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Percorsi

Paolo Rumiz

Gli itinerari delle radici

Incontro Paolo Rumiz un pomeriggio d’agosto del 2009, al Museo Revoltella a Trieste. Ho consegnato il mio zaino ai compagni di viaggio che mi aspettano in macchina. Partiremo subito dopo aver intervistato il soggetto della mia tesi. Prenderemo l’autostrada senza curve verso la più inflazionata meta falso-alternativa, il Salento. Rumiz invece è appena rientrato dall’ultimo viaggio, L’Italia sottosopra, un reportage Tra gli abissi del Bel Paese tra storie di terra, acqua e fuoco. Gli chiedo come è andata quest’ultima impresa che sta pubblicando a puntate su «La Repubblica», mi dice che non si tratta solo di vulcani e terremoti ma anche “diavolerie varie, tipo riti collegati con le profondità della terra, che alla fine diventa un viaggio dentro l’anima degli italiani e tutto quello che rimuovono”.

Paolo Rumiz - Foto di Giulio Favotto
Dopo questo primo incontro seguiranno altri due appuntamenti estivi, visite di cortesia presso la redazione de «Il Piccolo» in un ufficio pieno di mappe mute dell’Italia. Erano partiti i preparativi per il rito del viaggio: nel 2010 ripercorre la strada dei Mille garibaldini e nel 2011 parte a svelare le città fantasma d’Italia, entra nelle fabbriche abbandonate e nelle falle dismesse della memoria collettiva.
Rumiz cresce come giornalista dalla scuola più autentica, quella della conoscenza diretta e non filtrata: ci propone dei viaggi nei quali l’idea portante è proprio quella di svelare gli aspetti sconosciuti dei luoghi vicini, dimostrando come ciò che assumiamo come certo e sperimentato, sia di fatto una realtà dai molteplici aspetti.
Quello che distingue Rumiz dagli altri reporter contemporanei è la sua abilità di giornalista a prestarsi alla scrittura pur restando fedele all’asciuttezza, non si lascia corrompere dal superfluo, dal narcisismo proprio di chi scrive, al primo posto viene sempre l’urgenza di documentare la realtà.

Valentina Avoledo (VA): Trieste: la posizione della sua città come punto di partenza ideale.

Paolo Rumiz (PR): Pensando a Trieste bisogna focalizzare un elemento fondamentale: la frontiera, una linea oltre la quale il tuo spazio si ferma, un confine ove, fino a qualche anno fa, occorreva un passaporto. Oltre quel filo rosso, fin da bambino, c’era una frontiera dura, un altro regime, un’altra lingua, il fatto di avere questo mondo così vicino mi eccitava, mi faceva venire voglia di viaggiare proprio perché c’era un ostacolo. La frontiera ti spinge ad andare. La sera del mio sessantesimo compleanno, nel 2007, coincideva con l’abbattimento della frontiera tra Italia e Slovenia e decisi di festeggiare in una locanda nei pressi del confine che si può raggiungere solo a piedi. Moni Ovadia, che era invitato alla festa, mi disse che avrei sentito la mancanza della frontiera. E aveva ragione, sono contento che non ci sia più questo ostacolo, ma allo stesso tempo viene meno quel senso di proibito, l’idea che ci fosse una difficoltà mi entusiasmava, il viaggio cominciava in modo più intrigante. Così inventai un viaggio verso l’ultima frontiera d’Europa che va dal Baltico fino al mar Nero, e l’ho percorsa dalla Finlandia in giù: un’indigestione di dogane, polizia di frontiera, passaporti e rischi. Il punto di partenza è più la frontiera e meno Trieste come città abitata da genti diverse, oggi è una città molto più provinciale di quanto fosse un tempo, diciamo che i miei nonni erano molto più internazionali dei giovani di oggi, era una città che sentiva molto di più l’Europa rispetto alle generazioni successive.

Confine di Stato

VA: Nasce prima la passione per il viaggio o prima quella per la scrittura?

