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Cinema

Elogio della lentezza

Mille occhi per fermare un momento

Si dice, si legge, che siamo ormai, quasi tutti, destinati alla miopia. Il genere umano, pare, non guarda mai lontano abbastanza da lasciare all’apparato visivo ciò che, in potenza, sarebbe portato a fare, lanciare lo sguardo verso orizzonti lontani, scorgere pericoli o allettanti prede a centinaia di metri di distanza. Comprendere l’intorno così da non cadere in errore, saggiare lo spazio della terra e le stese delle acque per capire che cosa c’è davanti, e dietro. Non guardiamo più lontano abbastanza, dicono. Ci fermiamo a cortissimo raggio contro gli ostacoli del camminare lungo confini di muri, auto, corridoi, del sostare dentro ascensori, scatole di mattoni e cemento dove abitiamo o passiamo otto ore ogni giorno, confinati a una sedia e a venti centimetri da uno schermo luminoso, gli occhi a spaziare su 27 pollici di monitor che, al massimo, per molti, si trasformano in 40 la sera, a un paio di metri dal divano. L’occhio non viaggia e, quindi, non riflette. Affetti tutti da un nistagmo molesto, ininterrotto, su e giù da una tab all’altra, da uno status a uno stream fotografico, da una clip a uno spot, battiti di palpebre e memoria volatile. Privati del piacere perverso della costrizione al ricordo, di un nome, un numero, una frase o un verso. Condannati all’istantanea costruzione della conoscenza e all’eterna sua distruzione, in loop, per far spazio, ad intervalli infinitesimi, ad altre minuzie, a bocconi di notizie, a morsi di sapere. Il lusso della pausa diventa l’utopia mai raggiungibile, il fermarsi un suicidio sociale nella corsa ad essere già oltre, alla prossima tappa. Già al futuro senza aver vissuto il presente e senza aver cognizione del passato.

Davanti allo schermo

Alessandro Baricco nei suoi Barbari tesseva le lodi della nuova stirpe dei surfer dell’esistenza, della cultura, delle arti. E ci convince la sua analisi, quella di un’evoluzione che, a ben guardare, non ha nulla di diverso da altre evoluzioni già avvenute nel passato del genere umano, che per sua natura mette in crisi un establishment per imporne un altro, a dispetto di chi vi si oppone, difendendo schemi che, una volta adottati, prendono vita e tendono alla propria conservazione. Le élite che di tali schemi si appropriano, se ne fanno scudo contro la nascita e il rinnovamento, per scongiurare la propria inevitabile fine. Vista da qui, la nostra umanità miope e smemorata assume nuovo senso, diventa progresso opposto alla fissità del già noto, diventa movimento in contrasto alla stasi, creatività  di proiezione dei molti, in contrasto alle sicurezze acquisite e stagnanti dei pochi, che vi si aggrappano per non diventare obsoleti.

Ha convinto anche queste nostre Fucine, che si evolvono nei loro mezzi e nei ritmi, che continuano ad andare là dove non si è ancora andati per afferrare il senso di ciò che accade intorno. Questo nostro laboratorio, però, queste officine in cui l’incudine è sempre incandescente e i mantici continuano a soffiare, sono anche luoghi in cui al lavoro si alterna il riposo, alla frenesia la sospensione, al tempo scandito dal social e dal network la tregua della scrittura e dell’approfondimento. Lo stesso approfondimento che siamo andati a cercare, nel ventre caldo del Teatro Miela, in questo Festival dei 1000 Occhi, nella prima edizione che ci vede come media partner insieme ad altre testate. Non è un caso che Fucine Mute e i 1000 Occhi si attraggano, dato l’ampio spettro e riflessivo dell’evento, giunto quest’anno alla sua decima edizione. Che non di kermesse si tratti, ce lo ha confermato il direttore della rassegna, Sergio Grmek Germani, nella lunga intervista concessaci a un mese di distanza dall’ultima proiezione, quasi a scandire la sospensione del giudizio e la riflessione che ci interessava indagare, più di quanto non fossimo portati a documentare il quotidiano svolgersi dell’evento in presa diretta. Dentro e fuori la sala, ci siamo voluti fermare, per cogliere dentro i percorsi scelti un senso che fosse nostro, per guardare un orizzonte affrancandoci dalla miopia, per moltiplicare gli sguardi e rifletterci nelle immagini pensate e realizzate dai cineasti che nel programma di quest’anno si sono intrecciati.

I 1000 Occhi

Lo abbiamo fatto sfuggendo al metodo per trovare spazi di libertà, affidandoci a sensibilità diverse per cogliere spunti non irreggimentati. Claudia Pezzutti ha fermato per noi alcuni momenti, scelti fra mille altri, per raccontare il suo percorso dentro al festival che, per quanto sia solo uno dei viaggi possibili, ha il carattere di una personale scoperta e il tratto deciso di una visione unica. A Gianluca Gabrieli, perfetto neofita della rassegna, è stato chiesto di catapultarsi d’istinto su una sola delle proiezioni in programma, per recensirla in modo del tutto slegato da qualsiasi percorso, un esperimento di libertà possibile a qualsiasi spettatore, tanto quanto lo sono le pianificazioni di percorsi personali nei meandri dei mille rivoli offerti dal programma.

