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Scrittura

Diari di uno Scairanner

Diari di uno scairannerDario Pedrotti ed io non siamo amici, però ci conosciamo a causa del fatto che siamo entrambi iscritti alla medesima federazione sportiva.

Visti i rispettivi approcci e risultati, infatti, dire che pratichiamo lo stesso sport non sarebbe un’affermazione veritiera, ma sta di fatto che saltuariamente ci incrociamo in qualche località ostile – lui con l’irritante espressione estatica di un bambino davanti ad un albero di Natale assediato dai doni, io con lo sguardo dolente dell’unica che ha capito la tragicità della situazione, novella Maria Stuarda in procinto di salire al patibolo – e altrettanto saltuariamente ci parliamo, ragion per cui ho appreso che ha pubblicato, per le Edizioni 31 di Trento, Diari di uno Scairanner.
Di certo, dati il titolo e il suo sprezzo dell’ortografia, l’argomento, che ugualmente si intuisce, e l’immagine in copertina, che non lascia molti dubbi sull’attività descritta dall’autore, non sarei mai potuta venire altrimenti a conoscenza della pubblicazione di questo volume e, anche avendola appresa in qualche modo, in altre circostanze me ne sarei attentamente tenuta alla larga.

I lettori che per loro fortuna sono alieni dal mondo dell’orienteering (cui auguro con tutto il cuore di restare tali) sappiano, a questo punto, che il nostro Scairanner è già noto in tale sordido ambiente per essere, in prima istanza, l’autore di un blog inspiegabilmente seguitissimo, in cui narra le proprie gesta di lanterna in lanterna.
In pratica, quando tuo malgrado vai alle gare, se non leggi Pedrotti, sei tagliato fuori da qualsiasi conversazione che vada al di là di “visto che bel sole?”, “hai trovato traffico?”, “cosa hai messo nel tuo panino?”; ne consegue che quando il Vate della Bussola cede alle pressioni dei suoi fan e pubblica un libro, o lo leggi o puoi anche fare a meno di scendere dall’auto, tanto non avresti alcuna chance di prendere parte alle conversazioni dei presenti (e quando non è l’aspetto sportivo quello che ti interessa, quello sociale diventa irrinunciabile).

Non mi è parso, dunque, di avere molte possibilità di scampo, quando ho appreso della pubblicazione di questi Diari, così ne ho affrontato la lettura al grido di “via il dente, via il dolore” e – non lo nascondo – con la curiosità di vedere, da un lato, cosa ci sarà mai da dire su un’attività noiosa come la corsa, e, dall’altro, se il tipo è bravo come sembra, perché – diciamocelo – sono capaci (quasi) tutti a tenere vigile l’attenzione del lettore e intrattenere piacevolmente entro il migliaio di parole, un po’ meno alla portata di chiunque è lasciare una buona impressione anche dopo quasi centocinquanta pagine.
Riuscirà il nostro eroe a vincere la proverbiale idiosincrasia di Pravato verso lo sport, i neologismi (per usare un eufemismo) e, in generale, chiunque scriva libri prima di lei? Seguiamolo, in questa difficile gara, capitolo per capitolo.

Partenza svedese: l’introduzione dell’autore.
Nell’orienteering, la svedese non è, purtroppo, un’avvenente ragazza scandinava che assiste l’atleta nelle prime fasi della gara, bensì una lanterna collocata sul terreno nel punto preciso in cui, sulla carta, è stampato il triangolo rosa; si usa quando tale triangolo non appare in precisa corrispondenza del luogo in cui gli atleti prelevano la carta e, in pratica, serve a permettere all’atleta di collocarsi con precisione.
Con l’introduzione ai suoi Diari di uno Scairanner, Dario Pedrotti fornisce al lettore le coordinate fondamentali per affrontare la lettura; si colloca, in pratica, in maniera precisa all’interno del percorso di aspettativa del lettore, definendone i contorni e muovendosi subito con sicurezza al suo interno.
Oltre ad illustrare con romantica retorica le motivazioni che lo hanno spinto a pubblicare un libro sulla corsa in montagna “for beginners”, se non proprio “for dummies”, ci spiega subito perché, a causa delle sue prestazioni soddisfacenti, ma non eccellenti, non si azzarda a definirsi uno skyrunner, ma giusto solo uno scairanner.
Resto del parere che non ci fosse bisogno di assassinare l’ortografia per esprimere il concetto, ma devo riconoscere che l’espressione ha la sua efficacia, e poiché, a ben guardare, non è un lemma della nostra bella lingua quello che ha brutalizzato, cedo alla curiosità meramente sociologica di capire cosa ci trovi di così bello nello spargere sudore a vanvera e mi lascio convincere a proseguire la lettura.