PR: Viaggiare e scrivere hanno sempre coinciso, ricordo che il primo grande libro che lessi fu alle elementari, il Diario di Bordo di Cristoforo Colombo, non so i miei compagni, ma io ero stregato, per cui l’idea che la scrittura fosse una specie di diario di bordo, cioè la registrazione delle tappe di uno spostamento mi ha colpito già all’età di sette/otto anni. Ero inquieto fin da piccolo, scappavo di casa perché la vita dei miei genitori mi pareva troppo sedentaria. Così ho proseguito nei miei spostamenti sempre avvicinandomi a delle letture che in un certo senso legittimassero questo mio impeto. Moby Dick è stato di certo un libro illuminante. Verso i vent’anni ho pubblicato il primo articolo per un giornale a seguito di un viaggio che intrapresi in macchina con quattro amici fino al Circolo Polare Artico. All’epoca, su «Il Piccolo», c’era una pagina dei giovani, iniziativa oggi improponibile. Cominciai a scrivere per il quotidiano della mia città dove allora collaboravano giovani che più tardi sarebbero diventati validi professionisti, due anni dopo venni assunto e ciò che faccio ora per «La Repubblica» si ricollega a ciò con cui avevo cominciato.

VA: Scrive ancora per «Il Piccolo»?

PR: Oramai lavoro per «La Repubblica», ma avendo base qui a Trieste a volte collaboro anche con «Il Piccolo». È molto stimolante scrivere nella propria città perché vedi subito i risultati, quando scrivi per un giornale locale e sei una firma, hai la possibilità di scrivere praticamente tutto ciò che vuoi, posso “togliermi tutti i sassi dalle scarpe”.

VA: Di certo le guerre balcaniche sono state un buon banco di prova per la sua carriera, è piuttosto raro per un giornale locale dare rilevo ad un evento internazionale di questa complessità.

PR: In effetti fu un caso abbastanza unico, ora non ci sono più gli eventi che facevano vendere copie, non c’è più la grossa storia che incentiva l’acquisto del giornale, sicuramente l’interesse per i Balcani è rimasto, qui siamo “mezzi-slavi”, guardiamo istintivamente quello che succede di là.

VA: La sua esperienza di reporter di guerra: lei ribadisce più volte la difficoltà di pervenire alla verità perché l’evento bellico era manipolato da mistificazioni mediatiche.

PR: È l’adrenalina della guerra che ti fa cadere nel tranello. Il sangue è, purtroppo, una tentazione. Se sei un cronista di guerra sei costretto a scrivere velocemente e ciò ti impedisce di riflettere. Il massacro di Timisoara fu “smascherato” solo in un secondo momento, io stesso ho seguito il flusso della disinformazione. Quando si vive in prima persona una guerra, per capirla fino in fondo è necessario mischiarsi con la gente, con gli oppressi, comprendere la loro sofferenza è l’unico modo per i cogliere i veri risvolti del conflitto.

VA: C’è un pubblico in particolare a cui sono rivolti i suoi reportage? Ha in mente un certo tipo di lettore quando scrive?

PR: È chiaro che non mi leggeranno e non mi avvicineranno mai persone che non sono compatibili con quello che dico. Quando ho intrapreso il viaggio de La secessione leggera ho cercato di capire la Lega Nord, ma non mi aspetto che i leghisti approvino quello che ho scritto. Sul giornale «La Padania» sono uscite due recensioni a quel libro, una che diceva, in sostanza “Finalmente uno che ci capisce!”, dopo di che, su richiesta di Bossi, hanno rettificato quella recensione sostituendola con un’altra decisamente poco generosa, ai leghisti, di fatto, seccava che gli avessi smontato il giocattolo. Ma questo è stato un episodio che tutto sommato mi ha fatto sorridere, quello che più mi rammarica invece, è che il libro era rivolto anche alle forze liberali, volevo comunicare loro che l’etnia non è una cosa inventata dal nazisti o dalla Lega, è una cosa che esiste e che non va sottovalutata, ebbene, questo messaggio è andato completamente perso. All’epoca mi scrisse Franceschini dimostrandomi tutta la sua approvazione, invece di sollevare la questione però, continua a lavorare su logiche di vertice. È evidente che il mio è stato un discorso decisamente inascoltato.

