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Cinema

Giorno zero, nella fossa degli orsi

Berlino - Foto di Beatrice BiggioLa felicità è vedere il respiro materializzarsi a nuvoletta davanti alla tua faccia. Berlino, è così che mi accoglie, diaccia e bianca sotto una neve vecchia di almeno due o tre giorni, un ghiaccio che scalda, dopo le sferzate rancorose dell’ultima bora cittadina. Cose che si dimenticano quando si torna a Berlino: questa è una metropoli, nonostante la flemma di chi ci abita, nonostante si mangi spendendo meno che in un Paese in via di sviluppo, nonostante l’aria del chissenefrega che pervade tutto. Che è una metropoli tocca ricordarlo specie in occasioni come questa. Non siamo al Lido di Venezia, dove a portata di minuti ti si apre ogni sala esistente, né a Locarno, dove la distanza massima è facilmente coperta da navette sintonizzate con lo spettatore nervoso e le proiezioni ravvicinate. Qui c’è da tener conto di veri e propri tempi di trasferimento, viaggi della speranza che non mangino via il prezioso minuto e mezzo che sta fra te e il prossimo film e che, se perso, decreta la proverbiale porta in faccia. Oltretutto per un film che già ti sarà costato una fila di lunghezza variabile, diciamo fra una coda in bagno in discoteca e un due giri e mezzo d’isolato. Un pass stampa è quello che è, del resto. Una poltrona di tutto rispetto per alcune proiezioni selezionate e relative conferenze stampa. Esattamente per tre, forse quattro film al giorno. Il resto, va sudato e afferrato a morsi lottando con i tuoi pari, e la vinca chi la dura. Il berlinese, infatti, va al cinema, ci va in particolar modo durante il festival. E il festival è, ancora, dedicato agli spettatori, piuttosto che ai giornalisti o a chi il cinema lo fa. Ecco perché per accedere alla maggior parte dei film è necessario procurarsi un biglietto, guadagnarselo svegliandosi presto o facendo scelte meno scontate perché forse meno apparentemente accattivanti. Ci siamo, quindi. Il reporter impreparato messo di fronte alla propria pochezza fra i tentacoli della sterminata fossa degli orsi gialli in campo rosso. O rossi in campo giallo. O verdi, o rosa pastello. La grafica della sessantaduesima edizione dell’Internationale Filmfestspiele ha preso l’orso e l’ha spruzzato di tanti colori quante sono le sezioni: rosso per la competizione, giallo per il Panorama, viola per il Forum, Blu per la Perspektive Deutsches Kino, grigio per le sezioni fuori competizione e gli eventi speciali, rosa per i corti, azzurro per la Generation, i film sull’infanzia e la giovane età, verde per le retrospettive e il premio alla carriera, fucsia per gli eventi del Talent Campus. Gli orsi compaiono ad ogni angolo della città, naturalmente, di legno, di ferro, in carne ed ossa e costumi panciuti. E sugli schermi prima di ogni proiezione, quest’anno in un tripudio di scintille in cascata da un fuoco d’artificio tutto d’oro, l’orso si tratteggia per un attimo soltanto, per poi andare a formare il nome del festival. Non eccessivamente nuova, l’idea, ma solida. Come quasi tutto in questo sprazzo di mondo, del resto. L’organizzazione, non serve ribadirlo, è oliata dal tempo, dall’esperienza e da una granitica sostanza fatta di meccanismi rodati. Come ogni complesso ingranaggio, però, ci sono angoli nascosti alla vista e trascurati, camere scure dove si capita solo per caso, luoghi dove l’umana imperfezione regna indisturbata. I neofiti sono i perfetti visitatori di queste stanze, dove le pecche affiorano immediate ai loro occhi disabituati alla routine. Come in ogni kermesse di questa portata, Berlino accoglie puntualmente ogni anno un numero di aficionados, quei quasi residenti ogni santa seconda settimana di febbraio da che si ricorda, i quali inseriscono il pilota automatico appena atterrati a Tegel o Schönefeld e si muovono nel fiume sempre identico dei loro immanenti ricordi: si mettono in fila nei posti giusti, conoscono i cinema poltrona per poltrona, sanno dove si va a bere e tirar tardi e dove a gustare i pasti migliori ai prezzi più convenienti.