Dario Pedrotti Dolomites SkyraceCapitolo uno: Dolomites Sky Race, primo tentativo.
L’atleta “entra in carta” immediatamente (miracolo!) parlando della sua prima esperienza in questa blasonata corsa in montagna, talmente blasonata che ora io, nel definirla semplicemente “corsa in montagna”, so di fare la figura della sprovveduta.
Basta questo fulminante capitolo iniziale per capire come proseguirà il libro: una cronaca di grandi e piccole imprese, alla prima persona di un entusiasta mai contento, che oscilla costantemente tra l’euforia del gran giorno e la frustrazione di un risultato sempre perfettibile, a causa propria o di forza maggiore che sia.
Certo, non è Nabokov, lo stile è molto colloquiale, però è efficace e, soprattutto, divertente, specie nelle parti in cui rivolge a se stesso la propria ironia.

Capitolo due: La lunga via per il cielo.
Noi amanti di Douglas Adams sappiamo che Arthur Dent si chiama così in riferimento all’autore del pamphlet La via per il cielo dell’uomo mite, e ci entusiasmiamo facilmente per la dotta citazione, pur temendo le insidie di un’operetta morale in salsa dolomitica.
Questo capitolo ha, in effetti, un carattere leggermente didascalico e pedagogico, ma la straziante storia di infanzia e giovinezza dell’autore, scelleratamente immolate allo sport, avvince e commuove il lettore. Poco più seriamente parlando, probabilmente è il capitolo-chiave per comprendere, volendo farlo, quali meccanismi scattano in coloro che si dedicano alla corsa in montagna, o semplicemente per accettare il fatto che esistono persone così.

Capitolo tre: Paganella uno.
Qui la prestazione entra nel vivo, e l’autore rivela la sua abilità a intrattenere il lettore anche descrivendo percorsi che richiedono l’ausilio di Google Maps per essere compresi da chi ha poca familiarità con la città del Concilio, e che non eserciterebbero grande attrattiva – letterariamente parlando – se non fossero conditi da digressioni e osservazioni sulla zona e il proprio modo di vivere la salita.
Lo stile in prima persona consente facilmente di tenere il lettore legato al filo dei propri pensieri, è innegabile, ma, come chi corre sa bene, ci vuole comunque una certa abilità a distrarre senza deconcentrare, per rendere il percorso leggero senza far perdere determinazione.

Capitolo quattro: Mezza più Mezza di Verona.
L’atleta cambia passo e rivive i chilometri piatti della mezza maratona corsa – per due anni di seguito – nella città di Romeo e Giulietta. Come altrove, i passaggi più brillanti sono quelli in cui descrive le proprie impressioni, azzarda e ridimensiona le aspettative, ironizza sulle proprie ingenuità e sul suo vivere l’evento, per certi aspetti, con lo spirito del provinciale in gita in città. Proprio perché non è la corsa a lui più congeniale, è il soggetto di narrazione ideale per apprezzarne l’ironia.

Capitolo cinque: L’Attrezzatura.
È con capitoli come questo che si possono giudicare l’esperienza e la scaltrezza di un autore.
Pedrotti, infatti, a questo punto della sua gara contro la mia noia mette a segno un colpo basso, parlando di… scarpe!
Certo, sono banali scarpe da corsa che non slancerebbero neanche Beyoncé e che difficilmente si intonerebbero alle mie – pur versatili – borsette, ma da dopo che Amazon, mentre cercavo qualcosa di Springsteen, mi ha sventolato sotto il naso un paio di New Balance dentate di uno strepitoso color ciliegia, indispensabili per gli sterrati dove con le Nimbus blu elettrico e arancione scivolerei, ho finalmente trovato un punto di contatto con l’incondivisibile mondo degli sportivi, e non nascondo che ho divorato avidamente queste pagine, sia per la brama di allargare gli orizzonti del mio shopping, sia per la confortevole sensazione di comunione con l’autore, che mai avevo avuto (né più mai avrò).

Capitolo sei: Paganella due.
La prestazione cala, a mio avviso, di tono nella narrazione del secondo approccio a questo monte, poiché a tratti indulge in descrizioni estatiche e si conclude con una riflessione sentimentaleggiante sul rapporto fra l’atleta e la sua impresa, che il lettore alieno da questi meccanismi difficilmente apprezza. D’altro canto, suppongo che il lettore che in questi meccanismi è inguaiato fino al collo vada in brodo di giuggiole.