Paolo Rumiz

VA: Come nasce l’idea di un viaggio?

PR: A primavera sento il desiderio di muovermi, di rimettere in discussione tutto. Nessun viaggio si assomiglia, è un po’ il fascino dell’inquietudine che si rinnova, di sentirsi sempre stranieri nei posti in cui vai. Moni Ovadia mi recitò Ugo di San Vittore: “Chi trova dolce la propria patria è solo un tenero dilettante. Chi trova dolce ogni patria è già un uomo forte. Ma solo è perfetto colui che si sente straniero in qualsiasi posto”. L’anno scorso mi ruppi una gamba e fui costretto per un periodo a servirmi della sedia a rotelle: ho scoperto un’altra casa soltanto abbassandomi di mezzo metro, ero straniero dentro casa mia. Trovo che al giorno d’oggi l’uomo abbia la tendenza ad accontentarsi delle semplificazioni.

VA: Quali fattori o riti rientrano nella preparazione di un viaggio?

PR: Tutti i viaggi si dividono in varie fasi: il sogno, la preparazione, l’esecuzione, la scrittura e volendo anche il racconto orale. Qualunque viaggio ha proporzioni diverse di queste variabili, solo l’esecuzione è in qualche modo fissa, e cioè è incomparabilmente più facile di come immaginiamo. Nonostante tutta l’esperienza che ho, sono sempre un po’ preoccupato prima di partire, certe volte addirittura terrorizzato, pochi minuti dopo essere partito mi rendo conto che queste paure sono infondate, già uscendo di casa hai fatto il grosso e dunque il viaggio comincia a farsi da sé. La fase del sogno: è dove nasce veramente un viaggio, cioè lontano da una pianificazione appurata, anzi, direi che il viaggio perfetto è quello che si sogna soltanto e non si prepara per niente, quanto più un viaggio è preparato tanto più perde in spontaneità. Pianificare tempi e luoghi è un modo per mettersi in gabbia. Il sogno nasce soprattutto sulle mappe, che sono un veicolo indispensabile per sognare i viaggi molto più che a farli, ecco, sarebbe interessante decidere una meta e raggiungerla sbarazzandosi delle mappe, soltanto chiedendo la strada lungo il percorso. Un amico è partito da Monaco in Vespa e, sprovvisto di mappa, ha cominciato a chiedere la direzione per Roma già ai contadini bavaresi: un viaggio magnifico, ha commesso sbagli clamorosi, ha attraversato passi pazzeschi. Mi piacerebbe farlo un giorno, è ovvio che la meta dev’essere una capitale o un grande centro urbano. La fase della scrittura è anch’essa molto complicata e variabile, la difficoltà è proporzionale al tempo speso a preparare il viaggio, di solito avviene in un secondo momento, a viaggio concluso, sulla base degli appunti registrati. Il viaggio in bicicletta verso Istanbul, per esempio, l’ho scritto in sei giorni, quello con Paolini è stato massacrante a causa dell’aderenza obbligata alle tempistiche, l’assemblaggio di orari e chilometri, le letture di preparazione sulla letteratura ferroviaria, tutti fattori che hanno complicato la scrittura. Un viaggio la cui stesura sarà ostica comincia a delinearsi già durante il tragitto, quando si scopre che le tue conoscenze sono limitate, per cui, una volta a casa, è necessaria una fase di documentazione che trovi in qualche modo un’attestazione con le storie e i racconti che ti sono stati riferiti. Infine c’è il racconto orale, ma quella è un’attitudine che si acquisisce da vecchi. Il racconto di un viaggio non è destinato ai figli ma ai nipoti, l’esperienza ha avuto tutto il tempo di decantare per avere un’energia rinnovata che si riflette negli occhi di chi ascolta: una gratitudine impareggiabile che dà una seconda vita al viaggio.

