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Percorsi

“Dialoghi sull’uomo”: l’antropologia contemporanea tra viaggio, narrazione, critica

Lo scrittore e giornalista Paolo Rumiz

“Dialoghi sull’uomo”, il festival di antropologia di Pistoia giunto ormai alla quarta edizione, ha promosso quest’anno un sostanzioso menu di letture, dibattiti e riflessioni sul tema “L’Oltre e l’Altro. Il Viaggio e l’Incontro”. Nell’arco di tre giorni (24-25-26 maggio) i diversi palchi allestiti nel centro storico medievale della città toscana hanno ospitato accademici, scrittori e artisti nazionali e internazionali, da Attilio Brilli, Arjun Appadurai e Colin Thubron, a Marco Aime, Paolo Rumiz, Adriano Favole e Vinicio Capossela. Un programma talmente denso che ha costretto gli organizzatori a bissare alcuni rendez-vous e il pubblico a peregrinare tra una sede e l’altra, tra la sala affrescata del Palazzo Comunale e le poltrone del teatro Bolognini e del teatro Manzoni, in un mimetica perfomance delle stesse parole di cui andavano alla ricerca.

A parte la notevole partecipazione di pubblico, ciò che ha colpito maggiormente degli incontri proposti è, da una parte, la loro pregnante attualità, il loro parlare del mondo, di questo mondo, di come esso è oggi, nel XXI secolo, e di come il viaggio, in quanto pratica conoscitiva, continui a suscitare, oggi come millenni fa, una straordinaria fascinazione sull’uomo e intorno all’uomo; dall’altra, ogni incontro è stato capace di affrontare il tema dell’Altro, del diverso, della differenza, da una prospettiva unica, costruendosi una propria nicchia non solo di uditori, ma anche e soprattutto di riflessione critica.

Sicché il viaggio – e meglio la rappresentazione che ne è stata data di volta in volta – è riuscito davvero a trascendere le mura di ogni location e a farsi performativo, poliforme; è riuscito, ovvero, a sostanziarsi di quegli incontri culturali di cui mitologicamente si compone, a mettere in contatto l’Io del narratore-oratore e tutto ciò che è alterità – pubblico e popoli lontani, insieme. A fare questo sono stati invariabilmente (tra gli altri), gli scrittori Paolo Rumiz, Folco Quilici, Colin Thubron e le letture di Ryszard Kapuściński da parte dell’attore Giuseppe Battiston.
Rumiz ha raccontato la sua passione per il “vero viaggio”, cioè per il viaggio peripatetico, compiuto a piedi, l’unico che, consentendo un attraversamento dello spazio in comunione con la fisicità del corpo umano, permette al viaggiatore di soffrire, indagarsi e, in ultimo, conoscersi. Folco Quilici, autore e regista tra i più conosciuti in Italia quando si tratta di raccontare mondi e genti lontane, ha ricordato diversi aneddoti e storie personali sulla Polinesia, là dove si recò nel 1954, dopo ventotto giorni di navigazione; un’esperienza, dice, che appartiene ormai a un’altra epoca antropologica. Thubron ha, invece, ripercorso con l’accorta retorica del cantastorie – e non mancando di una buona dose di self-humour – il suo lungo viaggio sulla Via della Seta, dalla vecchia capitale cinese Xian alle coste turche del Mediterraneo. Un viaggio che lo ha messo in contatto con etnie, tradizioni, e tensioni politiche che, trascendendo il mondo cartografico – geopolitico – così come esso viene rappresentato sulle mappe, mostra una faccia del tutto diversa dell’Asia. Infine, l’attore Battiston ha ridato vita alle parole, allo sguardo, e all’umile disposizione verso l’Altro del grande giornalista polacco Kapuściński, i cui resoconti dall’Africa e sull’Africa, un particolare durante i decenni della decolonizzazione, sono ancora oggi una fonte inesausta di ispirazione e prova documentaria.