Quest’anno, quasi a voler esorcizzare i tempi di vacche magre che costringono la maggior parte dei festival cittadini ad una riduzione delle proposte, i Mille Occhi, festival internazionale del cinema e delle arti, ha presentato circa sessanta lungometraggi e una ventina fra mediometraggi e corti d’autore, incontri fra cineasti e pubblico nella venue della Stazione Rogers, che ha inoltre ospitato la mostra X: 1000. 10 anni di 1000 occhi, presentazioni di libri sul cinema e su alcuni fra gli innumerevoli artisti che il cinema hanno ispirato. Molteplicità di visioni a creare quella Vertigo che dà il titolo all’intera rassegna di quest’anno e che sembra in sé riunire il vortice creativo suscitato dall’intero decennio di proposte. Il premio Anno Uno di quest’anno è stato assegnato al documentarista Klaus Wildenhahn, artigiano indefesso che ha intagliato con lo scalpello della storia trame artistiche ancora troppo poco note. Nelle mani di Gisela Tuchtenhagen, camerawoman pioniera nell’immediato dopoguerra e a sua volta eccelsa documentarista, in rappresentanza del cineasta purtroppo assente, è stato consegnato uno specchio concavo realizzato da Stefano Coluccio, metafora perfetta di quel riflesso dentro che Wildenhahn è riuscito a convogliare nel suo cinema.

La porta del cielo di Vittorio De SicaLe convergenze parallele, termine che ben identifica le linee tracciate da ciascuna sezione che da ogni parte sfuggono per andare a creare dei percorsi inaspettati e in sé coerenti, si sono delineate attraverso la visione dei film italiani mai visti di Roberto Palma, Mario Bava, Vittorio Cottafavi, Ludovico Bragaglia, Giorgio Rivalta, Fernando Cerchio, Hugo Veronese e di quelli del “Viaggio in Italia 45/48”, con le punte di diamante de La porta del cielo di Vittorio De Sica (un cast stellare: Marina Berti, Maria Mercader, Massimo Girotti, Carlo Ninchi e lo stesso Cottafavi), Due lettere anonime di Mario Camerini, Vivere Ancora di  Nino Giannini e Leo Longanesi, sceneggiato da Ennio Flaiano e Steno, La vita ricomincia di Mario Mattoli, con una splendida Alida Valli. E poi attraverso le pellicole riunite sotto il titolo “Standard & Poor”, con ovvio richiamo ad una delle agenzie di rating più note al mondo, film che, sebbene realizzati nel ventennio Sessanta-Settanta, anticipano e spiegano le condizioni economiche, finanziarie e politiche dell’Italia di oggi: due su tutte, L’età del ferro e Anno Uno di Roberto Rossellini, occasioni di approfondimento e riflessione intensa e articolata, nonché pietre dello scandalo nel discorso cinematografico di quegli anni.

“Standard & Poor” ha poi tracciato, con I Fidanzati di Ermanno Olmi, Delitto d’amore di Comencini, I Prosseneti di Brunello Rondi, un percorso nell’intensa relazione fra vita e cinema, come ben ci ha sintetizzato Sergio Germani. C’è poi l’evento speciale della proiezione in anteprima mondiale della prima copia in 35 mm del capolavoro del regista sloveno Matjaž Klopčič, Trittico di Agata Schwarzkobler , la carrellata nel mondo dantesco dentro il quale ci accompagna il regista Marc Scialom, il suono e le visioni fuori dal coro di Senza Mostra e Festival di Jean-Claude Rousseau, l’osservarsi con gli occhi di telecamera, specchi e immagini filmate dell’attrice croata Jagoda Kaloper, il percorso nel noir tedesco della “Germania Anno Zero” curata da Olaf Möller, le incursioni nel sacro e sacrilego de “I Giullari di Dio”, con i Francesco di Rossellini e Cavani, i Gesù di Comencini e Celentano, i Centochiodi di Olmi.

I nove giorni del festival tutto questo hanno fermato, non solo sulle retine degli, ahimé, troppo pochi fruitori, ma certamente nella loro memoria, e proiettato i loro sguardi oltre quel miope orizzonte del mai andare a fondo, del restare a galla. Oltre che averli investiti con la vertigine della bellezza che il cinema riesce a creare, quei Riflessi in un occhio d’oro, a dirla con John Huston e Carson Mc Cullers, che, durante la settimana dal 16 al 24 settembre di quest’anno, hanno riverberato in sala qui a Trieste per il decimo anno di seguito.

Commenti

Un commento a “Elogio della lentezza”

  1. b.b. (brava bea)

    Di luigi | 9 Novembre 2011, 13:15

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