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Percorsi

Tra i cunicoli umidi e claustrofobi della resistenza vietnamita

Trascorro i successivi tre giorni tra le popolane viscere della Saigon sacra e civile ad un tempo, ovvero di questo tempo, dei primi anni del XXI secolo. Mi rintano nelle innumerevoli pagode disseminate nel distretto 5, lascito chissà quanto benvoluto delle reiterate occupazioni cinesi. Visito vari templi dedicati a imperatori, eroi nazionali, e divinità di varia estrazione storico-pagana. Lascio che i sapori speziati del sud del paese continuino a viziare i miei istinti e le mie suggestioni. Cerco con alcuni massaggi benevoli e innocenti di abbandonare per qualche istante l’afa delle ore più calde e i ritmi piuttosto demanding della città tutta. Sarà per questo, anche, che una certa indole inerziale affligge molti autoctoni, abili dissimulatori di una vita che s’ha da vivere, ma senza per questo esserne sopraffatti.

Pagoda

Poi, la sera del terzo giorno, rientrato esausto alla pensione Orient House, realizzo che la mia stenia è sintomo di un’overdose generalizzata da urban life. Ho uno stremato bisogno di evadere lo smog di Saigon, i suoi rumori, il suo tracotante tentativo di voler essere troppe cose in un solo momento, di voler diventare tutto – metropoli, centro commerciale, hub finanziario, luogo di memoria – nella sincope di pochi decenni. Mi pare di camminare sulle pagine grinzose di un corso accelerato di devianza storico-antropologica made in the West, spettatore passivo, inerme, centrifugato più che coccolato, e al quale non riesce neppure più l’esser perplesso, o anche solo il mostrare una qualsivoglia rielaborazione critica attraverso sopracciglia timidamente aggrottate. That’s it. Pausa. I need to breath. Sicché decido di chiedere consiglio alle giovani hostess della pensione per organizzare una visita in giornata alle gallerie di Cu Chi, lungo la statale 22, in direzione Laos-Cambogia-et-reste-de-la-Cochinchine

Cu Chi, oltre ad essere un piccolo centro, identifica metonimicamente una più ampia area semi-urbana a circa 50 chilometri a nord-ovest di Saigon. Fin dagli anni Quaranta, l’esercito di liberazione vietnamita iniziò a costruire qui una fitta rete di trincee sotterranee che potessero favorire la resistenza dei Viet Minh contro l’esercito francese. Soffocate le ambizioni colonialiste dei pronipoti napoleonici (1954), non passò molto tempo (1962) che lungo le coste meridionali del paese sbarcarono in massa gli “alleati” americani del generale Diem, sicché le trincee, che non avevano mai terminato effettivamente la loro funzione neppure negli primi anni della neonata e precaria Repubblica del Vietnam (1945), furono estese e rafforzate. All’epoca dell’inizio del conflitto con gli Stati Uniti, la regione che si estende tra Saigon e il confine cambogiano era percorsa da oltre 250 km di gallerie tanto invisibili agli occhi dell’intelligence americana, quanto di estrema efficacia e strategicamente imprescindibili per Ho Chi Minh e i suoi, giacché garantirono rifugio a quasi 20.000 vietcong durante oltre dieci anni di resistenza. È da Cu Chi che, durante la festività del Têt nel 1968, partì un attacco a sorpresa contro le truppe americane, la cui assoluta impreparazione comportò migliaia di vittime. L’imboscata si rivelò un successo militare per i vietcong, ma se da un lato essa sancì, de facto, l’inizio della ritirata statunitense dal pantano del Vietnam – sospinta e trascinata dall’eco della vergogna patrìa – dall’altro lato concesse carta bianca ai gerarchi della US Army per mettere in atto una delle rappresaglie più sanguinose e violente nella storia dell’umanità. Interi villaggi furono saccheggiati, distrutti, e bruciati ricorrendo a inusitati bagni di napalm, le cui conseguenze sull’intera regione perdurano ad oggi. È una terra di silenzio, quella tutt’intorno a Cu Chi, una terra viziata dal sentore della morte, in cui si respira il peso, oppressivo, antropologicamente insostenibile, poiché l’uomo ne è, consapevolmente, la causa prima, dell’assenza di varie forme di vita animali e vegetali. Arsa, ingiallita, incapace a crescere e fruttare, la flora di queste zone è afflitta da una cancerosa maledizione a stelle e strisce; mentre la fauna, quando ha potuto, quando vi è riuscita, ha optato per altri lidi meno contaminati; oppure è perita insieme ai soldati di entrambe le bandiere. Non è un caso se Cu Chi sia considerata oggi la zona più bombardata al mondo.

