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Palcoscenico

L’amore che dà spettacolo: il libertino e i due giovani amanti!

L’amore dà spettacolo… è il motet al quale la stagione operistica areniana 2012 è ispirata. Un sentimento spettacolare, in tutte le sue forme, che nel caso del melodramma da secoli si colora di variopinte tonalità. Solo per limitarci al cartellone proposto, celeberrimo è il Don Giovanni di Mozart che ben spiega come in ogni uomo alberghi il desiderio incandescente − al di là dei doveri e della decenza − di nuotare nel mare infinito dei piaceri sensuali. Il classico immancabile in terra scaligera è l’amor contrastato dell’Aida di Giuseppe Verdi, dove al sentimento tra due amanti si contrappone quello per la patria. Carmen e Roméo et Juliette lambiscono gli antipodi del dardo incandescente dell’amore: quello sprezzante, irriverente e quello puramente infantile. Turandot è l’amore come rebus psicologico, quindi da conquistare con l’astuzia. Tosca, invece, mostra le pene di un amore vittima del raggiro e delle malignità, quindi da difendere fino alle estreme conseguenze.

Questi sono i titoli per la stagione 2012, che Fucine Mute ha deciso di recensire in coppia (Don Giovanni & Roméo et Juliette; Aida e Carmen; Turandot e Tosca). Per fare questo, ci siamo avvalsi della preziosa collaborazione del Maestro Fabio Fapanni, direttore musicale di palcoscenico della Fondazione Arena, che ha concesso una bella video intervista di presentazione della stagione, pubblicata in coincidenza con le nostre recensioni (si veda sotto in scheda, ndr).

Don Giovanni - "Là ci darem la mano"

In tema di amore − è fatto noto − Giuseppe Verdi o Giacomo Puccini la sapevano lunga. Anche il giovanissimo Wolfgang Amadeus Mozart non era da meno, se è vero che all’età di sei anni si esibì in composizioni amorose presso la corte viennese dell’Imperatore Francesco Stefano il quale, colpito dalla spregiudicatezza del wunderkind salisburghese, gli chiese di eseguire un brano musicale dopo avere coperto i tasti del pianoforte. Non solo il piccolo Mozart acconsentì, ma con gesto d’estrema sfacciataggine invitò il rinomato compositore di corte, Wagenseil, a voltargli le pagine. Non pago, subito dopo chiese un bacio all’estasiata Imperatrice Maria Teresa e promise alla figlia Maria Antonietta che, una volta cresciuto, avrebbe chiesto la sua mano. Fosse andata così, la sua storia, ma anche quella della Francia e del mondo intero, sarebbe stata un’altra. Invece, le cose sono andate diversamente e con Mozart è iniziata la stagione delle grandi opere liriche.

Per questa sua sfacciataggine e grazie alla sapiente operazione di “marketing” del padre, quando verso la fine del settecento Mozart arrivò a Praga, tutti parlavano già di lui. Le arie del suo Figaro erano note tanto alle lavandaie di Kampa e ai frequentatori di taverne quanto all’elité cittadina che parlava un tedesco corretto. Da Ponte aveva appena ricevuto l’incarico di scrivere un nuovo libretto per il genio salisburghese e, ispirato da una vita tra giovani fanciulle, Tokay, tabacco e caffè, aveva ripescato dalla letteratura la figura di Don Giovanni, forse inventata da Tirso da Molina, ed esplorata senza successo da Carlo Goldoni. Don Giovanni è sostanzialmente un libertino con il catalogo aggiornato delle donne sedotte e conquistate in ogni paese d’Europa. Fin qui, sul mito del dongiovanni per eccellenza tutti sono d’accordo. Dove Mozart diverge da Goldoni, e altri che in vario modo hanno portato sul palco la figura dello sciupafemmine, è l’aspetto desolato di questa figura classica della letteratura. Infatti, per Mozart quel catalogo deve essere infinito in quanto amaro, perché segna l’incapacità di placare i sensi amorosi, dai quali Don Giovanni è intrappolato. Imperterrito, nonostante i continui segni della imminente fine di chi produce il male, egli si destreggia tra varie donne che subiscono il solo e lascivo fascino della spavalderia. Il suo servo, Leporello, passa il giorno e la notte a faticare per un padrone che non apprezzerà mai questi servigi. Elvira e Zerlina sono le ricorrenti prede del cinico seduttore, che alla fine delle danze si ritrova con un pugno di mosche in mano: la solitudine beffeggiata da una corrida di ricordi che non valgono un sol giorno, una sola ora di vero e romantico sentimento d’amore. Quello di Cavaradossi, per intenderci, che muore disperato, ma inneggiando alla vita!

