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Percorsi

A croato con Pravato

Incontro con Azra Nuhefendić all'interno del corso di serbo-croato di Federica Moro per Bottega Errante e Trieste Film Festival (šesta lekcija)

Azra Nuhefendić Quando giungo presso la sede della Cappella Underground per la sesta lezione di serbo-croato, quella in cui Azra Nuhefendić ci racconterà dell’uso propagandistico della lingua come arma, manca ancora una manciata di minuti all’inizio, così mi trattengo al telefono con un amico, raccontandogli con entusiasmo quello che sto per fare.

I lettori sappiano, a questo punto, che io ci vedo poco, specialmente al buio, così impiego un po’ più del necessario per accorgermi che una delle due figure che si stanno dirigendo con passo deciso verso l’ingresso dell’edificio è Chiara di Bottega Errante. Mi prefiggo di salutare il mio interlocutore non appena egli commetta la leggerezza di prendere fiato. Intanto, mi affretto a entrare.

La persona con Chiara mi tiene la porta. La persona con Chiara è – com’era ovvio che fosse – Azra Nuhefendić. Io ho ancora il braccio sinistro all’orecchio quando la saluto e non si capisce se il mio “Buonasera” è detto a lei o nel telefono.
Nel corso della mia disutile esistenza ne ho fatte, di figuracce, e so che – a meno che non resti secca mentre scrivo queste righe – ne farò ancora, tuttavia la figura del “Berlusconi che parla al telefono quando arriva la Merkel” credevo che non l’avrei mai fatta; invece, eccomi esibirmi nella parte davanti all’autrice de Le stelle che stanno giù.

Non sapendo dove andare a nascondermi, salgo imbarazzata “a lezione”.
La presenza della giornalista bosniaca e la possibilità di assistere all’incontro anche per chi non fosse iscritto al corso hanno richiamato un pubblico più numeroso (fra il quale riconosco il professor Crivelli, che per fortuna non riconosce me, e cui più tardi si aggiungerà Giacomo Scotti), che ha già preso posto, ansioso di ascoltare.

Azra Nuhefendić, che attualmente vive e lavora a Trieste, è una giornalista di Sarajevo, vissuta per i dodici anni precedenti il conflitto a Belgrado, dove ha lavorato per la TV di stato occupandosi di politica e realizzando reportage che le sono valsi diversi riconoscimenti.
Come esperta di comunicazione, dunque, ha udito subito i campanelli d’allarme della frattura che l’uso di un tale nuovo linguaggio avrebbe esacerbato.
Come giornalista, ha assistito al favoreggiamento messo in atto dai colleghi che si allineavano alla propaganda.
Come donna, come bosniaca e come musulmana ha fatto esperienza diretta dell’odio razziale.

Attraverso un uso accorto – e criminale – delle parole, infatti, i Bosniaci sono diventati rapidamente diversi dai Serbi (e dai Croati), da fratelli si sono improvvisamente tramutati ne “gli altri” , i diversi, i nemici.
Come la storia della Germania prima della seconda guerra mondiale avrebbe dovuto insegnarci, quando uno stato è in grado di controllare il linguaggio dei media e di utilizzare la lingua con accortezza, può plasmare il pensiero delle persone e creare consenso alle cose più terribili e, fino a poco prima, inimmaginabili. Se è la lingua che ci fa eguali, la lingua è capace di inventare diversità che non c’erano.

Cimitero a Sarajevo

Il conflitto nei Balcani ha i tratti raccapriccianti della guerra in casa, nella civilissima Europa, all’interno di un medesimo popolo. La generazione di Azra, come ciascuno di noi istintivamente fa, se stimolato a una simile riflessione, se ha mai pensato all’eventualità di una guerra, l’ha immaginata verso un nemico straniero, un ipotetico “altro” venuto in qualche modo a minacciare quello che veniva percepito come un Paese unito e unico; invece la Jugoslavia è implosa, si è cannibalizzata da sola, anche a causa di un uso della lingua improvvisamente volto a distinguere, creare un diverso e, quasi per conseguenza naturale, un nemico.

La responsabilità dei media, in questo processo, è enorme.
Essi hanno diffuso questa nuova lingua e i nuovi sentimenti che essa ha portato fra la gente comune. Gli interessi politici di pochi sono diventati, attraverso un così sapiente e capillare lavaggio del cervello, le convinzioni di una popolazione.
Chi è ricco e vuole diventare potente deve riuscire a controllare i media e, con essi, l’informazione. In questo modo, modula la percezione della realtà di un intero popolo, che ne sosterrà “liberamente” gli interessi, qualsiasi essi siano. Azra Nuhefendić, a questo punto, ci porta l’esempio del magnate australiano Rupert Murdoch, al quale sfido chiunque ad aver pensato.

