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Percorsi

Franco Michieli

Perdersi per evolversi: la via invisibile

Luigi Nacci (LN): Franco Michieli: geografo, esploratore, alpinista, camminatore, giornalista, regista. Chi sei?

Franco Michieli (FM): Direi un po’ tutte queste cose assieme, più altre considerato che mi dedico anche alla famiglia, senza che nessuna sia così determinante da diventare una vera definizione, o peggio un’etichetta. Presentarmi ad esempio come geografo è certamente utile per far capire la dimensione culturale attraverso cui posso vedere il mondo, ma è meglio non cristallizzarla. Lasciare nell’indefinito ciò che si è e far parlare piuttosto degli atteggiamenti, degli approcci verso la realtà, aiuta a trasmettere i contenuti autentici anziché i soli “involucri” delle attività che si svolgono.

Franco Michieli ritratto da Howie Nordstrom

Noi esseri umani tendiamo a infatuarci dei contenitori e delle loro colorate etichette, senza capire che quello che sta dentro è tutt’altro, e che si potrebbe viverlo anche in ambiti molto differenti fra loro. Per esempio, molti sembrano appassionarsi più a degli oggetti – come gli sci, o una bicicletta, o certe piccozze tecniche, o un certo tipo di sentieri – che non al fatto di essere semplicemente in movimento nella natura con un certo spirito, senza preoccuparsi di quale “specialità” si sta praticando. Il grande stimolo che si riceve esplorando un territorio senza mappa insegna anche a non mappare troppo se stessi: meglio ammettere che non si sa bene che cosa si è, e che perciò vale la pena di continuare a sperimentarsi per vedere cosa si diventa.

LN: A soli 19 anni hai fatto la traversata delle Alpi, da Ventimiglia a Trieste, 2.000 km in 81 giorni, senza tenda. È stato il tuo primo lungo cammino? Che cosa ti ha spinto a partire? Come sei cambiato in quel viaggio?

FM: Da ragazzo avevo già provato qualche “alta via” e a 18 anni la traversata della Corsica, ma certamente le Alpi sono state il primo cammino di lunga durata. La prospettiva di permanere quasi tre mesi in montagna è stato il primo stimolo che mi ha spinto a scegliere questa esperienza: desideravo soprattutto scoprire cosa sarebbe successo vivendo ininterrottamente da viandante delle montagne, restando nella natura giorno e notte spostandomi sempre verso nuovi orizzonti, senza poter intravedere né il punto di partenza né quello di arrivo, se non al primo e all’ultimo momento. Aspiravo a ritrovarmi in mezzo a una sorta di “infinito di montagne”, disteso a perdita d’occhio sia dietro che davanti a me, in modo che fosse naturale pensare semplicemente al presente, all’essere là, senza essere tentato da un traguardo, da un “desiderio di concludere”, come capita inevitabilmente se si scala una singola cima o si fa una gita in giornata e vengono in mente le cose da fare al rientro. Ero alla fine della quinta liceo, subito dopo la maturità, e mi appassionavano molte domande sul senso della natura e su come potrebbe essere il nostro rapporto con lei. Lo studio di Giacomo Leopardi, per esempio, mi aveva molto coinvolto, e il fatto di vivere a Milano mi spingeva a partire per indagare quei temi in situazioni ben più selvagge.

Franco Michieli, Altopiano

Lo scopo non era riuscire a fare la traversata delle Alpi, ma viverci dentro adattandomi, trovandomi bene su tutti i terreni, dalle valli ai boschi alle grandi cime ghiacciate. Uno degli obiettivi più importanti per me era provare a farlo bivaccando, dormendo all’aperto col solo saccopiuma, trovando se necessario dei ripari naturali. Quelle notti sotto stelle e nuvole mi hanno dato tantissimo; gran parte della serenità che le montagne mi hanno trasmesso viene dalla scoperta di quanta accoglienza la notte alpina senza ripari ci sappia dare. Inoltre, aver sperimentato come la via sconosciuta possa prendere forma davanti ai nostri passi nella nebbia o nell’oscurità ha cambiato le mie prospettive. Dopo la traversata ho perso parecchio individualismo, ho spostato molta attenzione dall’io a ciò che c’è fuori, intorno, con più voglia di osservare e di ascoltare. Ho considerato un errore sempre più grave l’antropocentrismo, una fissazione che solo l’ignoranza di ciò che è altro da noi può giustificare.

LN: Poi non ti sei più fermato: Pirenei, Lapponia, Nepal, Groenlandia, Islanda, Perù e molti altri luoghi, soprattutto nelle regioni nordiche. Come scegli le tue destinazioni? Cosa ti affascina del (Grande) Nord? Fra tutte le tue spedizioni, puoi raccontare quelle che ti hanno segnato di più, nel bene e nel male?

