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Scrittura

Nel segno dell’ambiguità. André Breton e il documento freudiano

André BretonLa scelta di avviare una riflessione sui rapporti tra psicanalisi e letteratura partendo da uno scrittore come André Breton, ben poco letto al di fuori di una certa storia del movimento surrealista, si può motivare sulla base delle insufficienze della prosa italiana nella misura in cui ha avuto l’ambizione di fare i conti con il pensiero di Freud. Riassumendo in una parola ciò che accomuna opere come La cognizione del dolore (Gadda), Agostino (Moravia) o La coscienza di Zeno (Svevo), si può dire che si è trattato sempre di una scelta originata all’interno di una certa istanza “realista” che non smentisce l’identità letteraria del testo, non porta ad una sua ridefinizione in quanto tale. Per quanto interessanti possano essere, nessuno di questi romanzi appare compromesso nella forma o nella struttura – con qualche eccezione, nel caso di Svevo – e pertanto si può ritenere che, in realtà, l’eredità freudiana di tali opere rimanga epidermica.[1]

Per esempio, nel caso de La coscienza di Zeno la psicanalisi appare più che altro come una cornice all’interno della quale si gioca il destino dell’eroe, le cui “memorie” s’intendono preliminari all’analisi – il personaggio del dottor S. – intesa qui come materiale narrativo up to date. Nulla a che vedere, evidentemente, con l’idea di mettere in discussione l’identità dell’opera e di spingere fino in fondo la compromissione tra arte ed esperienza vissuta: la tesi dell’Avanguardia, dunque, difesa da Breton e compagni già nel primo manifesto del Surrealismo. L’omaggio a Freud è, qui, ben marcato e sarà riproposto in testi al limite del letterario: Nadja, Amour fou, Arcano 17. È proprio questa natura al limite, questo margine recuperato grazie alla scoperta dell’inconscio, che fa dell’opera di Breton un caso esemplare.

Amour fouLa lettura di opere come Nadja o Amour fou pone il lettore in una condizione di scoperta e di avventura: di che genere di “opere” si tratta? In quanto sfida al codice letterario, il testo bretoniano sembra nascere dalla confluenza di più generi: diario, divagazione filosofica, romanzo di formazione, pamphlet, epistolario… Ma a ben guardare, ciascuno di questi generi consolidati viene eluso in una forma ulteriore, che chiamerò – con semplicità e neutralità soltanto apparenti – il documento. Il più ardito dei gesti letterari produce, infatti, “un libro che sfugge, che si dilegua nelle sue latenze proprio quando si ha l’impressione di averlo afferrato e per sempre ridotto alle sue effettive dimensioni di libro e basta, cioè di opera”[2]. Ciò accade affinché l’opacità degli eventi rimanga il più possibile evidente, perché possa circolare nel testo aggirando l’istanza narrativa; a tal punto quest’esigenza “analitica” è il perno attorno al quale gira la composizione del “libro” che la fotografia compare spesso accanto al testo, rompendo la compattezza dell’oggetto letterario (e si sa quale interdetto rappresenta, per una certa mentalità umanistica molto diffusa in Italia e altrove, il nesso parola/immagine). Le immagini, tuttavia, non sono che un ausilio che non riscatta affatto il testo dall’esigenza, tipica di Breton, di elaborare l’ambiguità piuttosto che di dissiparla.

Al di là del valore rappresentato dal contesto urbano, dalla metropoli, nella definizione di un atteggiamento di massima apertura agli stimoli e alle inquietudini che formano così la traccia, sempre rinnovabile, di una scrittura, c’è da sottolineare come tale disponibilità conduce Breton verso uno stile “clinico”, minato dalla curiosità quanto dal sospetto, e inoltre giocato sul piano visivo molto più che su quello verbale. Niente manierismi letterari, nessuna coscienza che si macera in rapporti difficili con il mondo, alla maniera del romanzo intimo (Gide) o della confessione interiore.

Ma se tutto ciò può far pensare ad una forma di vitalismo, alla maniera di un Henry Miller, il documento freudiano ideato dallo scrittore francese funziona secondo regole differenti. Breton, infatti, costruisce un testo su due livelli che si echeggiano, qualche volta si rispondono ma sempre in una corrispondenza fortuita, nell’incontro e nella dispersione. Una dispersione attentamente ricercata, anche nel senso musicale e poetico del termine. Per esempio, sono le frasi e i disegni di Nadja che stimolano l’immaginazione quanto sanno lasciarla nel dubbio; le strade di Parigi intervallate da vetrine e da insegne, monumenti e alberghi che s’inseriscono in una mappa personale che sfocia nel metaforico e, al limite, nel meraviglioso (diventerà la “deriva psicogeografica” dei situazionisti). Ancora meglio, la materia prediletta da Breton sembra collocarsi fuori da ogni facile estetica del flaneur, in un al di qua definito dalla tessitura segreta, dalle coincidenze che in realtà indicano in Breton un erede attento della psicanalisi.

