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Omnia

L’uragano Sandy, tra Natura e Cultura

I diversi piani della comprensione dialettica

Passaggio di Sandy sulla costaSandy è passato, lasciando una scia di morti e distruzioni nell’America Centrale e sulla costa est degli Stati Uniti; la città di New York tuttora risente dei contraccolpi di disagi mai provati nella sua storia, dalla prolungata chiusura della metropolitana e degli aeroporti, di milioni di persone e intere zone di Manhattan costrette all’evacuazione o a rimanere per giorni senza acqua e corrente elettrica.

La storia contemporanea sembra non darci tregua in materia di cataclismi naturali, ammiccando in maniera sempre più insistita al mito del 2012 e della prossima fine del mondo. Quando siamo davanti a notizie del genere, ovvero quando ascoltiamo di tragedie e sciagure determinate da fattori climatici, terremoti, tsunami, allora la reazione popolare più diffusa si esprime soprattutto basandosi su due convinzioni che in questo articolo tenteremo di problematizzare per evidenziarne i limiti;

La prima delle due tesi fa riferimento alla concezione, derivante da una certa tradizione leopardiana, che vede nella natura una matrigna che metafisicamente si erge contro il destino degli uomini, non curandosi delle loro sorti.
La seconda, strettamente connessa alla prima essendone un necessario sviluppo e conseguenza, è la presa di coscienza da parte dell’uomo della sua piccolezza e miseria dinanzi alla furia della natura, la vanità dei suoi progetti e la sua incapacità di reagire a ciò che per definizione si pone come incontrollabile, imprevedibile, evenemenziale.

In questa maniera, l’uomo acquisisce più o meno coscientemente il diritto da un lato di fronteggiare quella natura nemica, intesa in termini oppositivi, soprattutto attraverso il sapere tecno-scientifico in grado di ammaestrare e controllare ciò che eccede ontologicamente le nostre facoltà di comprensione; dall’altro, sempre sulla scorta della lezione di Leopardi, questa tragica condizione umana costringe la nostra specie a superare le puerili contrapposizioni effimere e banali per stringerci nella lotta comune e resistere ai colpi dell’insensibile “matrigna”.

Il primo sforzo è quello di liberarci definitivamente da ogni prospettiva antropomorfica rivolta alla natura: attribuire ad essa una qualsiasi intenzionalità, moralità, volontà è un errore grossolano che deve essere evitato, più giusto pensare ad essa come “fato” imperscrutabile in ognuno dei suoi sviluppi, e la scienza non sarebbe che un processo interpretativo asintotico che tende all’infinito alla rivelazione definitiva del mistero.
Tuttavia, il nodo teoretico-filosofico più complesso si pone sul piano del millenario e irrisolto dibattito sul rapporto tra Natura e Cultura; il primo piano interpretativo, quello più semplicistico inquadrato nelle due massime popolari, contrapporrebbe l’Uomo, espressione e fautore della Cultura, della Storia e della Civiltà, che in tutta la sua evoluzione ha tentato in ogni modo di arginare il fato e l’ignoto, alla Natura, che se per la maggior parte dei casi in quanto Madre ha sempre accolto i propri “figli” offrendo loro le condizioni stesse della loro sopravvivenza, allo stesso tempo possiede il potere di vanificare tutto in pochi istanti determinando disgrazie e catastrofi. I limiti di questa rigida dicotomia sono evidenti fin da subito: le due dimensioni, quella culturale e quella naturale, invertono continuamente le parti, si confondono confluendo l’una nell’altra senza possibilità di chiaro discernimento.