VA: Quali sono gli autori che sono stati significativi per la sua carriera?

PR: Il già citato Melville, sicuramente Kapuściński, mi ha colpito la recente esperienza di Rory Stewart, che ha camminato da solo per seimila chilometri attraversando l’Iran, l’Afghanistan, il Pakistan, l’India e il Nepal. Senza dubbio La polvere del mondo di Nicolas Bouvier, una Bibbia per il viaggiatore.

VA: Qual è la condizione ideale per scrivere?

PR: A mio avviso esiste un bipolarismo perfetto tra lo scrivere e il cucinare. Quando devo approcciarmi a scrivere qualcosa di impegnativo, imposto contemporaneamente una ricetta lunga e complicata, sembra incredibile ma quando si è concentrati a scrivere e la pentola comincia a borbottare, quei sei/sette metri dalla propria postazione ai fornelli aiutano a riordinare le idee. Se si cucina per qualcuno che si ama il risultato dipende da qual sentimento, lo stesso vale per la scrittura: più si è spinti dal fervore di voler comunicare la passione, più la riuscita è garantita. Non credo all’isolamento per ottenere un buon componimento, ho sempre pensato che la vita e la quotidianità in sé siano utili per raggiungere un equilibrio tra l’interiorità e l’ambiente.

VA: Come sceglie i suoi compagni di viaggio?

PR: Premetto che per me un viaggio serio si compie da soli. Ho bisogno dei miei ritmi per captare i segreti di un luogo. Tranne L’Italia in seconda classe con Marco Paolini e Gerusalemme perduta con Monika Bulaj, ho sempre trovato dei compagni avventizi, talvolta anche incontrati per caso. Se sei con qualcuno sei meno libero, la solitudine rende ricettivi, permette di fare i conti con se stessi. Ci sono dei viaggi che devono essere fatti da soli, come per esempio un viaggio a piedi. Tre uomini in bicicletta invece doveva per forza essere fatto in compagnia perché era una vignetta continua, tre caratteri diversi unificati dall’andatura, quello è stato un viaggio anomalo perché non ho approfondito i luoghi, gli incontri, ma piuttosto mi sono concentrato a descrivere il rapporto che si è instaurato tra noi tre accomunati dalla fatica dell’impresa. È stato anche un viaggio molto facile da scrivere.

Una vignetta di Altan - Tre uomini in bicicletta

VA: Quale emozione o sensazione si rinnova ad ogni viaggio?

PR: Arrivare è sempre una delusione, innanzitutto perché il viaggio finisce, quindi si è invasi da una sorta di malinconia come quando si lascia una persona, gradualmente quindi assumi la cognizione che il fulcro del viaggio è l’andare e non l’arrivare, il problema comunque rimane sempre la costruzione di questo tragitto, se l’itinerario e i tempi sono decisi da altri è difficile affezionarsi a quel viaggio, bisogna sceglierselo, a costo di fare errori, a costo di prendere scorciatoie sbagliate, di farsi male o di fidarsi di ciò che si rivelerà un abbaglio clamoroso. Un viaggio scelto da te è una tua creatura, un tuo figlio, in certi casi può essere addirittura un padre o un fratello, un’opera lenta che ti accompagnerà tutta la vita. Aver incontrato certe persone e aver visto certi luoghi diventa inevitabilmente parte di te.

VA: Cosa spera di comunicare al lettore? Quale atteggiamento è fondamentale mantenere affinché un viaggio possa essere costruttivo?

