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Cinema

Giorno quattro e cinque, sulle tracce dell’orso

Esserci o non esserci, questo è il dilemma. Se approfittare di ogni secondo della giornata per presenziare da qualche parte necessariamente tendendo all’ubiquo o lasciar scorrere e afferrare ciò che il caso propone, è questo l’assillo. Durante questa trasferta berlinese, non ci siamo mai decisi ed abbiamo seguito ora uno, ora l’altro impulso, aumentando l’entropia intorno a noi esponenzialmente, perdendo pezzi e riaggiustando in corso d’opera. S’impara facendo, dicono, e così ci aggrappiamo alla sensazione d’aver fatto tutto il possibile, ogni giorno, senza mai sentir soddisfazione.

Fady Elsayed, James Floyd in My Brother The Devil © Etienne Bol

La giornata inizia con la conferenza stampa di un film della sezione Panorama, My Brother the Devil, della regista inglese Sally El Hosaini, purtroppo deserta in modo imbarazzante. Probabilmente il film doveva essere in coincidenza con altre proiezioni stampa, dico probabilmente e dico altre perché delle proiezioni anticipate dedicate ai giornalisti dei quotidiani non se ne sa proprio nulla. Non sono elencate in programma come le altre e nemmeno vengono diffusi dei leaflet come si fa con le conferenze stampa. Diciamo che per avere il controllo su tutto e capire meglio come si muove e cosa pensa la comunità allargata del festival, anche attraverso cosa sceglie di vedere e dove decide di essere, bisogna essere connessi 24 ore su 24, avere l’app sullo smartphone, per così dire. Il film è ambientato a Londra e racconta la storia di due fratelli arabi, il più giovane dei quali idolatra il fratello che appartiene a una gang e spaccia droga nel quartiere di Hackney. Ci sono voluti cinque anni per realizzarlo, che per i ritmi odierni di produzione è un tempo infinito, e la contrattazione continua con le autorità e gli abitanti del quartiere. L’intento della regista era quello di allontanarsi dagli stereotipi dei film sugli arabi come terroristi  facendo un film sul rapporto fra due fratelli e sul diventare grandi combattendo l’esclusione sociale e l’omofobia.

Dopo un film così impegnato, ci diamo all’entertainment più puro con l’ultima fatica di Steven Soderbergh, Haywire, in cui vediamo in azione una spettacolare Gina Carano, agente segreto privato alle prese con i giochi di potere e gli intrighi dei suoi committenti e delle agenzie di governo. Sola contro tutti, la protagonista deve vedersela con parecchi maschietti decisi ad eliminarla, compreso persino il suo capo ed ex fidanzato, un Ewan McGregor freddo e calcolatore, che fa una fine orribile, come del resto quasi tutti i suoi oppositori. La Carano è una action woman con tanto di curriculum: famosissima in rete per i suoi video di arti marziali, ha una fisicità esplosiva anche sul grande schermo, a prova del fatto che non bisogna essere anoressiche per apparire splendide davanti alle telecamere, cosa peraltro comprovata dalla presenza scenica di uguale potenza della già citata Salma Hayek.

Gina Carano in Haywire Photo: Claudette Barius © 2011 Concorde Filmverleih GmbH

Soderbergh è accompagnato in conferenza stampa sia dalla Carano che da Antonio Banderas (nel film a capo di un’agenzia governativa che incarica la Carano di una importante missione di salvataggio a Barcellona) e da Michael Fassbender, il divo del momento, che nel film ha una piccola parte come l’uomo pagato per eliminare la Carano durante una missione fittizia. La lotta fra lui e la protagonista è una delle scene d’azione più ironiche e divertenti mai viste al cinema. Niente di nuovo nel fatto che sia studiata in modo da alludere all’atto sessuale fra i due, ma a differenza di tanti altri film soprattutto orientali, in cui l’accento viene messo sulla sensualità sottostante allo scontro fisico, qui il regista lavora sull’ironia e riesce a farci ridere di questo stesso stereotipo cinematografico. Fassbender muore soffocato dalla stretta delle cosce letali della Carano, in una posizione inequivocabile e con uno sguardo finale che è un capolavoro di asciutta comicità. Che Soderbergh sia un maestro si capisce dal fatto che la questo gioco sapiente non giri mai verso il grottesco. Certo, il regista è un cerebrale, non aspettiamoci mai di poterci emozionare come degli scolaretti guardando un suo film così come capita con Eastwood, per esempio. Ma possiamo dichiarare decisamente Soderbergh il mago dell’entertainment intelligente. Oltretutto, il film è davvero poco parlato e questo è qualcosa cui il regista ha voluto tendere. Dice di essere fiero di aver realizzato un film in cui ci sono almeno una quarantina di minuti in cui non si emette verbo. “Il cinema”, dice, “deve raccontare per immagini, altrimenti è un’altra cosa”. Nell’anno in cui probabilmente ci sarà una pioggia di Oscar al film muto di Michel Hazanavicious, The Artist, queste parole sono quanto di più attuale possa esserci. Gina Carano è anche lei di pochissime parole. Il che, essendo donna d’azione, le rende massimo onore. Fassbender e Banderas si rimpallano battute, pure se la battaglia fra istrioni è vinta facilmente dal bell’Antonio, cui però suggeriremmo di abbronzarsi un po’ meno. Certamente, la voce di Banderas, anche quando si produce in una risposta a un giornalista con la voce del gatto con gli stivali, è una delle meraviglie della natura, mentre Michael ha una vocina piccola e nasale che non rende giustizia alla sua presenza scenica. Uno dei pochi casi in cui siamo felici di aver visto Shame doppiato in italiano. Dobbiamo dire che la sequenza dell’inseguimento durante il recupero dell’ostaggio a Barcellona è fra le migliori mai viste per quel che ci riguarda: tenere il respiro per mezz’ora incapaci di rilassarsi sulla poltrona e sentirsi “dentro” la scena, inseguiti o inseguitori a seconda dei casi, sui tetti e fra i vicoli della città, ecco il risultato del lavoro di Soderbergh. Al cinema ci andiamo per questo, dopo tutto.