Nel corso degli anni Ottanta, dunque, i media delle varie repubbliche della ex-Jugoslavia hanno iniziato a criticare la politica degli altri stati. Da qui, è stato breve il passo alla critica del singolo uomo politico e, per estensione, della popolazione itera di quel Paese. Da un giorno all’altro, i Bosniaci sono diventati gli “altri, i “diversi”; si è inventato un linguaggio con parole nuove per enfatizzare questa distinzione, e se ne sono applicate altre a sproposito, tramutando i fratelli della Bosnia in “islamici”, “musulmani” e “fondamentalisti”.

 Alcuni di noi – io per prima, che all’epoca dei fatti non ero più una bambina, ma non avevo ugualmente compreso le dinamiche del conflitto – hanno ricordi confusi dell’inizio della guerra. La Nuhefendić, allora, ci racconta che l’ostilità partì dalla Serbia. All’epoca il Paese stava attraversando una grave crisi economica e le istituzioni democratiche erano poco sviluppate. Lo Stato si scrollò di dosso le responsabilità, individuando nei Bosniaci il capro espiatorio: “i musulmani ci rubano il lavoro”, “la Bosnia è storicamente serba per metà”, “è giunto il momento di rendere giustizia alla Serbia” erano frasi e concetti che andavano rapidamente acquistando credibilità, per il solo fatto di essere diffuse e ripetute.

Il conflitto divenne realmente inevitabile quando gli intellettuali sparsero la voce che lo fosse, rendendolo accettabile.

Sarajevo red line

Vennero riesumate le ossa dei morti della seconda guerra mondiale per esaltare l’eroismo del popolo serbo e l’orgoglio di appartenervi. Il mito della battaglia del Kosovo, consolidato da secoli, crebbe di popolarità; in quello scontro, da cui uscirono sconfitti e decimati, i Serbi fecero fronte all’avanzata dell’Impero ottomano, furono, cioè, il baluardo della cristianità immolato per la difesa dell’Europa. Dopo seicento anni, i musulmani erano nuovamente gli usurpatori e una minaccia, e i Bosniaci erano la loro incarnazione.

Nelle prime fasi del conflitto, Croati e Bosniaci combattevano coalizzati contro i Serbi, ma successivamente, quando è stato chiaro che la comunità internazionale si stava disinteressando del conflitto, i Croati hanno aggredito i Bosniaci.
Da un giorno all’altro, anche la stampa croata ha capovolto il proprio atteggiamento – e con esso l’opinione della popolazione – verso i Bosniaci. Ciò è potuto accadere perché era già stato attuato un repulisti nelle redazioni dei vari organi di informazione.

Politici e giornalisti hanno spiegato il conflitto dicendo che i popoli della ex-Jugoslavia si sono sempre mal tollerati, che sono ostili e bellicosi, quasi geneticamente inclini all’odio e al conflitto, mentre è stata proprio la diffusione e la crescente familiarità con questi assurdi luoghi comuni a rendere accettabile la guerra.

Dopo il conflitto, la lingua ha continuato ad essere strumento di divisione e creazione di diversità inesistenti.
La politica ha promosso e diffuso la convinzione che ci sia corrispondenza fra stato, nazione e lingua, e – di conseguenza – anche la convinzione che le lingue siano diverse. In Croazia, i gli intellettuali “purificatori della lingua” mirano a eliminare ogni serbismo dal linguaggio, lamentando – ad esempio – che i film serbi non siano tradotti.

Biblioteca nazionale a Sarajevo durante il restauroAlla stessa Azra Nuhefendić, in occasione di un interpretariato in Croazia, è stato fatto notare che non ha usato i termini adeguati, poiché in diversi casi non aveva scelto quelli croati. Vivendo da diversi anni a Trieste, infatti, ed essendo bosniaca, infatti, la Nuhefendić non conosce i nuovi vocaboli inventati negli ultimi anni per esasperare le diversità fra le diverse parlate e crearne di nuove.

Le tensioni non sono finite e l’esasperazione del purismo linguistico non fa che spianare la strada a nuove ostilità.

Commenti

2 commenti a “A croato con Pravato”

  1. E’ molto interessante leggere il racconto di come ha avuto l’inizio tutto quanto le persone come me hanno potuto vedere solo da lontano (seppur da uno stato confinante). Nei mesi dell’indipendenza slovena, ad esempio, ero sempre sintonizzato sul canale tv di Koper; ricordo ancora oggi certi telegiornali nei quali si raccontava l’inizio di un conflitto, che per quelli della mia generazione era inimmaginabile. RIcorderò sempre gli occhi ed i volti dei cronisti di quei telegiornali. Questo articoli non fa che ricordarmi le emozioni e le sensazioni che si provavano.

    Di Stefano Galletti | 21 Marzo 2013, 14:01

Trackbacks/Pingbacks

  1. […] sola e la pretesa di identità di ciascuna parlata è una strumentalizzazione politica, come anche Azra Nuhefendić ha testimoniato, è altrettanto vero che gli alfabeti sono due, e ci sono alcune zone in cui non è […]

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