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Palcoscenico

Maria di Rohan e il buco nell’acqua

Dopo un’apertura trionfale con la messinscena di un titolo raro come Gemma di Vergy, la stagione lirica bergamasca prosegue con la proposta di un’altra opera donizettiana altrettanto desueta: Maria di Rohan, melodramma tragico in tre atti su libretto di Salvatore Cammarano. Andata in scena per la prima volta a Vienna il 5 giugno del 1842, l’opera approdò in Italia, al Regio di Parma, due anni dopo, e da quella rappresentazione andò in scena solo poche volte nei teatri della Penisola, comparendo a Bergamo nel 1957 e alla Scala nel 1969, per poi ricadere nell’oblio e riapparire a sorpresa quest’anno in questo Festival 2011.

Come per Gemma, così per Maria, c’è da chiedersi il motivo per cui capolavori simili siano stati brutalmente accantonati con il passare del tempo. Un’ipotesi è che si tratti di un titolo eccessivamente distante drammaturgicamente e musicalmente dal tradizionale Donizetti romantico che ritroviamo in una Lucia di Lammermoor piuttosto che in un Don Pasquale. Stiamo parlando di un’opera così moderna e vicina al modello verdiano da renderne quasi difficile l’attribuzione al Donizetti che tutti abbiamo in mente. Un’opera troppo fuori dagli schemi, forse, per comparire nel cartellone di una stagione lirica media.
Oggi, in via eccezionale, possiamo ascoltare ed apprezzare anche quest’insolito volto del compositore bergamasco grazie, ancora una volta, alle proposte innovative della Fondazione Donizetti, che non si smentirà nemmeno nella stagione del prossimo anno con l’inserimento in cartellone di Maria di Rudenz e Belisario, che affiancheranno una ben più nota Maria Stuarda.

Salvatore Cordella nel ruolo di Riccardo

Va in scena un Donizetti drammatico, essenziale e frenetico, assolutamente funzionale alla narrazione di una vicenda così intensa impregnata della tragicità della condizione umana: paure, angosce, amori, tradimenti e intrighi incastonati nel Seicento delle guerre di religione francesi, sotto il regno di un debole Luigi XIII e il governo di uno spietato Richelieu.
Maria, contessa di Rohan, è sposata con Enrico, duca di Chevreuse, ma i suoi sentimenti nei confronti di Riccardo, conte di Chalais, un tempo suo amante, non sono mutati. Il cardinale Richelieu ha emanato una legge secondo cui sarebbe spettata la pena di morte a chiunque fosse rimasto coinvolto in un duello. Enrico rischia per questo la condanna e Riccardo, pregato da Maria, intercede per lui affinché sia graziato, ancora inconsapevole del fatto che il duca sia suo rivale in amore. Una volta appreso ciò, il conte medita di sfidarlo, ma nel frattempo si trova coinvolto in un altro duello con il giovane Armando di Gondì, che aveva messo in dubbio la fedeltà di Maria. Temendo di rimanere ucciso, il conte decide di scriverle un’ultima lettera d’amore e la ripone in un cassetto. Egli sta per partire quando sopraggiunge la donna, che lo prega di non battersi. Compare anche Enrico che si offre di accompagnare il conte al duello in segno di riconoscenza, allontanandosi poco dopo. I due amanti, rimasti soli, si incontrano nuovamente, attardandosi a tal punto che Enrico, non vedendo arrivare l’amico, ha deciso di battersi al suo posto. Intanto Richelieu ordina che si perquisisca la casa del conte e, trovata la lettera d’amore nel cassetto, la fa immediatamente recapitare ad Enrico, che medita vendetta. Il duca, in collera, fa quindi chiamare la moglie e la affronta con sarcasmo finché giunge Riccardo, deciso a battersi con lui. I due si allontanano e Maria, rimasta sola, ode all’improvviso colpi d’arma da fuoco. Enrico ritorna sconvolto e racconta alla moglie che Riccardo si è ucciso per non cadere nelle mani del rivale. Pieno di rabbia, leva il dito accusatore verso Maria maledicendola e facendola cadere nella disperazione più totale.

Majella Cullagh nel ruolo di Maria

Nella visione del regista Roberto Recchia il personaggio di Richelieu, nonostante rimanga senza volto e senza battute per tutta la durata dell’opera, assume un ruolo chiave in quanto in esso si incarna il simbolo del Potere. Un protagonista occulto che trama contro Maria, Enrico e Riccardo spingendoli verso il loro tragico ed inevitabile destino con l’aiuto di un altro terribile alleato, il Tempo, che rapido e implacabile porterà ad una fine rovinosa. Quest’idea prende forma nell’allestimento scenico firmato da Angelo Sala, esteticamente discutibile ma per nulla scontato o tradizionalista. Al centro del palco prende posto una una sorta di buco nero, centro di un vortice liquido che di atto in atto inghiotte sedie e tavoli sparsi qua e là nella scena e il grande dipinto che si staglia sullo sfondo, raffigurante una galleria del Louvre. Si riprende dunque visivamente la distruzione progressiva dei tre protagonisti grazie ad un’efficace rappresentazione astratta, nella quale i riferimenti al quadro storico della vicenda vengono affidati limitatamente agli arredi domestici e ai ricchi costumi d’epoca.

Se possiamo ritenere l’idea registica attorno cui ruota tutto l’allestimento quantomeno interessante, non possiamo purtroppo lodare questa Rohan bergamasca dal punto di vista musicale.
Sul podio Gregory Kunde, dimostrazione che l’essere un grande tenore non implichi necessariamente essere un grande direttore d’orchestra. Certo si nota una spiccata sensibilità musicale maturata in anni di carriera canora; sono tuttavia visibili le difficoltà – dovute probabilmente ad inesperienza tecnica – nel coordinare buca e palco, lasciando i coristi perennemente allo sbaraglio e abbandonando talvolta a loro stessi persino i solisti.

Majella Cullagh (Maria), Marco Di Felice (Enrico) e Salvatore Cordella (Riccardo)

Tra questi da segnalare come eccellente la performance del baritono Marco Di Felice, che spicca sul resto del cast sfoggiando una voce dotata di bel timbro e grande volume, gestita con omogeneità e maestria. Più discontinua la prova della protagonista Majella Cullagh, non troppo disinvolta nei movimenti e vocalmente instabile soprattutto nel primo atto, che ha tuttavia saputo risollevarsi fino a mettere in mostra le sue innegabili qualità risolvendo con classe l’aria principale Havvi un Dio che in sua clemenza. Complessivamente sbiadito invece il Riccardo del tenore Salvatore Cordella, che ha sostituito all’ultimo momento il tenore georgiano Shalva Mukeria.

Tiepido il saluto del pubblico al calare del sipario, e si spiega: il giudizio dello spettatore sembra oscillare tra la voglia di lodare il buon lavoro svolto da Recchia e Sala e di criticare un direttore ed un cast che, con una sola eccezione, risulta essere mediocre. Assenti pesanti contestazioni, ma nemmeno si può riscontrare, purtroppo, particolare entusiasmo in sala.
Insomma, ci siamo ritrovati di fronte a un tentativo non pienamente riuscito di riportare in vita un’opera dalle mille potenzialità che merita di essere riproposta sulle scene odierne, a patto che ci si ricordi di renderle giustizia valorizzando le sue celate bellezze musicali.

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