«A me non erano mai piaciute le case, erano troppo grandi e intrattabili. Una casa è esigente, difficile. Bisogna imparare a dominarla. Bisogna imparare ad abitarla. Io ho imparato, ma non lo volevo fare, non volevo abitare in una casa. Abbiamo litigato, a te piacevano le case grandi. Non ho il tempo di abitare in una casa, dicevo, mi spaventa; tutte queste porte, le stanze in più, tutti i mobili inutili, le finestre ostili. […] In un certo senso, camminare è l’opposto di abitare in una casa. Questo vale in ogni modo per il vagabondaggio, che è un’esperienza prolungata, volontaria o involontaria, di cammino, il vagabondaggio è la mancanza, desiderata o meno, di una patria».
Tomas Espedal, Camminare dappertutto (anche in città)
Sei alla trentesima rata del mutuo, più o meno. Te ne mancano ancora molte, moltissime. Probabilmente morirai prima dell’ultima, mettiti l’anima in pace. Ti chiedi spesso, almeno ogni volta che sbatti la porta dell’ufficio, la porta della cucina, la porta della macchina, o la porta girevole del palazzo delle poste, in cui passi buona parte del tuo tempo libero, chi diamine te l’ha fatto fare. Di metterti dentro – pensi – a qualcosa più grande di te. Di essere vincolato per decenni a un contratto, un patto, un luogo. Dici solo chi me l’ha fatto fare, non di più, mentre la porta continua ad andare avanti e indietro, avanti, indietro, e tu cerchi di fare più in fretta della tua ombra, vorresti andare avanti, vorresti lasciarla indietro, vorresti ti lasciasse stare.
Ti ricordi da bambino? Eri in campagna. Tua nonna strappava la gramigna dal campo, ti dava pochi baci, ma di quei pochi conservi il ricordo. Tua nonna passava la maggior parte del suo tempo nel campo. A casa rientrava per sgranare il rosario, pelare le patate, dormire. Tuo nonno fumava, giocava a carte, beveva, dava colpi sordi di vanga alla terra, imprecava. A casa rientrava per sedersi a tavola, infilarsi tra gli incisivi uno stuzzicadenti, dormire. Tu giocavi con i tuoi cugini a nascondino, correvi a occhi chiusi, saltavi sui muretti a secco. Tornavi a casa per mangiare, lavarti (ti obbligavano), dormire. A casa tuo nonno non ci stava mai, tua nonna neppure, tu, macché.
Quand’è diventata così importante, la casa? Quando hai cominciato a pensare devo farmi una casa? Fai mente locale. Non può essere accaduto ai tempi della scuola. Non può essere accaduto ai tempi dell’università. Non può essere accaduto ai tempi del master. Deve essere accaduto dopo, quando sei stato assunto in quel posto. I tuoi colleghi parlavano di macchine, di sesso, e di case. Così anche tu hai iniziato a parlare di macchine, di sesso, di case. Del sesso da fare in macchina, della macchina con cui tornare a casa, della casa munita di parcheggio per la macchina, munita di camera da letto per il sesso. La vita, messa così, non era troppo complicata. Tre, quattro cose al massimo, tutte acquistabili a rate, o in contanti (anche il sesso, certo). Una vita così si può maneggiare, sta tutta in una mano, apri la mano, chiudi la mano, oplà.
Sta tutta in una mano, eppure ti metti a sbattere le porte. Quando, dopo averle sbattute, affretti il passo lungo il marciapiede angusto che conduce alla tua casa, capita che ti torni in mente di quando camminavi con passo svelto alcuni anni fa. Erano i tempi della scuola. Ci andavi a piedi, il mattino con un passo svogliato. Il ritorno con un passo rapido, ma non troppo, spinto dalla fame. Il passo lo affrettavi veramente solo quando, appena suonata la campanella della prima ora, sgattaiolavi fuori dal portone, eri una scheggia, dicevi libertà libertà libertà, con la bocca spalancata. Più ti allontanavi dalla scuola, più acceleravi. All’inizio marciavi per paura. Di farti beccare da un prof in ritardo, dalla moglie del bidello, da un parente. Poi però la paura cessava. Più ripetevi libertà libertà libertà, più spalancavi la bocca, più godevi nel camminare. Non camminavi verso una casa, non ti volevi chiudere dentro una stanza. Anzi, era proprio quello che non sopportavi: passare ore e ore seduto a un banco sbeccato, a respirare un’aria pesante, guardando fuori dalla finestra, con l’ossessione dell’ergastolano.