PR: Viaggiando con la fotografa Monika Bulaj sono stato accanto ad una professionista dotata di una virtù che non ho trovato in nessun altro compagno di viaggio: ha una abilità ineguagliabile nell’avvicinare le persone, che è allo stesso tempo anche una capacità di farsi accettare. Ecco qual è lo spirito necessario del viaggiatore: perché il viaggio riesca è fondamentale mimetizzarsi con il contesto che si sta attraversando, se ci si trova in un paese islamico non si deve fingere di essere musulmano, ma guardare gli altri con rispetto e attenzione: quando un uomo si sente guardato con riverenza difficilmente sarà capace di farti del male e quasi sempre ti accoglie. Bisogna avvicinarsi ai luoghi e alle persone senza arroganza, in questo modo sarai accettato e, diventando parte di loro, ti trasformi in un insider, entri nelle loro case senza bisogno di fare domande ma solo ponendoti per quello che sei: vengo da…, sto facendo questo viaggio…; dare loro prima delle cose tue, delle informazioni su di te che saranno condizioni sufficienti per creare un rapporto e quindi dare un senso al viaggio.

VA: Lei insiste molto sulla lentezza come componete fondamentale per vivere appieno il viaggio, l’ansia dell’arrivo è oggi vissuta come scopo cardine dello spostamento, i suoi reportage sono utili anche per rieducare il viaggiatore moderno e incentivare un rallentamento consapevole.

PR: Il viaggio per me, e soprattutto dal punto di vista giornalistico, è il modo per attraversare la società a bassa velocità e a minimo consumo di energia. Già queste premesse semplificano il viaggio, perché la velocità e il consumo condannano a non capire e a finire verso lo scontro. Le cose però non si memorizzano andando veloci, più vai veloce, meno stai nella condizione di viaggiatore. C’è un’equazione, chiamiamola così, in cui credo fermamente, l’ha formulata il sociologo Ivan Illich, e dice che ad un mondo ad alta energia corrisponde un mondo a bassa comunicazione interpersonale. Basta pensare alle macchine veloci: gli uomini si allontanano perché sono chiusi nelle loro scatole e questo provoca, oltre all’assenza di un rapporto comunicativo, anche l’instaurazione di certe gerarchie. Credo che viaggiare sia un modo per applicare, all’inverso, questa equazione.

Rumiz e il treno - da vitedalibri.wordpress.com

VA: Ci sono delle situazioni particolari che ricorda si siano verificate in viaggio?

PR: Ricordo qualche tempo fa, in inverno, ero su una linea ferroviaria minore tra Brescia e Bergamo, eravamo fermi nella solita voragine di ritardi delle ferrovie, nevicava, gli scambi erano bloccati, la gente era innervosita, nello scompartimento c’erano stranieri, italiani, studenti, operai, signore, pendolari, insomma, un mix di passeggeri di ogni sorta, come spesso accade in treno. Ad un certo punto è mancata la luce, senza l’illuminazione è come se si fosse spenta la tensione ad avere fretta, abbiamo cominciato a ridere e scherzare, è stato sufficiente il buio per incentivare la comunicazione tra di noi. C’era come una felicità, è scesa tra noi un’allegria che è la dimostrazione della giustezza dell’equazione di Illich: se viene meno l’elettricità e quindi anche tutti i rumori connessi ad essa, aumenta la nostra predisposizione alla comunicazione, la penombra rende tutto più fascinoso, si moltiplicano le occasioni di contatto. Ecco cosa cerco viaggiando, riprodurre queste situazioni a bassa energia.

VA: Lei ha anche pubblicato su «La Repubblica» la sua esperienza ad impatto zero.

PR: Sì, ho cercato di vivere una settimana senza consumare, calcolando l’equivalente in anidride carbonica di ogni minimo atto. Ho misurato i chilometri in treno, il cibo consumato, i tempi di cottura, gli sciacquoni, e poi ho tirato le somme, è stato divertentissimo, non ho modificato troppo le mie abitudini, ho consumato metà della metà e la mia vita è cambiata. Sono diventato più sensibile all’insulto dello spreco. Non possiedo la macchina, uso anche raramente il motorino, preferisco la bicicletta, se serve prendo il treno e l’aereo solo quando me lo propone il giornale.