Folco Quilici

Dall’altro lato, il festival ha mostrato il suo volto più spiccatamente critico ospitando dibatti focalizzati in maniera più diretta sulla matrice trans-culturale del viaggio. Laddove per lo scrittore il viaggio è soprattutto narrazione, mise en roman del contatto con il diverso, per studiosi e ricercatori come Brilli, Aime, Appadurai, Favole, l’idea del viaggiare – infine de-poeticizza – ostenta il proprio ethos più politico. Il portato gnoseologico di cui il viaggio è foriero viene, dunque, indagato nelle sue deformazioni: l’incontro si fa talvolta scontro, distorsione, sopraffazione. È questo quanto sottolineato, ad esempio, da Brilli il quale ha ricordato, in apertura del festival, come storicamente il viaggio sia stato motivato da tensioni e brame ben poco innocenti. E ora che la nostra conoscenza del mondo – e la sua occupazione – è completa, satura, non possiamo che ri-inscenare il viaggio come forma soggettiva di lettura del diverso; lettura di cui il turismo è sicuramente il fenomeno odierno più eclatante. Il ricercatore indiano Appadurai – tra i padri fondatori, accademicamente parlando, degli studi sulla globalizzazione, insieme con Manuel Castells e Zygmunt Bauman – ha invece rilanciato la necessità di ripensare il rapporto tra locale e globale, tra la distribuzione dei messaggi (ovvero ciò che Appadurai chiama “circolazione delle forme”) e il modo stesso – i canali e le loro modalità di funzionamento – in cui questi messaggi vengono distribuiti (le “forme della circolazione”). È solo investigando come queste due dinamiche collaborano tra loro che è possibile comprendere meglio come il locale non sia solamente un riflesso “scalare” della globalizzazione, ma si riappropri in maniera singolare dei messaggi globali. Aime, professore di Antropologia Culturale presso l’Università di Genova e tra i collaboratori del festival, ha contribuito al dibattito discutendo quelle forme retoriche e discorsive che fanno del racconto di viaggio non solo l’ingenua narrazione di un’esperienza, ma la fucina di un vero e proprio immaginario, talvolta tendente alla miticizzazione e non scevro da re-interpretazioni egemoniche. Ecco allora che, da una prospettiva prettamente occidentale, l’Oriente giunge a rappresentare un concetto instillato di valori prettamente nostrani, piuttosto che una dimensione spaziale e temporale realmente esistente. Ed è proprio ribaltando questo assunto Orientalista e, si potrebbe dire, post-coloniale, che Adriano Favole ha condiviso durante il suo incontro le rappresentazioni che i nativi dell’Oceania, dove egli si e’ recato per ricerca, hanno prodotto nei secoli degli antropologi europei, permettendo così all’Altro di occupare la scena e subordinare alla propria immaginazione l’occidente conquistatore.

Estratto della performance di Vinicio Capossela

Da Brilli a Favole, il filone critico del festival ha dunque cercato di percorrere quell’insidioso cammino storico che dalla volontà di potenza dell’uomo bianco è giunto (e giunge sempre più, ottimisticamente parlando) a dare voce a coloro che per troppo a lungo sono rimasti in posizione “subalterna” nello scacchiere geopolitico del mondo. Ben consapevoli che, dal canto suo, la letteratura di viaggio non smetterà mai di foraggiare l’immaginario dei lettori di ogni angolo del mondo.

Infine, a chiudere il Festival è stato il cantautore Vinicio Capossela. La zona franca che egli occupa ormai da anni tra letteratura e musica, tra prosa e lirica, rappresenta la degna sintesi, il degno punto di incontro, tra narrazione e critica del Viaggio. Capossela, che ama “saccheggiare” la letteratura di matrice mitica e antropologica, ovvero degli uomini che possono “guardare in alto” da Melville a Omero, da Célinea Conrad, ha proposto un mix di racconti e canzoni la cui fascinazione risiede proprio nell’allusione allegorica che la musica è in grado di suscitare rispetto al viaggio e alla riflessione umanista che da sempre accompagna i viaggiatori di tutte le epoche e letterature.

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