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Cinema

Tomboy. Innocenza e libertà dei jeux interdits

Locandina di TomboyTomboy situa se stesso alla confluenza di due importanti direttrici. La prima coincide con il prezioso fil rouge che da Zero in condotta di Jean Vigo al recente Tutti per uno di Romain Goupil, attraverso passanti fondamentali come I quattrocento colpi di François Truffaut e Zazie nel metrò di Louis Malle, percorre la storia del cinema francese, identificandosi con uno sguardo particolare sull’infanzia, detentrice di una fantasia genuina, di un’inquietudine ribelle, di una visione alternativa (e migliore) delle cose, dei fermenti di una salutare e spesso incompresa anarchia che la pongono in stridente contrasto con la società degli adulti, indolente, polverosa, grigia e repressiva. La seconda direttrice parte da più lontano e parla la lingua di una tradizione di stravaganze teatrali, firmate, in alcuni casi, da penne del calibro di Shakespeare o Marivaux, in cui, da La dodicesima notte al Trionfo dell’amore, l’impostura, l’equivoco sessuale, l’inganno identitario la fanno da padroni, con la differenza che, in Tomboy, l’agnizione non condurrà allo scioglimento del nodo drammaturgico con un ritorno all’ordine, ma rappresenterà, per la giovane protagonista, il momento di una sofferta decisione su di sé e sul proprio ruolo nel mondo.

Scena tratta da Tomboy 2

L’opera seconda di Céline Sciamma, sceneggiata dalla regista, è, in fondo, la storia di una ricerca di sé, al di là del significato convenzionale che viene attribuito a certe categorie e di ciò che gli altri si attendono da noi. Se la piccola Laure, dieci anni, appena trasferitasi nel nuovo quartiere, si spaccia per un maschio, dichiarando di chiamarsi Mickäel, non è soltanto per una sfida o per un esercizio di resistenza alla menzogna, né per sottrarre all’imbarazzo l’amichetta Lisa che l’ha scambiata per un bambino. Attraverso la finzione, Laure sta investigando la realtà del suo essere, non quella a cui il suo corpo di bambina la inchioda, ma una verità più remota e radicale, nascosta tra le pieghe del cuore e negli angoli dell’io, sfuggente e misteriosa, rintracciabile solo al prezzo di un paziente pedinamento. Se Laure-Mickäel si destreggia fra partite di calcio con i ragazzini del palazzo, zuffe da vero tomboy (in italiano, maschiaccio) e le bugie di cui imbottisce i genitori, complice, a un certo punto, anche la sorellina Jeanne, è perché la posta in gioco è alta: è l’autenticità esistenziale, che non accetta compromessi, che rima con libertà. Faro nella ricerca non può che essere l’amore, quel primo, impacciato e corrisposto amore per Lisa.

Scena tratta da Tomboy 3

Non esiste, purtroppo, una formula algebrica per calcolare quanto un cast di attori affiatati e persuasivi possa beneficare un film, ma, in questo caso, il calcolo sortirebbe di certo un risultato di cinque cifre almeno, una per ciascuno degli interpreti principali, che sarebbe ingrato ricordare parzialmente. Intorno a Zoé Héran, che a una fisicità straordinariamente androgina associa l’enigma di due occhi gravidi d’impalpabile mestizia, e che, da prodigio, si candida a diventare la nuova Brigitte Fossey del cinema d’oltralpe, gravitano volti e personalità che è un diletto osservare nella loro reciproca interazione. Mathieu Demy (figlio di Jacques e Agnès Varda) è un padre che non si lascia dimenticare, ma Sophie Cattani, madre travolta dall’onda anomala del comportamento inspiegabile della figlia, lo supera in virtus drammatica. La piccola Malonn Lévana calza come una pantofola da camera il personaggio strepitosamente bugiardo e irresistibile di Jeanne, mentre Jeanne Disson, grazie alla dimestichezza di un viso capace di distendersi in espressioni di luminosa felicità e di contrarsi nella durezza di un broncio impermeabile, registra, impeccabilmente, le sfumature e le fluttuazioni dell’umore di una Lisa ora innamorata, ora tradita.

Céline Sciamma

Céline Sciamma offre, naturalmente, un contributo basilare alla riuscita del film. Il tocco gentile della regista accompagna l’intera pellicola, articolata in primi piani, controcampi cadenzati, volti assorti, sguardi che s’intrecciano, silenzi e pause che suggeriscono la presenza, nell’aria, d’interrogativi inestirpati a cui l’autrice per prima si astiene dal dispensare risposte incontrovertibili o, peggio, consolatorie. Uno stile, quello della Sciamma, sufficientemente accorto e consapevole da non confondere il concetto di delicatezza con una buona cine-creanza calligrafica e leziosa. Alla regista non manca il coraggio di immagini scomode: il nudo integrale della Héran, esibizione di un corpo acerbo e ossuto, si allontana dall’iconografia edulcorata che l’immaginario comune lega ai bambini, così come le trasformazioni di Laure davanti allo specchio, compreso il rinforzo di plastilina introdotto nelle slip del costume da bagno, chiamano in causa un rapporto tra il bambino e la sessualità che può turbare. Tomboy è un film indipendente nei mezzi e nello spirito, orgoglioso della sua origine e provvisto di tutti i requisiti per diventare un caso cinematografico, come testimoniano i riconoscimenti già tributatigli, dal Teddy Award a Berlino ai premi della giuria e del pubblico al Glbt Film Festival di Torino.

Scena tratta da Tomboy 4

Svelato l’inganno, che ne sarà di Mickäel? E, soprattutto, che ne sarà di Laure? Chi può saperlo… Un dettaglio, tuttavia, reclama la nostra attenzione: l’inganno potrà anche dirsi svelato, ma a rimanere appeso all’albero e abbandonato nel bosco non è la “divisa” da maschio, bensì l’abito merlettato da bambina.

Titolo: Tomboy

Regia, soggetto e sceneggiatura: Céline Sciamma

Fotografia: Crystel Fournier

Montaggio: Julien Lacheray

Musiche: Para One

Produzione: Hold Up Films

Distribuzione: Teodora Film

Origine: Francia, 2011

Cast: Zoé Héran, Mathieu Demy, Sophie Cattani, Malonn Lévana, Jeanne Disson

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