Galleria Cu Chi

“Would it be possible to arrange an excursion to Cu Chi?” chiedo alla hostess più alta che subito si apre nel consueto sorriso vietnamita “Cu Chi, Cu Chi, sure!” incalza lei riprendendo, al solito, le ultime parole di ogni petizione che le viene rivolta. “My cousin organizes excursions to Cu Chi. She is a very good guide… Tomorrow at 8 am she will be here to pick you up…”. Affascinato dalla solerzia con la quale la mia richiesta ha trovato risposta, domando: “Are there other people interested?” “Yes, sure, always!” mi dice con entusiasmo, confermando quello che, invece, era un mio circostanziato timore, ovvero che si sarebbe trattato di una tipica WTE: Western Tourist Excursion. “That’s ok”, aggiungo con un sorriso dissimulato; “How much is it in dong?”, “15 dollars”, prova a contrattare lei, preferendo moneta forte alla local currency. “I only have dong” mento, chinando il capo di lato, quasi a chiedere perdono. “For you, it’s… 300.000 dong”. Non so cosa intenda esprimere con il preambolo “for you”, poiché 300.000 dong sono esattamente 15 dollari, ad ogni modo, con un’espressione di equivoca satisfaction, accetto la somma e anticipo 150.000 dong. “Thank you!” dico mentre sono già in direzione delle scale “See you tomorrow at 8 o’clock!” risponde lei e poi aggiunge, quasi a sancire il valore del nostro recente agreement: “my cousin is a very good guide”. Benedetta affabilità vietnamita.

“My cousin is a very good guide”. Fino alle 8.13 del mattino seguente non avevo dato gran peso a questa frase, ritendendola una valutazione sospinta in larga parte da intenzioni spicciolamente affaristiche, al più di sentita (auto)difesa delle virtù professionali di famiglia, scevra però di possibili reflussi emotivi. Poi, alle 8.13, quando mi sono trovato davanti per la prima volta Cham, la cugina dalle doti virgiliane ancora tutte da scoprire, ho pensato che in quel “very good guide” non giacesse soltanto un encomio parentale, ma qualcosa di più esteticamente marcato. “Hi, I’m Cham”, mi dice una figura graziosamente minuta dal disegno delicato e dalle forme precise come quelle di un bozzetto di maison. I capelli a caschetto incorniciano un viso rotondo e tonico. “Nice to meet you” rispondo io, senza essere in grado di aggiungere alcunché ad una frase di imbarazzante banalità. “Come, we have to join the others on the bus”, mi sollecita indicando un minivan parcheggiato in tripla fila – esenti le quattro frecce – a qualche centinaio di metri dalla pensione. E così, zaino in spalla, mi accodo a quelle curve delicate, immergendomi nel primo traffico della city. “Stefano, I know that you are Italian, Pin told me”, continua lei con tono deciso per superare i decibel metallici che ora ci circondano. Pin è la hostess dell’Orient House con cui avevo arrangiato l’escursione il giorno prima. E poi rifletto: Stefano?! I never told Cham my name. Good memory, good guide. “I love Italy!” prosegue mentre acceleriamo il passo “I went in Rome two years ago to visit the eternal city and learn the language… ma parlo poco”, si appresta a scusarsi. “Oh, that’s great! I studied in Rome three years… By the way, I can help you with your Italian, if you want!” La sua risposta è una risata strozzata dall’imbarazzo. Poi, fortunatamente, è tempo di salire sul minivan.