La locandina della 62. edizione della BerlinaleIl nuovo arrivato ha un impatto che può andare dal traumatico allo scioccante. Pensa che ritirare un badge significhi uno spiegone sull’universo mondo del festival e dei diritti e doveri della stampa in loco. Niente di più lontano dalla realtà. Forse già provati da due giorni di dettagliate spiegazioni e dall’ora tarda secondo gli schemi teutonici, gli addetti alle consegne accrediti sono, alle sette di sera, ora in cui la malcapitata reporter giunge finalmente a Potsdamer Platz dopo aver rintracciato il proprio alloggio e viaggiato per un’altra ora nelle viscere della città, stanchi e spenti, come minimo disattenti e poco inclini alla chiacchiera. Qualcuno non parla nemmeno inglese e si affretta a scaricare la questuante a colleghi già impegnati su altri fronti. Insomma, si scopre subito che il pass non è garanzia di accesso in sala al di fuori delle proiezioni dedicate alla stampa, selezionate e quindi non includenti tutti i film in scaletta. Del resto, sarebbe impossibile, a pensarci bene, data l’enorme quantità di screenings – i film in programma sono 400 e le repliche non contabili. Perciò si capisce a spizzichi e con notizie dilazionate nell’arco di due giorni interi, che s’ha da studiare per programmarsi la giornata, studiare sul serio, incastrando al meglio ciò che si può, si deve e si vuole vedere, raschiando i tempi già mangiati via in partenza dagli spostamenti necessari fra una location e l’altra, una quindicina sparse per tutte le latitudini in un’area che è certo centrale, ma che si estende in termini di fermate di U o S-bahn inaffrontabile per garantire l’accesso a film contigui, a conferenze stampa, a eventi vari. Il troppo di tutto che può immobilizzare in una sindrome di Stendhal fatale, dato che i minuti continuano a scorrere, soprattutto mentre si pensa a come muoversi, a come gestire il tutto. Vagare guardandosi intorno per cogliere l’attimo di ogni cosa, com’è d’uopo fare per vivere degnamente l’atmosfera di qualsiasi luogo, può significare sbagliare un incrocio o perdere una coincidenza, e il film per il cui biglietto hai dovuto sgomitare il giorno prima. Sì, perché è allora che per i biglietti si combatte, possibilmente nelle prime ore della mattinata, oppure bisogna rassegnarsi a prendere quello che rimane. Non serve dirlo, ci si adegua a quest’ultima opzione, per puro spirito di contraddizione o soltanto per ribellarsi al meccanismo imposto. A volte conviene persino infrangere alcune delle regole basilari del buon giornalista cinematografico, ovvero andare in conferenza stampa senza aver prima visto il film, condannandosi a non fare domande ma racimolando più notizie possibili e cogliendo le vibes dai protagonisti in vivo, piuttosto che mancare questa occasione perché non si è riusciti ad avere un biglietto proprio per quello screening o ad arrivare in tempo alla proiezione stampa.

Cose che ci siamo persi e non riusciremo probabilmente a recuperare: il film da regista di Angelina Jolie, In the Land of Blood and Honey, programmato nei primi due giorni e senza altre repliche, che ha causato già molte polemiche in terra balcanica per come è stato trattato il tema della guerra in Bosnia e delle divisioni etniche da un punto di vista necessariamente estraneo; il primo film in competizione, Les adieux à la reine di Benoit Jacquot, ennesimo biopic su Maria Antonietta, pare non epocale, il film in concorso dei fratelli Taviani, Cesare deve morire, il quasi-documentario sulla realizzazione di un Giulio Cesare molto particolare fra le mura di Rebibbia; il film in gara Barbara, di Christian Petzold, con una fenomenale Nina Hoss, dato come possibile candidato all’orso d’oro.

