente. Risalendo a quel primo banco di prova che è Contro l’interpretazione, possiamo rilevare almeno i frammenti di un metodo, tutt’altro che astratto, basato sul predominio dell’opera d’arte sul pensiero, dunque un’impostazione estetica che non si lascia ridurre a schemi né a qualche ideologia. Il punto di crisi, secondo Sontag, deve essere identificato nell’attuale “cultura basata sull’eccesso, sulla sovrapproduzione, da cui consegue una costante diminuzione di acutezza della nostra esperienza sensoriale. Tutte le condizioni della vita moderna – la sua abbondanza materiale, il suo affollamento – congiurano a ottundere le nostre facoltà sensorie. Ed è dalle condizioni dei nostri sensi, delle nostre facoltà (e non di quelle di un’altra epoca) che deve essere determinato il compito del critico”. Pertanto, “ciò che oggi è importante è recuperare i nostri sensi. Dobbiamo imparare a vedere di più, a udire di più, a sentire di più”[2]. Ciò che impedisce quel “libero gioco delle facoltà” che sta alla base dell’esperienza estetica, per usare un’espressione kantiana, non è soltanto un overload informativo ma anche un certo modo di fare critica, specialmente in ambito letterario, che Sontag prende di mira nei suoi scritti militanti a favore di un’arte libera e progressista.

Si tratta della famosa coppia forma-contenuto, e del predominio di quest’ultimo sulla forma che caratterizza buona parte della critica americana negli anni in cui l’autrice getta le basi del suo lavoro teorico. Quella “ipertrofia dell’intelletto” denunciata nelle prime pagine di Contro l’interpretazione trova nella critica conservatrice una stabile dimora, e Sontag non si stanca di notarlo: “Questo filisteismo interpretativo è più diffuso in letteratura che in qualsiasi altra arte. Ormai da decenni i critici letterari hanno capito che il loro compito è quello di trasformare in qualcos’altro gli elementi della poesia, della commedia, del romanzo o del racconto”. Qualche volta, aggiunge Sontag, ciò accade con la complicità degli artisti: “Certe volte lo scrittore si trova così a disagio di fronte al nudo potere della sua arte da installare all’interno della propria opera (…) un’interpretazione chiara ed esplicita. Thomas Mann è uno di questi autori eccessivamente cooperanti. Quando deve invece affrontare autori più refrattari, il critico è ben felice di addossarsi questo compito”[3].

L’obiettivo di una nuova critica, comunque, non è quello di sottrarsi al gesto interpretativo quanto di costatare che “la vera arte ha la facoltà di innervosirci”, ovvero agisce sul sistema nervoso prima che sulle nostre categorie mentali, in particolar modo storiche. Se si deve dare un giudizio critico, questo momento dev’essere intensificato e non dissolto negli schemi consueti che indeboliscono l’effetto estetico.

Susan SontagDato che l’oggetto della critica è lo stile, Sontag affronta il problema stilistico in un saggio programmatico che si può considerare, forse, la matrice di altri studi monografici dedicati alla letteratura e alle arti visive. La questione dello stile, infatti, è cruciale: da un lato, lo stile permette di identificare l’opera d’arte, collocandola nella storia e in una cronologia. Ma dall’altra si rischia di vedere nello stile un fattore esterno applicabile ad un “contenuto” che costituisce, di fatto, l’oggetto del discorso critico. Viceversa, secondo Sontag occorre notare in primo luogo che “un’opera d’arte vista come opera d’arte è un’esperienza, non una dichiarazione né una risposta a una domanda. L’arte non è soltanto su qualcosa, ma è qualcosa. Un’opera d’arte è qualcosa che è nel mondo, non semplicemente un testo o un commento sul mondo”. Intenderla in quest’ultimo modo, significa dimenticare che “la conoscenza che riceviamo dall’arte è un’esperienza della forma, o stile, del conoscere qualcosa più che la conoscenza di qualcosa (un fatto o un giudizio morale, per esempio) in quanto tale”[4].

Non si tratta, secondo Sontag, di spiegare quale sia il modo giusto di guardare alle opere d’arte, ma di mirare al centro della questione, a quel pregiudizio che Sontag chiama “la vecchia confusione dell’Occidente sul rapporto tra arte e moralità, tra etica ed estetica”.