Green Island Serenade by Hou Chi-Jan - 10 + 10

Ci avviamo poi alla visione di un film taiwanese della sezione Panorama, ispirati dal titolo e dalla sinossi. 10 + 10 riunisce appunto venti cortometraggi di cinque minuti ciascuno di altrettanti autori di Taiwan che, ognuno a suo modo, hanno scelto come raccontare la loro patria, con il coordinamento del decano Hou Hsiao Hsien, il cui contributo, La Belle Époque, è uno dei più riusciti. Fra questi piccoli spaccati ce ne sono alcuni memorabili: Hippocamp Hair Salon, per esempio, di Chen Yu-Hsun, racconta di un parrucchiere in grado di lavar via i brutti ricordi dalle teste dei clienti, con risultati spettacolari; The Singing Boy, Yang Ya-Che, si concentra sulla pratica tuttora esistente delle punizioni corporali nelle scuole, vista attraverso gli occhi di un alunno molto particolare; Old Man and Me, di Cheng Weng-Tang, racconta in modo poetico la storia vera di un anziano affetto da demenza senile che si perde e viene cercato da tutti gli abitanti del suo villaggio; Destined Eruption, di Wang Shaudi, ci mostra le vicende di una cineasta perseguitata da uno stalker e della provvidenziale eruzione di un vulcano che la salva da quest’ultimo proprio quando lui è riuscito finalmente a braccarla. Il migliore è senz’altro Unwritten Rules, di Cheng Yu-Chieh, spaccato dell’arrivo in location di una troupe cinematografica alle prese con un imprevisto che potrebbe causare problemi di ordine politico e mettere in pericolo la riuscita delle riprese.

Intanto, il toto-orso è già cominciato. I giornalisti s’incontrano ai vari angoli delle sale stampa, nelle code al ticket counter, nelle toilette mentre s’imbellettano o lottano con le zip di giacche e giacconi, e non fanno che chiedersi l’un l’altro: “Tu che pensi? Chi vincerà?”. Si tende a dimenticare, mentre si sprofonda nel rosso delle poltrone in sala, che un festival è alla fine questo, un concorso, e che sebbene si tratti di un pretesto (i fatti veri si svolgono intanto al Martin Gropius Bau, dove ha luogo il mercato) questa è la parte divertente, cercare di capire a chi piacerà cosa, se vinceranno le tendenze al raccontare il sociale del Presidente della giuria di quest’anno, Mike Leigh, oppure le derive estetizzanti di Anton Corbijn, le scelte art-house di François Ozon, Charlotte Gainsbourg e Barbara Sukova o la visione hollywoodiana di Jake Gyllenhaal. Sono dati per favoriti finora il film dei fratelli Taviani, Cesare deve Morire, e il tedesco Barbara di Christian Petzold, ma si parla anche di Captive di Brillante Mendoza, dell’ungherese Csak a Szél (Just the Wind) di Bence Filegauf, storia del massacro di alcune famiglie di origine rom tratto da una storia realmente accaduta. In pole position anche Gnade (Mercy), altro film tedesco per la regia di Matthias Glasner, drammone della coscienza con una splendida ambientazione norvegese e L’enfant d’en Haut (Sister) di Ursula Meier, storia intimista di un bambino che cerca di venire a patti con gli affetti e l’affacciarsi alla vita e adattarsi ad un mondo per lui incomprensibile. Non si dà purtroppo alcuna possibilità al nostro preferito, invece, Jayne Mansfield’s Car di Billy Bob Thornton, forse troppo “occidentale” per l’Orso d’oro.