Ildebrando D'Arcangelo (Don Giovanni)

In altre parole, l’amore in Don Giovanni colpisce proprio perché è il grande assente. Eppure, tre sono le figure femminili: le nobildonne Elvira ed Anna, quindi Zerlina, una semplice popolana. Tutte amano, ma in modo diverso. Anna ama Don Ottavio, forse sono fidanzati, ma al punto che nel buio della notte, tra le lenzuola del letto ella fatica a riconoscerlo. Don Ottavio canta arie eleganti, ma il personaggio non è drammaticamente all’altezza della situazione, anzi, è insignificante di fronte allo spessore umano di donna Anna, aggredita e addirittura privata del padre. L’amore di Anna è sublime sinonimo di sofferenza, esasperazione e privazione. Zerlina dovrebbe andare in sposa a Masetto, ma Don Giovanni le impone l’influenza del suo fascino e, alla fine, ella cede di schianto. I suoi sentimenti li capiamo dalla musica sottile, tanto che la serenata di Don Giovanni è talmente affascinante da apparire incredibilmente seducente, seppur cantata da un personaggio travestito.
Aveva in tal senso ragione Kierkegaard, quando scriveva che il Don Giovanni di Mozart è “un lavoro senza macchia, di ininterrotta perfezione”, proprio per l’equilibrio tra le più profonde sfumature di una sola e dominante trama narrativa: l’assenza dell’amore romantico. Pure Verdi se ne accorse, se è vero che la piena maturità, mostrata a partire da Rigoletto, parte proprio dalla scena finale del primo atto del Don Giovanni. Quando le tre donne inveiscono contro il libertino che per un attimo subisce il peso dell’imminente condanna per i suoi atti dichiarati osceni, ma si riprenderà velocemente per via di quel contagioso fascino, peraltro lontano dal vero sentimento amoroso.

Il punto centrale del Don Giovanni non è quindi l’amore come sentimento, ma il fatto che questo non venga mai genuinamente ricambiato. Questa assenza importante è tenuta assieme dalla sapienza compositiva del genio salisburghese, quindi dall’eterna vitalità di una imminente tragedia che si fonde e confonde con la burla sottile e irriverente del protagonista. Infatti, Don Giovanni non è il duca di Mantova che di fronte alla violazione della fedeltà proclama: “… sol chi vuole si serbi fidele; non v’ha amor, se non v’è libertà”.

Don Giovanni, Atto I

Don Giovanni non seduce veramente; si nutre, invece, di beffe e inganni. Il suo grande fascino, sempre sul filo di lana, sempre al limite della tragedia, ce lo rende simpatico, nella misura in cui in lui riconosciamo qualcosa di noi. L’amore vero(simile), invece, è quello di due sposi come Zerlina, traviata da Don Giovanni, e Masetto; ovvero, l’uno che difende la compagna la quale a sua volta deve difendersi dagli assalti di un altro. In definitiva, un amore che dà spettacolo, perché non si riduce al banale cincischio di baci e languide carezze, ma interseca le sue varie e più oscene sfumature.

Il Don Giovanni della stagione 2012, diretto da Daniel Oren con la regia e le scene degli assistenti di Franco Zeffirelli (verrebbe da dire, per essere sinceri) si è rivelato uno degli spettacoli più riusciti della stagione, anche grazie a un cast di cantanti capaci di restituire tutte le sfumature di un’opera spesso banalizzata al ruolo del libertino. Nella parte di Don Giovanni troviamo Ildebrando D’Arcangelo, abbastanza conosciuto per l’impeto della sua voce e sicuramente dotato di un’imponente presenza scenica, anche se debole sul lato interpretativo, poiché dà come l’impressione di risparmiare quel trasporto emotivo che in Arena fa la differenza.
Ineccepibile, invece, il magnifico Don Ottavio di Saimir Pirgu, nuovo astro nascente della lirica; albanese di nascita e bolzanino d’adozione (anche se ora vive a Verona). Saimir è dotato del c.d. strumento, ovvero una voce squillante, piena di colori che abilmente dosa grazie a una tecnica pressoché perfetta. Il risultato è all’altezza dei grandi tenori del passato, verso i quali Pirgu si sta avvicinando rapidamente. Ben eseguita la prova da parte del cast, in particolare il Masetto di Deyan Vatchkov. Oren, invece, come sempre rimane nell’olimpo della regia, questa volta dai tratti contenuta e quasi a servizio delle splendide arie di Mozart.
Menzione particolare per la scenografia e gli allestimenti scenici ad opera di Giuseppe Venezia, particolarmente apprezzati dal pubblico; in particolare la scena finale con Don Giovanni che esce mestamente di scena, condannato dalla penna di Mozart − che si sospetta abbia scritto l’opera nel corso di una sola notte − a vivere il resto della sua vita come fosse già arrivata la morte.