André Breton (1)

Frettolosamente dimenticato nelle antologie scolastiche che vogliono l’incontro tra Freud e Breton come mai avvenuto, semmai poco più di un omaggio all’opera di uno scienziato tra i più discussi all’epoca del Surrealismo francese, il gesto freudiano è al contrario vistoso e onnipresente nella prosa di Breton. Basta leggerlo, s’intende. Il passaggio, in primo luogo, alla psicanalisi avviene nel senso di un’alterazione dell’opera che diventa uno spazio di trascrizione non troppo dissimile dall’idea di “scrittura psichica” freudiana, ovvero dalla necessità per l’inconscio di costituirsi come insieme di tracce ben al di là di un’organizzazione razionale della quale, piuttosto, è il Libro a essere il simbolo[3]. Non si tratta, quindi, di riferirsi all’ambito psicanalitico secondo il suo presunto contenuto (la seduta, i sintomi nevrotici, la teoria della castrazione, etc.), quanto di rivoluzione testuale, di rivolgimento di abitudini consolidate che vedono nell’opera letteraria un esercizio della Ragione (su quest’onda storica, d’altra parte, agirà certa letteratura francese degli anni Sessanta orbitante intorno alla rivista Tel Quel nei nomi di Philippe Sollers, Julia Kristeva, Michel Butor).

In secondo luogo, appare chiaro che se scrivere necessita un ascolto sensibile alle risonanze del reale, la questione della verità – in altre parole, ciò che il lettore percepisce come il tessuto filosofico del testo di Breton – non può essere tenuta lontano dall’opera ma deve, in qualche modo, entrare di diritto nella cittadella letteraria. Ciò mi sembra che comporti un’ulteriore torsione stilistica del testo che non si distende mai nella pura e semplice “narrazione” degli eventi. Episodico, frammentario, digressivo, polemico nei confronti delle istituzioni – in primo luogo, la psichiatria –, del lavoro, dei costumi sociali, di tutto ciò che va sotto il segno della repressione, il testo bretoniano non aspira a restare in un immaginario Pantheon degli artisti, ma a costituirsi parte civile in un processo a ciò che abbiamo creduto – e crediamo ancora, in fin dei conti – che sia la realtà.

A tal punto la rivoluzione culturale è il suo obiettivo che non meraviglia di trovare il nome di Breton citato in un capitolo del saggio di Alain Badiou Il secolo. Nella grande sintesi che il filosofo francese tenta di restituire dell’essenza del XX° secolo – ciò che definisce, tramite Lacan, “la passione del Reale” –, Breton figura come il poeta della veglia e dell’attesa, in fin dei conti della resistenza riverberata nell’atto di scrivere. Badiou commenta così una pagina di Amour fou:

(…) La figura di colui che veglia è una delle grandi figure artistiche del secolo. La vedetta è colui per il quale non esiste altro che l’intensità dell’agguato, e dunque colui per il quale l’ombra e la preda si fondono in unico lampo. La tesi della veglia o dell’attesa è che non si può conservare il reale atro che restando indifferenti a ciò che sopraggiunge o non sopraggiunge. È una delle principali tesi del secolo: l’attesa è una virtù cardinale perché è la sola forma esistente di indifferenza intensa[4].

NadjaMa l’eredità psicanalitica alla quale, ben consapevolmente, attinge Breton va certo al di là della nozione di inconscio, per quanto a suo tempo potesse costituire già un’innovazione tutt’altro che indifferente. È il carattere fantasmatico del Reale che si rivela nel documento sottratto alle illusioni introspettive della Letteratura; questa tendenza allo scarto e all’esteriorità nel linguaggio ha portato la scrittura in una dimensione in cui il presente, nel bene e nel male, è l’unica temporalità che conta davvero poiché l’esitazione o, se si preferisce, l’ambiguità vi domina e vi si rivela. A differenza del meraviglioso delle fiabe e del bizzarro dei racconti di Edgar Poe, il fantastico è implicato nel quotidiano, non è che il quotidiano in ciò che rasenta l’inconoscibile, nella casualità dei suoi incontri dove si può trovare, a volte, una chiave o un punto di fuga. Letteratura dell’esperienza molto di più che di ogni altra cosa, l’opera di Breton scardina così le convenzioni per porre un’unica, forse insondabile questione: qual è l’effettivo potere della parola? Qual è il suo legame con l’esperienza?

L’opera di Breton ci spinge verso lo spazio bianco tra le parole e le cose, nel luogo dell’indagine dove grida un “manifesto” difficile e provocatorio, nel senso letterale del termine, codificando per il futuro qualcosa come una poetica dell’ascolto e del diverso. Nadja e Amour fou, per non citare che i testi più conosciuti di Breton, restano tra gli esempi più riusciti e genuini di attenzione, sia clinica che amorosa, che la letteratura del Novecento ha prodotto, ben sapendo che stava andando contro se stessa e al di là di ogni possibile “canone occidentale”. Non bisogna dimenticare, infatti, che Breton è stato, prima che uno scrittore e un capofila dell’avanguardia, un intellettuale senza frontiere, un divulgatore di idee e di cultura che persino un filosofo circospetto e alieno da facili complimenti come Michel Foucault, a metà degli anni Sessanta, così ricordava: “Ho l’impressione che abbiamo vissuto, camminato, corso, danzato, fatto segni e gesti senza risposta nello spazio sacro che circondava il reliquiario di Breton (…) Breton è un po’ il nostro Goethe”[5].

Note

[1] Per un punto di vista generale sul rapporto della cultura italiana con la psicanalisi, cfr. M.David, La psicanalisi nella cultura italiana, Bollati Boringhieri, Torino 2006.
[2] Cfr. L.Gabellone, postazione a A.Breton, Nadja, Einaudi, Torino 1977: p.145.
[3] Cfr. J.Derrida, Freud e la scena della scrittura in La scrittura e la differenza, Einaudi 2009.
[4] Cfr. A.Badiou, Il secolo, Feltrinelli 2009.
[5] Cfr. M.Foucault, Archivio Foucault, volume I, Feltrinelli 2009.

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