Dimmi: eri tu? Non mi dire che il tempo passa, che si cresce, che si diventa responsabili e bla bla. Il tempo passerebbe anche se tu oggi non avessi il mutuo di una casa. Passerebbe se tu avessi un’età diversa da quella che hai. Passerebbe se non fossi responsabile. Ma poi, dimmi: responsabile di che? Della tua vita? Se davvero lo fossi, ti prenderesti cura dei tuoi desideri. Ti prenderesti cura di quella parte di te che spinge, soffia, scalcia, ma calci veri, calci in pancia. Dimmi: ti capita mai, la domenica pomeriggio, tardo pomeriggio, mentre sei steso sul tuo divano ikea, di avere la sensazione che le pareti si spostino? Che lentamente avanzino minacciose verso il tuo divano? Quel soggiorno, la prima volta che ci sei entrato, aveva 30 metri quadrati. Oggi ti pare ne abbia 15 scarsi. Guardi ancora fuori dalla finestra, come un tempo?
Dimmi della tua casa. Quante persone, oltre a te, ci hanno dormito? Quante ci hanno mangiato, si sono fatte la doccia, hanno gettato il cappotto sul letto? Contale. Togli la persona che ti fa le pulizie, se ce l’hai, togli anche quella che ti stira, togli il portapizze, perché non lo inviti mai a mangiare con te. Ora che hai stimato un numero (approssimativo, lo so), conta i giorni che quelle persone sono rimaste nella casa. A quante di loro hai dato le chiavi della porta d’ingresso, del portone, della cassetta delle lettere? Non sono tante, dovresti aver già contato. Dimmi: quante volte hanno suonato al citofono e non hai risposto? È il postino, è il ragazzo della pubblicità, è il mendicante, è il rapinatore, è il serial-killer, certo, come no, meglio non aprire. Quanto è spessa la porta di casa tua? È blindata? Hai un allarme? Hai un allarme connesso con la stazione dei carabinieri? Com’è fatta la tua serratura? Che cosa hai paura che ti rubino? Il televisore, il pc, il frigorifero, la lavatrice? I soldi no, quelli li tieni in banca. I gioielli no, quelli li nasconde tua madre, in casa sua. Hai paura che ti rubino la casa?
Se ci tieni, tieniti pure la tua casa. Con la tua porta blindata. Il tuo mutuo a tasso variabile. La tua macchina, anche se non ci fai più sesso da una vita. Il tuo lavoro, anche se daresti un rene pur di cambiarlo. Il tuo pc, il tuo facebook, lo spam della tua email. A me interessa un’altra cosa. Mi interessi tu mentre guardi fuori dalla finestra. Mi interessi tu mentre cammini svelto dopo la campanella della prima ora. Mi interessano i tuoi salti oltre i muretti a secco. A te interessa quella parte di te? Ti faccio una proposta. So già che mi dirai no. Perché in quei giorni avrai da fare. Hai già preso ferie, ti aspettano le terme. Il bed&breakfast bucolico. Il primo mare. La colonna in autostrada. Affari tuoi. Io però la proposta la faccio lo stesso, non a te, la faccio a quella parte che tira calci, bombe in pancia, roba da restare piegati in due.
Tra pochi giorni un gruppetto di irresponsabili si troverà a Cividale del Friuli. Hai mai sentito parlare del Ponte del Diavolo? Beh, proprio lì. Gente di poco senno, che vuole andare a Venezia a piedi. Dicono che ci arriveranno dopo 5 giornate di cammino, nel tardo pomeriggio, in tempo per farsi un tramonto+aperitivo in Piazza S. Marco. Vagabondi, poco raccomandabili, che dormiranno un po’ qua, un po’ là, in sacchi a pelo scomodi, che si alzeranno con il mal di schiena. Gente che se la vedi andare a zonzo per la tua città ti metti la mano al portafoglio. Cosa fai? Li raggiungi? Non rispondere. Fai una cosa: mettiti le scarpe, lascia stare se hai la tuta, o il pigiama, tanto è sera, nessuno ti vedrà. E se anche ti vedessero? Non pensare alla casa. La campanella, la senti? Sbrigati, esci. Vai a fare due passi. Pensaci su.
Se li vuoi cercare, li troverai qui:
www.cividaleveneziapiedi.wordpress.com
tenetemi aggiornata sulle vostre prox iniziative ! altro che Compostela! ciao ci penso poco ma devo pensare in quanto lavoro! ciao e grazie la penso come voi ciao ciao fulvia
Di fulvia | 11 Aprile 2012, 06:53