Capitolo sette: Dolomites Sky Race, secondo tentativo.
Il nostro autore, non si sa se perché dotato di ammirevole caparbietà o di memoria tragicamente corta, ci riprova.
Sebbene l’approccio all’impresa sia più saggio, lo spirito e il tono sono quelli del campeggio delle medie, per fortuna del lettore, il cui entusiasmo sembrava destinato a raffreddarsi con la neve di quei giorni, la quale, invece, ha fatto un baffo al drappello di squinternati che hanno preso parte alla follia.
La descrizione minuziosa di condizioni atmosferiche e percorso, a dire il vero, ce la mette tutta rovinare la buona disposizione del lettore non-runner (nonrànner?), ma, a questo punto del percorso, l’autore ha gareggiato talmente bene che può permettersi di approfittare brevemente della fiducia del lettore.

Capitolo otto: L’Orienteering e Sara.
La tentazione di saltare questo capitolo è forte, perché l’ho già letto sul blog, ma proseguo poiché ricordo che fosse gradevole.
Dopo un’introduzione indispensabile per i fortunati che non hanno niente a che fare con la corsa di orientamento, ma snervante per chi la deve già subire nella vita ed è ansiosa di arrivare alla parte saliente, Pedrotti, a pagina settantacinque, dà finalmente alle stampe qualcosa di narrativo. Non più, semplicemente, la pur gradevole ed efficace descrizione delle sue vicissitudini e dei suoi sentimenti, che è narrazione in quanto espressione di una successione di eventi, bensì narrazione in senso – mi si perdoni l’iperbole – letterario, cioè un racconto con una struttura, uno stile, un ritmo e una tensione. Peccato lo interrompa in continuazione per riferire di una stupida gara di orienteering.

Capitolo nove: Stivo Bondone.
La vita dell’atleta è fatta soprattutto di allenamenti, alcuni dei quali, impariamo qui, ancora più epici delle gare. Lo stile di questo capitolo torna quello ormai familiare dei racconti delle esperienze precedenti, e non mancano digressioni e riflessioni personali a vivacizzare il discorso. È forse il capitolo meno apprezzato da chi scrive, proprio per via del suo essere, per certi versi, “già letto” e già noto, tuttavia se ne riconosce l’utilità nell’economia di un libro che racconta la vita dello skyrunner, di cui la costanza nell’allenamento è la cifra distintiva.
Una tratta a suo modo indispensabile, dunque, ma la gara di Pedrotti contro la mia noia è compromessa.

Capitolo dieci: Infortuni.
Sottotitolo di chi scrive: “più fortuna che giudizio”.
Se il capitolo precedente mi aveva fatto scuotere la testa sconsolata fino a procurarmi la nausea, qui l’istinto è quello di sbattermi la mano in faccia e lasciare che mi stropicci il viso cadendo con indolenza, come Bambino avanti alle bravate di Trinità.
Chiunque sia andato almeno una volta in vita sua al pronto soccorso a fare i raggi, però, non potrà non sghignazzare con a queste pagine. Clamoroso recupero dell’autore.

Capitolo undici: L’ultrabericus trail, l’avvicinamento.
Il lettore si aspetta, a questo punto, una nuova defaillance dell’autore, che sembra intenzionato non solo a raccontarci sessanticinque chilometri minuto per minuto, ma anche tutti quelli necessari a prepararsi per affrontarli. L’esordio del capitolo, invece, è piacevole, poiché, anche se indugia in dettagli autoreferenziali non sempre indispensabili, esprime bene il travaglio dell’appassionato che, in fondo, sa di non essere del tutto “a bolla” e cerca di opporre resistenza al suo istinto di correre su qualsiasi fondo sia leggermente più pendente della rampa dell’autolavaggio.
Certo, poi l’interesse per il dettaglio tecnico ha il sopravvento, e l’autore ci mette a parte di interrogativi esistenziali (“Quanto sarà bello trovare una discesa dopo l’ennesima salita? E quanto sarà brutto trovare una salita dopo l’ennesima discesa?”), preparativi teorici con Google Earth, allenamenti scientifici con il GPS e riflessioni di inusitata lucidità sulla sensatezza dello sforzo e i propri limiti. È un capitolo lungo e non sempre scorrevole come altre parti, ma, oltre ad essere l’unico con una scansione cronologica precisa e consequenziale come un vero diario, è quello che meglio svela il per me imperscrutabile processo che spinge certi individui a sottoporsi a certi sacrifici.