Minivan

In tutto, siamo otto passeggeri, più Cham e l’autista, un ragazzino scaltro che sembra guidare da sempre, nonostante la sua giovane età. Come tutti i vietnamiti, d’altronde. Mi siedo nell’unico posto libero, accanto a un tizio con un cappellino da baseball. “Salut, I’m Richard”, mi dice. E mi bastano quel “salut” e quella pronuncia greve, aperta, monosillabica – a rivendicare la propria esistenza nominale – per capire che Richard è francese. “Salut, je suis Stefano”, rispondo istintivamente nella sua lingua. Richard solleva la visiera del cappellino con uno sguardo sorpreso: “Ah! Tu parles français?!” Ed è il sasso che scatena la frana. Talvolta viaggiare da soli serba alcuni inaspettati e insospettabili inconvenienti: il dover andare in bagno insieme al proprio zaino, per esempio, oppure il trascorrere diversi momenti di silente solitudine, per poi aprirsi in indefessi e involontari soliloqui non appena si incrocia una persona dalla vaga familiarità. E quest’ultimo è proprio il caso di Richard. “Tu viens d’où? Bon, l’Italie, on est voisins alors”, mi dice. E poi, ancora: “Tu vas où après Saigon? Ça fait combien que t’es en route? Tu voyages tout seul, toi? Pas mal la nana, eh?”, “Non, pas mail, en fait…”. Richard ha 34 anni e mi racconta che fa il magazziniere in un centro Auchan nella prima periferia est di Parigi. Lavora dieci mesi l’anno e nei restanti due gira il mondo, da solo, sebbene conviva con una ragazza in un monolocale atomizzato dalle parti di Gallieni. Vanno d’accordo, ci tiene a precisarmi, ma si concedono anche parecchie reciproche libertà, e quello che avverto come un silenzio di troppo, o anche solo eccessivamente prolungato, tra le parole “beaucoup” e “liberté” si porta appresso alcune mie supposizioni libertine.
Banlieu pariginaGli dico che qualche anno prima ho studiato a Paris VIII, Università sessantottina e proletaria della banlieu parisienne. “Ouais, je connais”, mi dice, “trop de petards là bas!” a suo modo di vedere, insomma, una sorta di opificio legalizzato. E poi aggiunge, con tono più agrodolce, “t’as eu de la chance à étudier, si je pourrais, je voudrais bien aller à la fac, n’importe laquelle…”. E volge lo sguardo altrove. Chissà da quanto tempo lavora, Richard: questo mi chiedo mentre ne osservo lo sguardo lucido, ma non ho realmente il coraggio di domandarglielo. Eppure, l’occasione perduta di trascorrere indolenti pomeriggi sui libri pare essere solo un estemporaneo pensiero nel suo flusso di parole; vi si sofferma sopra un istante come a vagliare in alcuni secondi i pro e i contro delle sue scelte, del suo modo di vivere, del suo essere qui e ora a Saigon; e poi, apparentemente soddisfatto e sollevato da un tale incontro à deux con la propria coscienza, ricomincia a parlarmi. Mi racconta dei suoi amici, dei suoi turni di lavoro, dei suoi viaggi, peregrinazioni non di evasione, mi dice, ma d’inclusione: “Plus je voyage, plus je connais le monde, et j’en suis partie”. In passato ha già viaggiato in alcuni paesi del Sudamerica, tra cui Venezuela, Cile, Ecuador e Brasile. Quest’anno ha scelto il sud-est asiatico. Giunto a Bangkok ha visitato il nord della Tailandia e la Cambogia. È in viaggio da un mese e continuerà a girovagare per il Vietnam per altre tre settimane. Sotto l’impeto delle sue parole, che tracciano con forza il percorso di un’odissea ad economia ristretta, fatta di rifugi improvvisati e saltuari favori retribuiti, il mio itinerario sbiadisce tutto il suo goût exotique. Eppure, bisogna avere l’onestà per ammettere a se stessi che sulla strada si incontrerà sempre qualcuno che è in viaggio da più tempo di noi. Si tratta non solo di una inevitabile necessità, ma anche di una fortunosa risorsa a cui poter attingere con solerzia d’animo, se solo si ha l’inclinazione a coltivare il tempo dell’attraversamento con i racconti di chi ci ha preceduto. E allora Richard mi riempie di consigli, di cui prendo avidamente nota sul mio carnet: visita alla foce del Mekong: da fare; Hoi An: assolutamente imperdibile; Nah Trang convulsa; Sapa “hors du monde”. Fuori dal mondo. Come la nostra conversazione in minivan.