In altre parole, la fobia del contenuto, di ciò che vuol dire l’artista, non sarebbe che un modo per difendersi dall’arte riducendola ad una dichiarazione accettabile o inaccettabile, al limite mettendo in moto un meccanismo censorio: “Inevitabilmente i critici che vedono nelle opere d’arte delle dichiarazioni diffidano dello «stile», anche se a parole si proclamano favorevoli alla «immaginazione». Ma per loro di fatto l’immaginazione è la traduzione ipersensibile della «realtà». Ed è su questa realtà intrappolata nell’opera d’arte che continuano a concentrare l’attenzione, piuttosto che sulla misura in cui un’opera d’arte spinge lo spirito a certe trasformazioni”. È appena il caso di  sottolineare, a questo punto, l’impegno politico di queste affermazioni ed i suoi nessi con altre posizioni analoghe espresse nel mondo dell’arte, da Barthes a Milan Kundera, e più di recente Arundhati Roy.

Alain Robbe-Grillet

Bisogna dire, semmai, che nonostante neghi ogni statuto teorico al cosiddetto realismo Sontag si guarda bene dall’aderire al suo opposto, il formalismo spesso rivendicato dalle avanguardie – dal nouveau roman di Robbe-Grillet, per esempio, e dall’arte concettuale –, ma tenta di elaborare nei suoi scritti un intreccio dialettico di considerazioni sociologiche e storiche mai scisse dall’attenzione rivolta alle scelte formali, appunto.

La distinzione tra forma e contenuto è dichiarata come feticcio: l’imposizione di una separazione che consente di isolare l’arte nel suo regno che è poi il mercato dell’arte. Era la stessa posizione, in buona sostanza, di Walter Benjamin che, infatti, è citato da Sontag per il suo saggio sulle opere di Nikolàj Leskov[5].

2.

Saint Genet comédien et martyrLe critiche di Sontag non sono rivolte soltanto ai facili bersagli del passatismo, di sinistra o di destra che sia, ma anche a certi esempi di “degenerazione” critica particolarmente seducenti, come il libro che Sartre dedicò a Jean Genet. In questi casi, la generosità di Sontag e il suo sguardo addestrato alle sottigliezze del pensiero si fanno sentire e regalano al lettore una comprensione ben più ampia di certi affrettati giudizi della storiografia (basti vedere a che cosa è ridotto il profilo sartriano nei manuali universitari,  persino in buona parte delle monografie uscite in lingua italiana). Saint Genet comédien et martyr è un libro prolisso, fin troppo denso e appesantito dal gergo accademico, nota l’autrice, ma è anche “fitto di idee sbalorditive  e profonde”[6].

Interrogandosi sul motivo generatore di quest’opera affannosa e fluviale, priva di un centro così come di un metodo, Sontag attribuisce il potere meduseo del Saint Genet alla situazione particolare del suo autore, Sartre: “È un dilemma filosofico che spiega la lunghezza – e l’affanno – del libro. Ogni pensiero, e Sartre lo sa benissimo, universalizza. Ma Sartre vuole essere concreto. Vuole rivelare Genet, non soltanto esercitare la sua instancabile scioltezza intellettuale. Ma non può. La sua impresa è fondamentalmente irrealizzabile. Non può fermare il vero Genet; egli continua a scivolare nelle categorie del Trovatello, del Ladro, dell’Omosessuale, dell’Individuo lucido e libero, dello Scrittore. Confusamente Sartre lo intuisce ed è questo che lo tormenta. La lunghezza e il tono inesorabile di Saint Genet sono in realtà il prodotto di un’angoscia intellettuale”. In quest’analisi Sontag sembra rielaborare l’ironia racchiusa nel precedente libro di Sartre, dedicato alla figura di Baudelaire. In quel caso, era Sartre che metteva a nudo l’incapacità del poeta di aderire alla realtà, mentre qui è il filosofo ad apparire bloccato dalla sua nevrosi.

3.

