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Arte

Due fronti, una città

Immagini da una Trieste in guerra con se stessa

Due fronti, una città - locandinaIdeale proseguimento di La Grande Trieste, la mostra 14-18 due fronti, una città, attualmente allestita negli spazi del Salone degli incanti e destinata a restarvi fino al 19 giugno, narra, attraverso fotografie, tabelloni e reperti, le condizioni di Trieste durante la prima guerra mondiale.

Solo apparentemente più scarna dell’allestimento dedicato al periodo precedente, la mostra richiede quasi due ore per la visita completa e si articola su otto poli espositivi, ciascuno dedicato a un aspetto della vita quotidiana in guerra, che insieme compongono un percorso illustrativo organico e coerente.

La prima tappa dell’esposizione è una di quelle di maggiore impatto e, al tempo stesso, più gradevoli.

Reca infatti, le riproduzioni dei cartelloni dei teatri cittadini, dai quali si evince che l’attività culturale della città non si è arrestata con la sua entrata in guerra, sebbene fossero numerosi, per ovvie ragioni di esigenze economiche o propagandistiche, gli spettacoli il cui ricavato veniva destinato al sostegno delle vedove e degli orfani di guerra o per inviare aiuti ai soldati al fronte (solo all’inizio della guerra furono più di 30.000 i Triestini mobilitati, su una popolazione complessiva di meno di 250.000 abitanti).

Il percorso si fa, poi, più amaro e doloroso, poiché inizia a raccontare lo strazio di una popolazione in parte inviata a combattere e in parte attaccata dai suoi sedicenti liberatori, alle prese con il razionamento dei viveri, il diffondersi di malattie e crescenti episodi di tumulti fra i cittadini.

Fratellanza d'armiLa città è bardata per l’assedio: militari pronti a mantenere l’ordine pubblico nelle strade, coperture antiaeree sui monumenti e, sui muri, colorati, attraenti plakat che esortano a sottoscrivere prestiti di guerra, mentre altri proclamano la requisizione (rimborsata) dei cani per scopi bellici.

C’è lo stralcio di un tema di una ragazzina, che, nell’italiano sciatto e frammentato della Trieste popolare, racconta per sentito dire dai suoi compagni di classe i disordini e gli episodi di violenza accaduti in città pochi giorni prima, e che conclude che le aggressioni ai simboli dell’italianità di Trieste sono state giuste, poiché era stata l’Italia a dichiarare guerra all’Austria. E c’è la lettera di una madre che supplica il Magistrato Civico di disporre una lapide per la figlia, morta quindicenne in città.

Alcuni pannelli informativi, a metà del percorso, espongono le cifre del conflitto. L’impatto è spaventoso.

Accanto alle sofferenze per le perdite dell’esercito austriaco, fatto di ragazzi provenienti da tutto l’impero, le infografiche fanno immaginare le sofferenze dei civili Italiani che all’epoca vivevano a Trieste, i cosiddetti “regnicoli”, reimpatriati o internati.

I poli espositivi finali, quelli collocati nella parte più a sud dell’edificio, sono incentrati sulla condizione dei soldati al fronte.

Come ci si preserva dal colera?I Triestini combattono da entrambe le parti, come sudditi degli Asburgo o come irredentisti disertori arruolatisi nell’esercito italiano.
L’anima dilaniata di Trieste che assiste al fratricidio dei suoi figli permea tutta la mostra, anche a livello materiale; parte fondamentale dell’allestimento, infatti, sono le gigantesche scritte che si fronteggiano dalle pareti opposte dell’ex Pescheria.
Dal lato del mare, le parole di Antonio Pertot, soldato triestino del 97° reggimento di fanteria dell’esercito austro-ungarico:

Ieri abbiamo avuto un combattimento e per grazia di Dio sono rimasto illeso.

Dal lato della città, quelle di un altro triestino, Roberto Liebmann Modiano, volontario nell’esercito italiano caduto in guerra:

Dopo ben 40 giorni di trincea ritorneremo nel mondo. Qui si crepa al biondo dio[1].

Il polo espositivo più inquietante, forse, è quello dedicato all’artigianato da trincea: manufatti di sorprendente grazia realizzati dai soldati al fronte recuperando bossoli, schegge, baionette e altri residuati, e trasformandoli in oggetti di uso comune, come tagliacarte, servizi per il fumo o semplici soprammobili. Sono decorati con minuziose incisioni, che raffigurano ora l’imperatore, ora una veduta del luogo in cui si è stati mandati a combattere. Molti di essi riportano anche l’incisione “Ricordo di guerra”, come se fosse qualcosa che si corre il rischio di dimenticare, come se fosse un’esperienza felice alla quale giova tornare con la mente.
Dappertutto questo genere di oggetti erano molto comuni: la guerra era diventata la normalità.

Due fronti, una città - un'immagine

L’esposizione, che si chiude con l’arcinota citazione delle ultime righe de La Coscienza di Zeno, in cui Svevo sembra presagire il degenerare della corsa agli armamenti, riesce nell’intento di restituire il sentimento di incertezza della città, contesa e divisa, immobilizzata dall’incapacità di decidere non tanto da che parte stare, ma chi abbia ragione ad accampare diritti su di essa.

La mostra è composta da una selezione di materiali di cui i musei e le collezioni cittadine abbondano, ma verso cui l’interesse del pubblico è insufficiente. Essa ha il pregio di rendere nota la ricchezza di reperti e di informazioni su cui la città può contare, con l’auspicio che faccia da volano per una valorizzazione più approfondita e sistematica di questo patrimonio.

Note

1 “A biondo dio” (o, evidentemente, “al biondo dio”) è un’espressione comune del dialetto triestino che ha il significato di “a iosa”, “molto abbondantemente”, tuttora frequente nella parlata locale, spesso anche in discorsi in lingua italiana.
L’immagine di sommario, la locandina della mostra e la fotografia dei marinai sono tratte dalla cartella stampa dell’esposizione.
Le fotografie dei manifesti sono state scattate da Lorenza Pravato.

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