Roméo et Juliette

E proprio dalla morte e nella morte si consuma la tragedia dei due amanti più noti del panorama letterario internazionale: Romeo e Giulietta, ovvero Roméo e Juliette nella versione musicata da Charles Gounod. Giulietta è apparsa e Romeo l’ha subito amata, mentre Verona si trovava nel mezzo di una guerra infinita e fatale. Ovvio che la loro storia d’amore sia finita in tragedia, che è la forma più sublime di spettacolo, perché porta le passioni più estasianti alla fine più atroce. Non la pensa in questo modo Giulietta, secondo cui la morte assieme al suo Romeo è gioia infinita e suprema! Punti di vista, ovvero, macabra licenza letteraria con qualche aderenza alla cronaca di tutti i giorni.

Una guerra tra due famiglie, quindi, e due ragazzi uniti ma al contempo divisi dall’oltraggioso amore. Un amore impossibile e forse proprio per questo immortale, ai secoli che passano e alle mode che scorrono. Dopo oltre quattrocento anni, i due amanti sono sempre lì a disposizione di turisti e scolaresche, nella città scaligera, grazie al genio di Shakespeare e alla delicatezza di Gounod, tanto allievo di Wagner quanto ispiratore di Walt Withman, in un mondo lontanissimo dove l’italiano era la lingua franca della lirica e della letteratura.

Se andiamo a quanto visto in Arena, la sera del 26 luglio 2012, Aleksandra Kurzak è stata una bravissima Juliette, accanto al meno performante Stefano Secco, ovvero il Roméo della situazione. Questa volta ho portato con me un binocolo di provata potenza, per osservarli da vicino, i due amanti. Aleksandra e Stefano sembravano desiderarsi davvero e questo ha contribuito alla riuscita dell’opera per la regia di Francesco Micheli. Sul lato scenografico, l’allestimento già ammirato nel 2010 continua a convincere pienamente: un palcoscenico dal color rosso acceso, quasi fuoco, suddiviso in due emicicli speculari. Tensiocostruzioni in alluminio che simboleggiano la divisione della città in fazioni, come se torto e ragione non avessero una collocazione certa. L’ambientazione tardo-cinquecentesca è lievemente impressa nei costumi di scena, sfarzosi e pieni di quel gusto rinascimentale che fece da cornice al teatro seicentesco. Una delizia per l’occhio, ovvero un piacere per l’udito, quest’opera carica di infantilismo, colma di quell’amore ingenuo che andiamo a cercare per tutto il corso della nostra esistenza.

Aleksandra Kurzak (Juliette)

Forse è quello che andava cercando Gounod; sicuramente tra quei compositori capaci di trovare negli impulsi immediati una cornice comunicativa vicina all’esperienza delle persone comuni. Non a caso, ai suoi librettisti, Jules Barbier e Michel Carré va il merito di avere infilato le pantofole delle convenzioni sociali a Goethe e Shakespeare, rendendo le loro opere facilmente comprensibili a un vasto pubblico. Sensibile romantico ottocentesco, Gounod ha pescato a piene mani dal teatro mozartiano, dal settecento francese popolato di cortigiane, giocatori disonesti e vecchi ruffiani, senza mai dimenticare la sua vocazione ecclesiastica condita da frequenti passioni extraconiugali. In questo senso, la direzione di Fabio Mastrangelo − briosa, mai piana e ricca di cambi di ritmo − ha restituito in pieno quel necessario mix di romanticismo, rivalità cittadina e decadenza sociale che completano le gesta dei due folli amanti.

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