FM: Da esperienze come la traversata delle Alpi è molto più difficile tornare che partire. La dimensione che si vive in cammino per le montagne è talmente positiva che è ben difficile rassegnarsi al pensiero di non riviverla. Perciò, compatibilmente con le possibilità pratiche dei vari periodi, ho cercato di ripartire per attraversare una catena montuosa, o un’isola o un arcipelago più o meno una volta all’anno. Questa aspirazione si è realizzata più facilmente man mano che riuscivo ad avviare il lavoro di geografo-giornalista di montagna e conferenziere: nessuno mi ha pagato per fare i miei viaggi, ma da essi ho tratto molto materiale per il mio lavoro successivo. Sicuramente le destinazioni nordiche, Norvegia, Islanda, Groenlandia, Scozia, isole nordatlantiche, sono quelle che continuano ad attrarmi di più. La prima volta che mi sono avvicinato alla costa norvegese, a 21 anni, mi è sembrato subito di arrivare a casa. La vastità degli spazi naturali, la libertà di percorrerli, la possibilità di non incontrare nessuno per settimane, i costi molto bassi rispetto alle spedizioni per mete più blasonate, e comunque un’atmosfera complessiva che basta da sola a infondere serenità, mi hanno spinto a compiere una trentina di viaggi e traversate in quei luoghi.

Franco Michieli, Fiordo

La seconda area che ho frequentato molto, ma solo dal 2002, sono le Ande, dove vado quasi ogni anno. Anche là gli spazi da esplorare sono immensi e racchiudono meraviglie inimmaginabili; c’è però una grande povertà della popolazione e la mia attività si è svolta sempre in un ambito di volontariato per i giovani andini. Tutte le traversate a piedi arricchiscono e a nessuna di quelle vissute vorrei rinunciare. Alcune sono state decisive: le Alpi per i motivi che ho detto; la traversata integrale della Norvegia a 23 anni, che essendo durata 150 giorni mi ha dato una familiarità con la vita in natura tale da mettermi per sempre in una relazione coi territori molto più intima di quanto sia possibile alla maggior parte degli umani moderni; la traversata dell’Islanda da est a ovest a 29 anni, l’esperienza più dura, in cui la fame e la fatica mi hanno mostrato la condizione umana sulla terra meglio di qualunque documentazione o riflessione a tavolino: da allora penso che chi non prova almeno una volta a faticare duramente soffrendo la fame per almeno settimane di seguito, non può capire nulla di cosa accade al mondo. Poi sicuramente c’è la traversata della Lapponia da est a ovest a 36 anni, la prima in cui con un amico ho provato a tenere una rotta senza mappe né strumenti per l’orientamento: si è riaperto l’orizzonte del mondo, tutto si è rinnovato, perché abbiamo scoperto che siamo ancora capaci di interpretare la terra con occhi e visioni nuove. Infine direi la traversata integrale della Cordillera Blanca in Perù, a 41 anni, che è la prima che non mi è riuscita del tutto: per un disturbo di salute ho dovuto interromperla e poi riprenderla, mentre i miei giovani amici peruviani andavano avanti; alla fine sono stati loro a riuscire a completarla, in 23 giorni di grande avventura alpinistica, mentre io, il “gringo” che di solito in quelle terre raccoglie i successi, ho fallito. È stato un grande successo, la soddisfazione di vedere che un sogno ha potuto realizzarsi per chi di solito resta tagliato fuori, anzi per ragazzi a cui il ruolo di campesinos avrebbe di norma impedito anche solo di immaginare un’ascensione in alta montagna.

LN: Una filosofia di spaesamento: niente mappe, né strumenti elettronici come il GPS, nemmeno il telefono o l’orologio. Come ci si fa ad orientare? Che cosa significa, per te, “perdersi”?

FM: Perdersi, o deviare rispetto a un percorso sperimentato, è la tecnica utilizzata dalla natura per evolversi. Tutte le specie viventi sono frutto di iniziali “errori”, di mutazioni in buona parte fatali, ma che di tanto in tanto permettono a un vivente di adattarsi meglio a situazioni prima proibitive. Anche in campo culturale molte novità e scoperte avvengono perché deviando da una tradizione ci si imbatte per caso in qualcosa di nuovo che si rivela interessante. Le scoperte scientifiche e soprattutto le loro applicazioni avvengono per lo più così: anche la potenziale scoperta che i neutrini possano viaggiare più veloci della luce è un dato riscontrato mentre si cercava altro. Cristoforo Colombo ha scoperto l’America mentre cercava l’Asia.