Dario Pedrotti Ultrabericus TrailCapitolo dodici: L’ultrabericus trail, la gara.
Finalmente arriva il gran giorno. Ancora un paragrafo e avrei avuto l’impressione di avere vissuto in prima persona l’allenamento, e non sarebbe stata una bella sensazione, anche se sono convinta che ci sia un’ampia fetta di pubblico di Pedrotti che, con il capitolo precedente, si è commossa.
La descrizione della giornata è prettamente cronachistica, con poco spazio per le osservazioni ironiche che avevano reso tanto scorrevole la lettura di precedenti gesta, e pare proprio che il narratore abbia perso smalto; quando sembra di poter riassumere il capitolo con “è contento – non vede l’ora di partire – parte – corre – si stanca – non vede l’ora di arrivare – arriva – è contento”, l’atleta si scalda e ha un guizzo: arricchisce il racconto con spaccati umani, storie di altri corridori e di altre motivazioni. Non è il suo terreno: lui è più un tipo da “roccia, montagne, neve, laghetti alpini e valli strette”, e l’entusiasmo che gli manca per questo paesaggio gli manca anche nel trasmettere le emozioni della giornata, ma è abbastanza esperto da sapersi muovere e venirne fuori dignitosamente.

Ultimo capitolo: Dolomites Sky Race, terzo tentativo.
I Croati dicono treča sdreča, che significa che il terzo tentativo, finalmente, è quello fortunato.
Speriamo che sia così anche per Pedrotti, perché a questo punto del libro ho la sensazione di conoscere ogni sasso del percorso. Come sempre, l’autore è più brillante nei passaggi iniziali, nei quali racconta le riflessioni della vigilia e descrive con non rari lampi di lucidità la scena di follia collettiva di cui è comprimario.
La salita è estenuante, la discesa insidiosa e l’arrivo tutt’altro che glorioso, eppure il racconto è partecipe, e la lettura non risente del ritorno sull’argomento.

Finisce qui il canto delle gesta del nostro eroe.
Il lettore pigro non è affatto convinto della bellezza di simili attività, ma si è divertito, sia perché ciò che passa per la testa a coloro che le compiono è qualcosa di davvero strampalato, sia perché il modo in cui sono raccontate è indubbiamente spassoso. Più dello stile, il cui registro è pericolosamente vicino a quello di un blog, con tutti i pro e i contro del caso, della forma colloquiale scelta si apprezza la sincerità che lascia trasparire, e si perdonano, così, anche le ingenuità che autori più consumati di questo non commettono.

Finish: Bonus Track, la torta da corsa.
Una gara di orienteering non finisce quando si raggiunge l’ultimo punto di controllo (sarebbe troppo facile), bensì quando si arriva al finish, che altro non è che un ulteriore punto, con la caratteristica di essere visibile e ben segnalato. Serve – non vedo altro scopo – a uccidere gli atleti, poiché è costume raggiungerlo correndo a perdifiato (come se fino a quel momento si fosse andati a coglier margheritine): non sia mai che si perda la gara per qualche decimo di secondo.
Così, Pedrotti lascia il lettore con un ottimo sprint finale, la ricetta di una torta di sua creazione, messa a punto per avere con sé, durante le gare o gli allenamenti più lunghi, un alimento che risponda alle esigenze nutrizionali dettate da una simile attività. A giudicare dalla ricetta, si direbbe immangiabile, ed è chiaro che solo lo stato alterato di coscienza e la fame disperata che lo sforzo porta rendono capaci di ingerire un composto simile. Concedo che magari, al palato, si riveli sorprendentemente accettabile, ma resto volentieri con il dubbio.
L’autore finisce bene la sua gara e ottiene un risultato certamente positivo, ma c’è – e non è detto che sia un male – un buon margine di miglioramento.

Diari di uno Scairanner rientra in quelle che io (molto) volgarmente chiamo lettura da toilette (ma uso un’espressione più colorita), che non significa affatto che sia una lettura di poco valore, tutt’altro: è la lettura divertente nel senso più stretto, cioè quella che conduce via dal tracciato dei propri pensieri, che intrattiene e coinvolge come una chiacchierata, che si può interrompere facilmente, ma che al contempo invita a proseguire; è simile alla lettura da spiaggia, perché non richiede un grosso sforzo di comprensione, ma è più avvincente, e per questo si gusta al meglio senza nessuno che rompe le scatole, nel rassicurante grembo delle piastrelle. Sebbene l’autore abbia ancora molta, moltissima strada da fare per meritare il paragone, la direzione intrapresa è quella che segue il Morozzi di “Dieci Cose…” e – a distanza siderale, ma pur sempre in rotta – il Benni di Bar Sport. L’unico risvolto veramente negativo dell’uscita di questo libro è che d’ora in poi, alle gare di orienteering, non si parlerà d’altro.

Dario Pedrotti

Titolo: Diari di uno Scairanner
Autore: Dario Pedrotti
Casa Editrice: Edizioni 31
Formato: 13,5 x 21
Pagine: 144
Prezzo: 12,00 €
Rilegatura: brossura
ISBN: 9788888224909

 

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