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Musica

Ministry: c’era una volta l’industrial metal

Sabato pomeriggio di ritorno da Milano per lavoro. Reduce dal treno Milano-Genova trasformato in sauna dalla rottura della aria condizionata, arrivo di corsa al binario dove partirà un Frecciarossa che mi riporterà a casa. Temo di perderlo ma vengo salvato da un ritardo… Il livello di incazzatura è fra i più alti. Mi siedo e indosso le cuffiette del lettore Mp3, il dovere mi chiama, la recensione del nuovo lavoro dei Ministry, Relapse, incombe e non posso perdere tempo. Ne ho già perso tanto e sono a rischio cazziatone. Penso che sicuramente non sarà la colonna sonora più adatta per lenire l’incazzatura, penso che il leader della band Al Jourgensen aveva detto che i Ministry non si sarebbero più riformati dopo il 2008 e penso, mentre il treno inizia a muoversi, che Genova è bellissima, incastonata fra mare e monti.

Ministry, Relapse

Accendo il lettore e il primo pezzo Ghouldiggers inizia a diffondersi nei canali auricolari, entrando piano su un arpeggio di chitarra che sembra rubato agli AC/DC di Thuderstruck, che fa da sfondo per una elucubrazione su quanto sia cattivo il mondo del music business nel suo sfruttare il nome degli artisti defunti (Morrison, Hendrix, Joplin ecc.). Il tutto dura lo spazio di un minuto, perché poi la canzone diventa una potente cavalcata metal con la doppia cassa e la chitarra distorta in primo piano. Non manca anche la pseudo telefonata al manager, la cui segretaria invita Al Jourgensen a richiamare quando sarà morto, che introduce un vertiginoso e onestamente trascinante assolo di chitarra. Se il primo pezzo stordisce, il seguente Double Tap rincara la dose. Ormai non ci sono dubbi che Mr. Jourgensen ce l’abbia con il mondo, un po’ come me con le ferrovie, e questo pezzo non fa che confermarlo, a parte un ritornello gitano in stile Gogol Bordello. In Freefall, invece, la rabbia è incanalata in un veloce e potente hard core senza compromessi, a parte una lunga intro di voci campionate. Kleptocracy mantiene una ottusa struttura hardcore alternando, però, i tempi, ora lenti ora veloci, e inserendo un ritornello epico che vorrebbe essere un inno anti-capitalismo, visto che la cleptocrazia di cui si parla altro non è che il potere delle banche.

Sono ormai giunto all’altezza di delle Cinque Terre, stacco un attimo l’Mp3 e, fra il luccichio del mare alla mia destra e la lussureggiante vegetazione che circonda la ferrovia, penso a quando i Ministry sfornavano pietre miliari della musica alternativa come Psalm 69 o Mind Is A Terrible Thing To Taste, dove i brani erano costruiti sui campionamenti e la chitarra distorta serviva a irrobustire il sound. Ormai da qualche anno il buon Al sembra aver deciso di mostrare i muscoli, relegando il campionamento, che lui stesso aveva elevato ad arte, a fare da semplice corollario alle chitarre elettriche. Sperando in un cambio di rotta riaccendo l’Mp3 e i miei canali uditivi sono investiti dalla furia della cover di United Forces, degli americani SOD, e dalla filastrocca hardcore di 99 Percenters. Weekend Warrior inganna all’inizio per via di un trattamento elettronico e una ritmica che ricorda alcune cose dei Killing Joke, ma il resto del brano torna a ricalcare le orme dei pezzi presenti nel disco, senza impennate di ingegno. L’unico brano in cui si svela la classe del protagonista è il conclusivo Bloodlust, che parte come un potente heavy blues per poi aprirsi in una linea melodica eterea e atmosferica, inquietante e visionaria che conferisce al brano quella marcia in più che pare mancare agli altri. Relapse è tutto qui, in un pugno di brani potenti e ottusi quanto basta per far muovere il culo più che il cervello. Ormai in terra toscana ho chiaro che da qui in poi ogni lavoro dei Ministry sarà così, con valanghe di riff metallici, doppia cassa come regola e tanto, tanto rumore. I contenuti saranno demandati alle liriche, sempre rabbiose e incazzate, ma inglobate nella massa di rumore sordo così alto che faremo fatica a sentirle e ad apprezzarle, anche perché il cantato gutturale di Jourgensen non aiuta certo nella comprensione. Tuttavia, il giochino funziona, almeno a tratti. Sì, perché un brano come Ghouldiggers nella sua rigidità entra nel cervello sin dal primo ascolto, così come il ritornale gitano di Double Tap. Ma si tratta solo di momenti e, guarda caso, i brani che ho citato sono posti proprio all’inizio della raccolta. Con lo scorrere dei brani infatti, la monotonia nel proporre le medesime strutture prende il sopravvento e un senso di noia comincia ad attanagliare chi ascolta. E a poco serve la conclusiva Bloodlust, come detto il miglior pezzo del disco, soprattutto se messa in mezzo a due brani poco incisivi e significativi come Relapse (Defibrillator Mix) e Git Up Get Out ‘n Vote.

Al Jourgensen

Non metto assolutamente in dubbio l’onestà intellettuale con cui Jourgensen ha concepito questo lavoro, e penso che il tutto sia nato veramente dall’urgenza di comunicare il proprio sdegno di fronte agli accadimenti di questi ultimi tempi, un’urgenza espressiva che ha sempre caratterizzato il nostro. In Relapse il problema è la forma, il “come” i concetti sono espressi: c’è una dimostrazione di forza e potenza che lascia interdetti, una valanga di rumore a volte gratuito che potrebbe mascherare pecche a livello compositivo. Mi balena in testa come la copertina del disco sia in qualche modo l’esatta foto dei Ministry di oggi. Il ciccione che affoga nel proprio vomito potrebbe essere una buona metafora di una band che ha ormai fatto il pieno per quanto riguarda la notorietà, almeno a livello underground, e affoga negli scarti della propria arte. Un pizzico di delusione affiora dopo l’ascolto, perché da un nome importante come questo ci si aspetta di più.

Arrivato a destinazione mi incammino verso casa, da una finestra esce la voce di Maria De Filippi che annuncia il nuovo vincitore di Amici. Mi rimetto le cuffie e ricomincio ad ascoltare Relapse.

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