Il viaggio verso Cu Chi dura circa un’oretta ed è cesellato dalle buche sull’asfalto, dai clacson spianati e, oltre a quelle di Richard, dalle parole di Cham, che ci istruisce su ciò che vedremo e faremo. Nei rari momenti di silenzio riesco a dare un’occhiata fuori dal finestrino e mi rendo conto che il paesaggio non sembra cambiare mai, semplicemente si dissolve e si ricompone in forme agro-urbane dalle mutevoli sembianze. La periferia di Saigon, praticamente interminabile, si dipana come un ininterrotto strascico di costruzioni fatiscenti, fabbriche e cantieri-mai-conclusi. E mi domando se la città abbandonerà mai questa sua condizione precaria, intrappolata in una transizione multidirezionale e, in ultimo, senza alcuna logica.

Le gallerie di Cu Chi sono affascinanti ed evocative nella loro claustrofobica dimensione. Claustrofobico è non solo il volume di questi tunnel che sembrano costruiti da una civiltà lillipuziana, ma soprattutto il pensiero che migliaia di persone vi abbiano dimorato per giorni, settimane e anche per mesi, senza mai rivedere la luce del sole, oscurate nell’animo dal terrore e soffocate nei polmoni dal napalm che contaminava il mondo tutt’intorno. Detto questo, purtroppo anche le gallerie di Cu Chi hanno un degenerante touristic side che, ludicizzando ogni aspetto della guerra – si possono provare elmetti, divise e finanche sparare con un kalashnikov in un poligono di tiro appositamente adibito – dissacra la sofferenza umida che l’ambiente ancora trasuda. E noi non siamo che l’ennesimo caravanserraglio a dissacrare, con i nostri flash dal macabro retrogusto d’avanspettacolo, i cunicoli della resistenza. Omaggiare la storia, mi dico, si deve omaggiare la storia. Ma come? Viaggiando e conoscendo, certo. Ritornando laddove la storia è passata, se necessario. Ma questi luoghi devono essere conservati in materia e kairos, e non solo nel loro icasico allestimento del presente, giacchè preservarne solo il kairos condurrebbe a nutrire simboli il cui valore, sradicato da ogni contingenza, verrebbe saccheggiato e ideologizzato da più parti; mentre preoccuparsi solo della materia, come nel caso di Cu Chi, sottende inesorabilmente una quotidiana e reiterata profanazione. Entrambi i casi sono manifestazioni speculari dell’oblio che avanza. Annoto queste parole nella speranza che, sulla carta, acquisiscano una verità di cui non riesco a intravedere la ragione; lo scrivere, tuttavia, non mi aiuta a quantificare la disapprovazione e non riesco a capire se essa sia condivisa o se sia, invece, solo un afflato di purezza manieristica del tutto personale. Quanto è giusto condannare? Quanto è giusto che io abbia una posizione così intransigente? Esiste la possibilità di un altro compromesso?