VA: Cos’è che si fatica a capire dell’est? Avremo sempre un atteggiamento di superiorità nei confronti dell’Oriente?

PR: L’Oriente è una direzione dell’anima che ci fa tornare alle origini a cercare le nostre radici come un salmone controcorrente. Quando vado verso est i vecchi mi ricordano mio nonno. L’Oriente ci spaventa perché siamo abituati a vedere in loro un ritorno alla povertà che cerchiamo di respingere, correndo ai ripari, allontanandoci dalla conoscenza di altre culture.
È solo rallentando però che accorceremo le distanze, concedendoci il lusso della lentezza saremo ricettivi ad accogliere delle ricchezze che ignoriamo.

VA: Qual è la lezione più importante che si sente di “impartire” a questo nostro mondo occidentale?

PR: Di viaggiare per parlare con le persone, perché l’anima di un territorio scompare quando viene meno il dialogo. Il viaggio è l’unico modo che conosco per capire l’empatia tra luoghi e persone, le difese cadono, ci si arrende alla strada, il viaggio si fa da solo, scatta come una provvidenza, si diventa fluidi e ci si accorge che alla fine nema problema.

Paolo Rumiz nasce il 20 dicembre 1947 a Trieste dove vive e lavora. A vent’anni comincia a collaborare per il quotidiano della sua città «Il Piccolo», viene assunto due anni più tardi e dal 1986 si occupa degli eventi dell’area balcanico-danubiana in qualità di inviato speciale.
I reportage di Rumiz non si spingono mai oltre il bacino mediterraneo o fuori dai confini europei, una scelta che serve a dimostrare come la nostra idea di diverso o straniero si basi sull’impreparazione delle nostre conoscenze storiche che portano ad obliare secoli di interazione pacifica tra le due culture. Per questo si è spesso messo nelle tracce di personaggi storici lungimiranti come Annibale o Garibaldi, concedendosi viaggi volutamente scomodi.
Ha vinto svariati riconoscimenti per i suoi servizi dalla Bosnia e il premio Max David nel 1994 come miglior inviato italiano dell’anno. Dal 2002 è editorialista per «La Repubblica». Quasi tradizionalmente, ogni anno compie un viaggio che pubblica a puntate sul quotidiano. I suoi reportage sono raccolti in tredici libri, La cotogna di Istanbul è l’unica eccezione poiché è una ballata in endecasillabi.

Si ringrazia Gianvittorio di vitedalibri.wordpress.com per la foto alla stazione dei treni.

Commenti

Un commento a “Gli itinerari delle radici”

  1. Vorrei approfittare di questo spazio per segnalarle una manifestazione pubblica che l’Ordine degli Ingegneri di Pesaro-Urbino sta organizzando sul tema del rischio terremoto nel nostro territorio. Vorremmo creare un momento di riflessione per la cittadinanza, che certi problemi li percepisce solo in caso di eventi calamitosi, quando è tardi per limitarne l’impatto sulla vita di ognuno. A tal proposito, stiamo cercando – ancora senza esito positivo – di contattare il giornalista e scrittorie Paolo Rumiz, per chiederne la collaborazione, prendendo spunto dai suoi viaggi che hanno attraversato i nostri appennini, proprio la parte più fragile della nostra provincia. Mi rivolgo pertanto a lei, nella speranza che possa far pervenire a Paolo Rumiz questo mio messaggio e che lui possa aderire alla nostra iniziativa. La ringrazio per la disponibilità e mi scuso per la libertà che mi sono preso di coinvolgerla nella nostra ricerca.

    Ing. Claudio Laganà
    Via Cavour, 41 – 61121 – Pesaro
    (ingedil2@libero.it – 3315474391)

    Di CLAUDIO LAGANA' | 7 Dicembre 2011, 09:08

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