Mads Mikkelsen, Alicia Vikander in A Royal Affair © Jiri Hanzl

Oltre al citato Just the Wind e a Mercy, che ha davvero un’ottima regia ma che ci sembra avere troppe pecche di sceneggiatura che ne inficiano la compattezza, il giovedì è la giornata del primo film storico in costume, il danese En Kongelig Affære (A Royal Affair), girato da Nikolaj Arcel grazie a una coproduzione danese-ceca-svedese-tedesca e un sostegno sia economico che di sceneggiatura da parte di Lars Von Trier. Il film segue le lotte di potere all’alba dell’era illuminista in una Danimarca ancorata al vecchio regime di monarchia assoluta in cui i potenti del Consiglio di Stato rivaleggiano con una monarchia illuminata per quanto esposta ad influenze di ogni tipo, data l’instabilità mentale del regnante Christian VII. Le idee illuministe vengono introdotte dall’alleanza fra la regina Caroline Mathilde e il medico di Corte, Johann Struensee, entrato nelle grazie del re e diventato in breve il motore delle riforme introdotte in quel periodo dal regnante in contrasto con i voleri degli aristocratici componenti il Consiglio di governo. La storia si dipana fra politico e personale, con l’amore fra Struensee e la regina che, a lungo andare, causa il tracollo della tendenza progressista propugnata dai due e con la rivalsa delle tradizioni dell’aristocrazia conservatrice. Il film è molto riuscito nelle atmosfere e l’attore che interpreta il re – insicuro, orgoglioso, insoddisfatto, crudele o infantilmente buono, debole ed influenzabile ma capace di profondo amore –, Mikkel Boe Følsgaard, meriterebbe decisamente un premio per la sua magistrale interpretazione, che gli ha permesso di indagare più sfumature rispetto al suo contraltare, il più famoso protagonista Mads Mikkelsen, il cui personaggio appare più granitico e meno stratificato. Bellissima e brava anche la protagonista femminile, Alicia Vikander, svedese di nascita che ha dovuto anche imparare il danese in pochi mesi per la parte e che veste benissimo gli stupendi costumi creati da Manon Rasmussen.

Nella sezione Panorama Special, veniamo a Cherry, opera prima di Stephen Elliott che ne ha scritto la sceneggiatura insieme a Lorelei Lee. Parte della carriera di entrambi è stata nell’ambito della industria del porno nella città di San Francisco ed Elliott ha scelto di raccontare fuori dagli stereotipi la storia di una ragazza che sceglie di lavorare nel porno non perché fugga da storie familiari particolarmente devastate o perché disperata, ma che arriva in quell’ambiente per curiosità, voglia di guadagnare e per esplorare altri aspetti della sua sessualità. La protagonista Ashley Hinshaw è perfetta nella parte, l’aria innocente che ben si presta a convivere con una naturale sensualità le fa bucare lo schermo. Il film si pregia di un cast eccezionale: Heather Graham nella parte della regista che aiuta Cherry a cominciare la sua carriera negli studios del porno; James Franco, un avvocato cocainomane che per un periodo la ragazza frequenta e che si permette comunque di disprezzarla in nome di convenzioni maschiliste e stantie; Def Patel (il protagonista di Slumdog Millionaire di Danny Boyle), l’amico fraterno con cui Cherry si allontana da casa e divide una stanza a San Francisco, che è naturalmente innamorato di lei senza alcuna speranza. Alla Hinshaw tocca in sorte una delle migliori battute mai sentite nel cinema: in una scena in cui sorprende l’amico a masturbarsi guardando un video che la vede protagonista, lei gli chiede se lui la ama e, quando lui non risponde, gli dice: “Certo, mi ami, ma non abbastanza da farti una sega su qualcun’altra”.

Charlize Theron, Patton Oswalt in Young Adult Ph. Phillip V. Caruso

L’ultimo film della giornata è l’ultima fatica di quel Jason Reitman che ci ha regalato Thank you for Smoking e Juno. Come nel caso di quest’ultimo film, la sceneggiatura di Young Adult è di nuovo ad opera di Diablo Cody, che mette Charlize Theron nei panni di una ex beauty queen del liceo di Mercury, nella profonda provincia di Minneapolis, piegata da un recente divorzio e in preda ad una non diagnosticata depressione, che cerca di riconnettersi con se stessa riconquistando un vecchio amore dei tempi del liceo, nonostante il fatto che questi sia felicemente sposato e sia appena diventato papà. Torna perciò nella cittadina d’origine con questo piano in mente e, sostenuta e contrastata al tempo stesso da un altro ex compagno di scuola, un outsider la cui vita è stata cambiata da un pestaggio da parte dei suoi stessi compagni di scuola che lo tacciavano di omosessualità, un Patton Oswald veramente bravissimo (già notato nella serie televisiva United States of Tara al fianco di Toni Collette). Essendo una storia di Diablo Cody, l’intreccio non scade mai nel conforme, il viaggio di Mavis, la protagonista, al fondo delle sue paure e della sua inadeguatezza non trova mai soluzione consolatoria e la storia, divertentissima e al tempo disperante, si conclude con un happy ending fuori dalle regole. Vale la pena essersi catapultati nella notte verso un lontanissimo Haus der Berliner Festspiele e affrontare un viaggio di ritorno sotto la pioggia battente per vedere questo piccolo capolavoro.

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