Poligono di tiro

Pausa pranzo. “Cham, may I ask you a question…” “Sure!” “I am sorry to ask… but… I would really like to understand… what do you think of all this?” E nel momento in cui porgo la domanda, mi rendo conto di quanto io l’abbia posta non solo in modo banale, ma soprattutto alla persona sbagliata. “The war?” mi chiede lei. “Not exactly… I mean, about… this”, dico allargando le braccia “about tourists and Kalashnikov and souvernirs…”, “I know what you mean” mi risponde. E poi si ferma un istante a riflettere. “I think it’s good people know what happened… then you decide what to think… tourists are necessary to keep this place opened.” E aggiunge: “You know, I was lucky because I studied at the University up in Hanoi… I studied Tourism Management… I really want foreigners to visit Vietnam… I want them to know…”. Nelle sue parole c’è una pulsione di interesse, un grido vocativo, e certamente anche generazionale. How could I blame her? Cham mi racconta che suo padre ha lavorato per diverso tempo al ministero degli affari esteri. Alla fine degli anni ’60 fu tra i giovani “attivi” che sull’onda di un nazionalismo utopicamente egualitario attraversarono più volte il Vietnam in tutta la sua lunghezza, lungo il confine con il Laos, al timido riparo di montagne e colline sempre troppo basse e scoperte. Un sentiero che ad ogni chilometro si portava appresso il peso della precarietà della vita, tra croci, lapidi e fosse comuni. Un sentiero che ha vissuto per anni in un eterno presente, rintoccato dalle granate, dalle mine, dalle ricognizioni aeree. Poi, dopo la guerra, suo padre è riuscito a trovare un impiego al ministero anche grazie a quel poco inglese che era riuscito a imparare nelle notti trascorse a vegliare la vita dei compagni. “He still lives in Hanoi” mi dice Cham riemergendo con la voce e l’immaginazione dal suo racconto “with my mother and my older brother… while I live here with my younger sister”.
Sentiero di Ho Chi MinhA quel punto si frappone tra noi una pausa; ci guardiamo intorno per ricostruire un contatto con l’esterno; qualche istante appena; il resto del gruppo sta ancora mangiando ad un tavolino poco distante; Richard si fuma una sigaretta itinerante e mi strizza l’occhio, accennando con una smorfia divertita a Cham. “So, where did you get in Rome?” le chiedo incuriosito, ruotando la mia posizione di quarantacinque gradi così non incrociare più lo sguardo beffardo del transalpino. Cham si apre in un sorriso delizioso, un sorriso che parla: it was about time you asked, sembra dire. E di nuovo mi ritrovo in una selva di parole che recuperano suggestioni, impressioni, idee, umori. “A Roma è stato stupenda…”. I racconti di Cham sono sorridenti, energici, allusivi, le sue peregrinazioni nella città eterna si mescolano ai miei ricordi degli anni passati nella capitale a studiare e lavorare, certo, ma anche a fare altro. Soprattutto altro. Poi racconto a Cham della mia esperienza in Australia come insegnante di italiano, e della mia decisione di visitare il Vietnam. Rivedo il mio passato venirmi incontro e raggiungermi, un passo alla volta, proprio come le storie dei vietcong di cui lei, the very good guide, mi ha messo al corrente. Il tempo passa, le parole dettano il percorso immaginativo dei pensieri e i silenzi scandiscono il bisogno della riflessione. Fino a quando arriva il momento di ripartire: il passato sublima, allora, nella necessità del presente e siamo riaccompagnati verso l’ovile urbano di Saigon con qualche ora in più nel nostro vissuto.

L’ultimo a salire sul minivan e l’ultimo a scendere. Arrivati davanti all’Orient House saluto l’autista, prendo il mio zaino e faccio per ringraziare Cham con un mezzo inchino del capo. Lei mi guarda un po’ storto; io mi fermo un istante, senza capire la mia colpa presunta, o anche solo come dovrei interpretare quel suo sguardo a metà. Due continenti ci separano. “Tomorrow I do not work, if you want I can bring you to Mekong Delta” mi dice d’un fiato. “For free”. Rimango in silenzio a guardarla, con lo zaino su una spalla e un piede fuori dal minivan. Non so che risponderle, mi sento lusingato, ci mancherebbe!, ma allo stesso tempo sono intrappolato in un gomitolo di pensieri di circostanza, educazione, gap culturale, etc. E il risultato è un mutismo imbarazzante. What to say? Lei, da parte sua, è spazientita. Il suo atteggiamento non nasconde il disagio per l’eccessiva attesa, ma soprattutto è un disagio in cui riconosco il nervosismo fragile e universalmente proprio delle donne, beneamate creature. Sorrido. La via della seta è tracciata. “Why not?!” Le rispondo dissimulando sorpresa. “Ok, then!” mi risponde lei, estendendo il respiro. “I’ll be here tomorrow morning at 8… do not oversleep!”; “No worry, Cham, I’ll be as punctual as I have never been! Good night!”.

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