Franco Michieli, Guado

Uno dei più gravi difetti del nostro tempo è che si pretende di fare ricerca ed esplorazione stabilendo prima di iniziare che cosa si deve trovare o che meta raggiungere: ovvio che si abbia l’impressione di aver perduto gli orizzonti e che si continui a dire che non c’è più niente di nuovo (salvo qualche congegno tecnologico che toglie anche le ultime curiosità rimaste). Accettare un mondo in cui ci si può perdere e si può finire su una strada imprevista e sconosciuta è semplicemente l’unico modo per rinnovarsi. Qui non si tratta di tentare mutazioni genetiche casuali della specie, che sarebbero ovviamente molto pericolose, ma semplicemente di perdersi rispetto alle abitudini e alle indicazioni preconfezionate. Andare in natura è il modo più universale e a portata di mano per distogliersi saltuariamente da troppe false sicurezze e vie prestabilite e mettere alla prova di persona il comportamento del mondo. Orientarsi con la natura non è particolarmente difficile semplicemente perché i nostri antenati si sono evoluti sviluppando questa capacità, con la quale hanno esplorato e poi abitato quasi tutte le latitudini selvagge del pianeta. Noi dobbiamo ricostruire la parte culturale della comprensione dei territori, che unita alle molte facoltà antiche nascoste dentro di noi ci permette di interpretare in modo efficace i paesaggi in cui ci muoviamo. Si tratta di imparare a riconoscere i molti riferimenti presenti in natura che ci danno indicazioni sui punti cardinali, sulle forme del territorio che possiamo aspettarci, sugli ostacoli che potrebbero presentarsi. Possiamo leggere il movimento apparente del sole e della luna, riconoscere certe stelle di notte, capire dal reticolo fluviale di un certo scenario qual è la struttura di una regione e quindi posizionarla nello spazio, osservare montagne da tenere come riferimenti o valli che possono seguire linee di una geometria riconoscibile. Non c’è limite ai riferimenti utilizzabili, ma l’importante è imparare a incrociare tra loro le informazioni che ciascuno di essi ci dà: per esempio tra l’apparire momentaneo del sole all’alba, quindi circa a est, e la direzione del vento, che potrà poi guidarci per qualche ora se il sole e il paesaggio spariranno nella nebbia. A volte ogni riferimento scompare: per qualche ora o giorno si avanza a istinto, sulla fiducia, e magari poi si scopre di essere finiti chissà dove. Proprio per questo si scopre qualcosa di inaspettato. Basta restare tranquilli, ricordando che entro un certo tempo la terra torna a mostrarsi e a rivelare qualcosa che permette di riorientarsi. Spesso, addirittura, ti mostra a pochi passi la meta che credevi di aver perduto.

 La via invisibile, Franco MichieliLN: Senza mappa nel labirinto è, appunto, il sottotitolo di uno dei tuoi film, La via invisibile, incentrato su una tua spedizione nell’estremo nord della Norvegia. Da regista, come operi per far emergere il senso di smarrimento che provi tu per primo? Perché hai scelto di raccontare attraverso le immagini-movimento e non, ad esempio, nella forma-libro?

FM: La via invisibile racconta una delle traversate che ho compiuto in ambiente nordico senza usare cartine, orologio o altri strumenti per l’orientamento e le telecomunicazioni. Ero con un amico, e in due abbiamo fatto al tempo stesso da troupe e da protagonisti. In realtà per tutta la vita ho sempre scritto articoli e racconti sulle mie traversate, ma riuscire a fare un film, mostrando con immagini in movimento la dimensione di essere davvero isolati nella natura, è sempre stato un sogno, che la semplificazione relativa offerta dalle telecamere video ha permesso di realizzare.

Ho cercato di insistere su due aspetti, la selvaticità degli scenari che attraversavamo, la ricchezza di forme e di potenziali ostacoli naturali che ci imponevano continue ricerche, deviazioni, domande; e l’intimità con la natura che contemporaneamente potevamo vivere, in particolare apprezzando anche l’immersione nei guadi dei torrenti, nella neve profonda, nel vento carico di piogge o di fiocchi di neve. Il non sapere, in molti momenti, dove potevamo trovarci, veniva quindi continuamente bilanciato da un legame con la natura che presenta come positivo anche ciò che nel mondo civile si ritiene negativo: appunto entrare in acque gelide, essere nella nebbia, muoversi per valli e crinali a perdita d’occhio senza sapere dove si è. Una voce femminile che impersona la Natura interviene più volte a chiarire il valore di questa intimità, e a suggerire come sia questa dimensione a creare le condizioni per la riuscita dell’avventura. Ciò ha permesso anche di evitare qualsiasi commento da parte di un speaker che spiegasse la vicenda: nel film non compariamo che noi e la natura. Anche lo spettatore deve vivere l’incertezza e la mancanza di spiegazioni che caratterizzano l’esperienza, proprio per coglierne i contenuti e lo spirito, e non il contenitore, quale sarebbe il racconto di un trek ben riprodotto su una carta e il cui percorso sembrerebbe il fine stesso del cammino.