Berlinale Palast - Foto di Beatrice BiggioIl primo weekend del festival è funestato da mille piccoli contrattempi, oltre a soffrire dell’impreparazione del soldato alla tenzone: per capire è necessario sbagliare e questo soldatino di errori ne commette parecchi, compreso quello di rimuovere il fatto che in Germania le prese elettriche non sono esattamente uguali a quelle italiane. Cercare un adattatore durante il fine settimana o presumere che l’organizzazione ne sia adeguatamente dotata nella certezza dell’arrivo di svariate migliaia di giornalisti stranieri (4000, si dice, quest’anno) si rivelerà pura utopia. Con l’ovvia conseguenza della ritardatissima partenza di un reportage che si prometteva sarebbe stato quotidiano. Il colosso delle vendite dell’elettronica Saturn, in Alexander Platz, ci salva dalla completa disfatta consentendo l’acquisto di un comodo adattatore universale, che non lascerà più il suo posto in valigia, e la conseguente ricarica della povera batteria del portatile, ormai completamente succhiata dalla programmazione dell’agenda quotidiana. Paradossalmente la connessione wi-fi non è disponibile gratuitamente all’Hotel Hyatt, dove ha sede il Centro Stampa. Lì, bisogna pagarla. Si può avere gratuitamente solo al Berlinale Palast, in un’area assolutamente inadatta al lavoro, vuoi per il freddo glaciale che vi regna, vuoi per i tavoli, pochi e troppo bassi e le poltroncine, poche e troppo basse anche loro. La sala stampa attrezzata con i computer sarebbe anche frequentabile, se non fosse che le tastiere sono ovviamente quelle tedesche e, seppure sia possibile convertirle, per chi non ricorda esattamente la posizione di ogni singolo simbolo a memoria, l’impresa di scrivere un pezzo inserendo lettere accentate dal menù dei simboli ad ogni pie’ sospinto è cosa impensabile. Non avendo potuto fare la coda per i biglietti odierni, ci accingiamo perciò a vedere l’unica proiezione stampa ancora accessibile a quest’ora tarda, I, Anna, di Barnaby Southcombe, nella sezione Berlinale Special. Il film è in concorso fra le opere prime, ed annovera nel cast un mostro sacro come Charlotte Rampling, di cui il regista è figlio, un Gabriel Byrne in stato di grazia e nientepopodimeno che un cameo di Honor Blackman, la mitica Pussy Galore. Il film mostra una Londra grigia e quasi asettica, lontana dall’immagine stereotipata della capitale del turismo che tutti conosciamo, con i suoi autobus rossi e taxi neri e parchi verdi, una città di architetture squadrate e asettiche, claustrofobiche in ogni caso, che si tratti delle council house in zona Barbican o del mini appartamento stile Chelsea in cui vive la protagonista. Londra fa da spalla ai personaggi in questo noir con risvolti psicologici, con una parte, tagliata addosso alla Rampling, di eroina maledetta che fa innamorare il tutore della legge Byrne, devastato da un divorzio in corso. La tragedia incombe, ma il film non decolla nonostante l’abbondanza di talento e una discreta regia. La Rampling è bravissima, ma forse si spende troppo in questo progetto così familiare. Lei al solito così contenuta ci è sembrata troppo caricata nella follia del dolore che la costringe a gesti disperati. Il film è stato cucito addosso alla protagonista e a Gabriel Byrne, dichiara il regista che ha sceneggiato un romanzo di Elsa Lewin ambientato invece a New York. La Rampling è comunque splendida, con quelle gambe che, anche nel film, sono di continuo inseguite dalla telecamera o dagli occhi del protagonista. L’unica scena in cui vediamo Honor Blackman istruire la gelida Rampling alle tecniche sessuali più consone alle donne di una certa età, è memorabile. Il tempo di un ultimo tentativo di avviare il pc quasi scarico per mandare notizie in redazione da uno Starbucks pieno come un uovo e con una connessione (gratis, questo sì) pessima, e si ritorna sui propri passi verso casa, dodici o quindici fermate più in là, e poi a piedi, nella neve, lungo una Spree ghiacciata in superficie.

Commenti

Un commento a “Giorno zero, nella fossa degli orsi”

  1. Fantastico start, veloce e avvincente.Grande .Ciao

    Di cristiano | 20 Febbraio 2012, 09:50

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