Il secondo piano, infatti, è ovvio: l’Uomo è espressione della natura, e portando all’estremo tale posizione potremmo persino negare la possibilità di una dicotomia con la Cultura, che finirebbe sempre e comunque assorbita nella sfera della Natura Assoluta. Tutto sarebbe Natura, le stesse produzioni dell’uomo, il suo ingegno, ogni singolo pensiero, dal più banale al più elevato, di ogni singolo uomo vissuto e vivente sul pianeta sono sua espressione ed emanazione; persino gli atti che mettono in discussione e a rischio la sopravvivenza di quello stesso pianeta rientrerebbero in questo grande Uno panteistico, e in tale determinismo assoluto allora, come avrebbe sostenuto Hegel, saremmo nella “notte dove tutte le vacche sono nere”, l’identità assoluta davanti alla quale tutto è inutile, dove non esiste differenza, opposizione, possibilità di mutamento e libertà. D’altronde, lo stesso dicasi della convinzione che tutto sia Cultura, perché tutto, Natura compresa, suo malgrado passa attraverso il filtro della coscienza individuale o collettiva, sia quando la giudichiamo, sia quando gli assegniamo sentimenti e passioni, e la riteniamo bella o brutta, pacifica o terribile, rilassante o impetuosa. Tali due posizioni rappresentano una chiara “antinomia kantiana”, che attesta i limiti della nostra ragione dinanzi all’evidenza che esse potrebbero essere entrambe a piacimento sostenute o rifiutate.

New York allagata

Il terzo piano, col quale torniamo al caso determinato dal quale siamo partiti, ovvero l’uragano Sandy, inverte nuovamente dialetticamente le figure: tutti i maggiori scienziati sono d’accordo sul fatto inquietante che la frequenza oramai puntuale di fenomeni climatici estremi (dalla siccità agli uragani che stanno angustiando tutto il mondo) è determinata dal surriscaldamento globale degli oceani e dall’innalzamento delle temperature. Queste trasformazioni “naturali”, neanche a dirlo, sono determinate dallo sfruttamento umano delle risorse, dall’inquinamento indiscriminato, dal rifiuto delle maggiori potenzi industriali del mondo di prendere decise e rigorose contromisure, e potrebbe sembrare ironico, se non fosse tragico, e cinico constatare come due dei paesi in questione, USA e Canada, abbiano subito i contraccolpi più gravi del rifiuto di firmare il Protocollo di Kyoto (senza parlare dei tifoni che devastano la Cina anno dopo anno). Certo, il discorso sarebbe diverso a proposito dei terremoti, ma i cataclismi naturali sono manifestazioni dell’ignobile indifferenza dell’uomo verso la natura, ed è tutto ancor più agghiacciante al pensiero che, solitamente, tali stravolgimenti richiedano quanto meno il tempo di un passaggio generazionale, mentre oggi gli stessi responsabili subiscono sulla loro pelle le conseguenze delle loro colpe (compresi noi italiani).

Insomma, l’America sarebbe vittima di se stessa, vittima della propria logica produttiva sconsiderata e arrogante nei confronti degli equilibri naturali, spinta da una smania irrefrenabile per il consumo, senza riguardi per la salute del pianeta. In questo senso, allora, la Cultura avrebbe determinato la Natura, e siamo al quarto vertiginoso piano della nostra speculazione dialettica: l’Uomo sarebbe l’unico responsabile del suo destino, non ci sarebbe alcuna malignità da parte di una presunta entità superiore bensì una sorta di suicidio bulimico della Cultura occidentale tardocapitalista.

Concludiamo la nostra “spirale” ermeneutica arrivando all’ultimo piano dell’analisi: l’Uomo sarebbe vittima di se stesso, la Cultura subisce i colpi della Natura dopo averne determinato il corso e l’attività. Questo conformerebbe la prima massima popolare: l’Uomo sarebbe un microbo dinanzi al fato e alla potenza distruttrice della Natura. Ma da quanto detto diviene evidente anche l’inverso: la Natura determinata dall’Uomo non potrebbe rappresentare un’espressione di titanismo di quest’ultimo, la dimostrazione orgogliosa del proprio potere sul fato e sugli eventi?
Altro che piccolezza in balia della furia maligna! La potenza dell’Uomo è tale da poter – egli – sconvolgere la Natura, e questo è il passo decisivo che costringe ciascuno di noi a passare dal vittimismo alla presa di coscienza della propria responsabilità, e della consapevolezza di quanto influiscano le scelte individuali sulla sanità del mondo che abitiamo. Sandy e New York sarebbero così entrambe vittime ed carnefici, cause e conseguenze, Natura e Cultura, senza possibilità di definitiva esaustività. 

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