Solo se la via resta invisibile ci si accorge che il vero viaggio non è il tragitto: questo, anzi, è sconosciuto anche a noi e scompare dietro ai nostri passi. Il desiderio di scrivere anche dei libri letterari su questi argomenti in verità lo porto con me da sempre; credo che per me sia più facile che fare film, ma le circostanze non mi hanno ancora permesso di realizzare questo progetto. Il mio proposito è di dedicarmi molto presto alla scrittura di libri.

Franco Michieli, Ghiacciaio Lyngen

LN: Primi accennavi ai tuoi frequenti viaggi sudamericani. A quale progetto stai lavorando?

FM: Dal 2002 ho compiuto dieci viaggi sulle Ande (otto in Perù, uno in Bolivia e uno in Argentina) sempre in compagnia di giovani ex campesinos, prima allievi e ora guide alpine che operano sulle loro straordinarie montagne. Ho aderito a un grande progetto a cui si dedica il movimento di volontariato Operazione Mato Grosso: non è un’associazione, ma un insieme di persone che nei modi e nei campi più svariati regala tempo, lavoro e capacità alle popolazioni povere dell’America Latina. Il grosso delle iniziative riguarda scuole d’artigianato o arte e cooperative, orfanotrofi, ospedali, aziende agricole e così via, tutto per aiutare i campesinos a non abbandonare le loro montagne grazie all’apprendimento di una cultura, di un buon lavoro e alla creazione di un mercato per i loro prodotti. Tra questi progetti c’è anche l’andinismo, a cui mi sono dedicato io: la formazione di guide alpine UIAGM tra ragazzi nullatenenti delle cordilleras che non avevano alcuna prospettiva, ma che hanno dimostrato interesse per la montagna. Grazie a volontari permanenti in Perù e ad aiuti dall’Italia decine di ragazzi hanno potuto frequentare per anni l’Escuela de alta Montana Don Bosco en los Andes, diventando guide UIAGM, guide di trekking, cuochi di spedizione, portatori, gestori di rifugi, operatori turistici. Alcuni esperti volontari italiani, fra cui io, hanno contribuito organizzando varie esperienze di formazione; nel mio caso ho intrapreso con i giovani molte traversate esplorative su varie cordilleras, alcune delle quali sono servite anche a ideare nuovi trekking su cui le guide poi lavorano. Abbiamo inoltre organizzato il viaggio in Italia di alcuni di loro per promuovere le loro attività (il loro sito è www.donbosco6000.net ), un lavoro che continua ogni anno con molte iniziative, fra cui la compilazione di una guida delle montagne peruviane che sto ultimando. L’amicizia e le esperienze vissute con questi giovani sono fra le cose più belle che io ricordi.

LN: Vorrei chiudere con te come ho fatto con Luca Gianotti, facendoti una domanda che ti proietta nel futuro: quale vorresti fosse la tua ultima spedizione? E cosa farai, come immagini sarà la tua vita, quando i piedi non ti sorreggeranno più nel cammino?

FM: Quale possa essere il territorio di un ultimo percorso a piedi non saprei dirlo: sarebbe come avere una mappa già pronta! Però penso che potrebbe essere in un luogo nordico e selvaggio, dove mi sentirei a casa, e che lo attraverserei “a vista”, senza strumenti: nulla può dare più speranza e ottimismo di un orizzonte oltre cui c’è qualcosa ancora da scoprire. Se non dovessi più essere in grado di camminare vorrei comunque dedicarmi a scrivere per approfondire temi del rapporto uomo–natura, con tempo sufficiente per ripescare dalla memoria le sfumature più autentiche di quanto captato nei territori selvaggi. Probabilmente non potrei comunque pensare di aver compiuto l’ultima traversata: continuerei ad aspettare di ripartire. E l’ipotesi che in un altro mondo l’intera natura possa rinascere senza più la stupidità e la morte, con un tempo illimitato a disposizione per esplorarla, senza il disturbo dei motori o lo squillo dei cellulari, credo mi accompagnerebbe fino alla fine.

La via invisibile, il trailer:

La via invisibile, scheda del film: QUI.

Il video-racconto del seminario “Diventare esploratori”, un appuntamento periodico che Franco Michieli tiene presso la Casa del Movimento Lento. Qui il seminario del maggio 2011:

(l’autore del ritratto fotografico in apertura è Howie Nordstrom)

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