Si può dire che l’ansia di smascherare le ideologie intellettuali ha alimentato il lavoro saggistico di Sontag anche nel caso di altri autori “minori” ma non meno importanti nel panorama del pensiero radicale europeo e americano, da Michel Leiris a William Burroughs, da Ionesco a Panofwski, da Simone Weil a Sade. Ma accanto a questo genere di scritti ve ne sono altri che hanno come oggetto di riflessione il cinema e la fotografia. Qui il tono del discorso si fa meno combattivo, forse, ma anche più interno alla forma estetica. D’altra parte, il cinema possiede un suo linguaggio, diverso da quello verbale, e questo aspetto poteva affascinare la scrittrice. Qualche differenza, piuttosto, si nota tra il modo in cui viene affrontato da Sontag il cinema d’autore (Bergman, Godard, Resnais, Bresson) e la pratica fotografica.

Il cinema appare a Sontag l’arte della modernità per eccellenza, non soltanto per le sue qualità formali (il linguaggio cinematografico appare un’entità autonoma capace di inglobare le altre arti) ma per la capacità che hanno i film di alimentare la memoria:

“I film conservano il passato, mentre i teatri- per quanto devoti ai classici, alle vecchie commedie- possono soltanto «modernizzarlo». I film risuscitano i morti; presentano intatti ambienti scomparsi o caduti in rovina. L’aroma storico di tutto ciò che viene registrato sulla celluloide è talmente intenso che quasi tutti i film che hanno più di due anni ci appaiono saturi di una specie di pathos”[7].

Susan Sontag

La fotografia, invece, pur essendo anch’essa un emblema della modernità, viene studiata da Sontag sotto due aspetti differenti: da un lato come tecnica artistica, dall’altro come pratica sociale di massa, ma è l’aspetto sociologico che viene privilegiato nella raccolta di saggi Sulla fotografia (1973). Alla luce di quanto Sontag ha poi scritto in alcuni articoli apparsi in Nello stesso tempo (2007), ci accorgiamo che il suo atteggiamento polemico nei confronti del fatto fotografico, inteso come atto predatorio e tendenzialmente omicida, non solo non è cambiato ma ha trovato qualche conferma nella storia politica dell’America, in particolar modo nello scandalo delle torture inflitte ai prigionieri di Abu Ghraib[8]. Lo sguardo storico è talmente legato agli sviluppi della fotografia, alla sua capacità di testimoniare l’orrore e le ingiustizie, che gli ultimi scritti di Sontag sull’argomento sono interamente dedicati al dolore di quest’acquisizione, spesso forzata, di ciò che non avremmo mai voluto vedere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note

[1] S. Sontag, Contro l’interpretazione, Oscar Mondadori, 1998: p. 27.
[2] S. Sontag, op.cit.: p. 36.
[3] S. Sontag, op.cit.: p. 28.
[4] S. Sontag, op.cit.: p. 46.
[5] W. Benjamin, Il narratore: riflessioni sulle opere di Nikolàj Leskov, in Angelus Novus, Einaudi, 1981.
[6] S. Sontag, op.cit.: p. 133.
[7] S. Sontag, op.cit.: p. 247.
[8] S. Sontag, Nello stesso tempo, Mondadori, 2007: p. 104.

Commenti

Un commento a “Il desiderio e la critica: il caso Susan Sontag”

  1. Susan Sontag non aveva una grande considerazione della critica a causa delluso esagerato di un intellettualismo che depriva l’opera d’arte dei suoi contenuti piu vibranti. Questo spingere verso l’alto a volte incomprensibile spesso diviene fine a se stesso, non crea una comunicazione al contrario si bea della distanza e del senso di superiorità volutamente cercato. A differenza di quanto avviene ne mondo dell’arte , dove l’artista vuole essenzialmente comunicare.

    La critica e specialmente quella molto cerebrale, si traduce facilmente in superbia e non certo in coinvolgimento. Susan Sontag reclamava le antiche qualità dell’arte che nella sua essenza era magica, incantatrice animistica e coinvolgente a differenza del crescente impoverimento di emozioni e vitalità aggravato dal lavoro di una certa critica vista dalla Sontag come una vampire incapace di creare esperienze ed emozioni emozioni di prima mano

    Di Antonella Iurilli Duhamel | 23 Ottobre 2011, 18:37

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