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Cinema

La relazione pericolosa. Orfeo e la decima Musa

Orphée - Jean CocteauOrfeo che, melodioso il canto, ammansiva le fiere, struggeva gli animi, rivaleggiava con le sirene e smuoveva i massi… Il figlio di Calliope, l’antesignano di tutti i poeti. E lo sposo della ninfa Euridice, per amor della quale scese laggiù, da dove i viventi dovrebbero tenersi alla larga, inorriditi. Tornatone solo e inconsolabile, fu sopraffatto dalla furia di Menadi gelose.

Talmente ricco di sfaccettature è il mito del cantore di Tracia che la civiltà cristiana non ha potuto astenersi dall’osservarlo e riconoscervi qualcosa di sé, qualcosa di appartenente all’ordine dell’umano in barba alle restrizioni cronologiche o geografiche. Nella sua arcaica saporosità, nei suoi densi agglomerati di senso, il racconto (o, meglio, i racconti, data la pluralità delle fonti) ancora ci parla delle proprietà psicagogiche della musica e della poesia, dell’impassibilità di una natura sorda alla sofferenza dell’individuo, della spavalderia con cui l’amore oltrepassa l’assenza dell’oggetto per tendere a un’eternità ignara di rassegnazione, in aperta sfida agli ordinamenti cosmici. Benché la facoltà gli sia concessa “dall’alto”, Orfeo, dopo tutto, affronta decreti divini, provvedimenti fatali e leggi metafisiche quando si cala negli Inferi per recuperare Euridice, spedita all’aldilà dal morso letale di una serpe. “Al destino Orfeo fece violenza/ mostrando agli uomini, che non sono più, come fuggire la morte” denunciava Alceo. E deplorava: “Insensato! Neppure un capello cade contro il destino di Zeus!”
Non a caso, una tradizione minoritaria vuole Orfeo non sbranato dalle Baccanti, ma incenerito da una folgore di Zeus. E forse andrebbe anche ricordato che i posteri attribuiranno proprio a Orfeo l’introduzione, nell’organismo culturale greco, della fede nell’indeperibilità dell’anima e nella metempsicosi, che indurrà i mortali a una concezione rinnovata del proprio ruolo nel mondo.

Eppure Orfeo, l’impavido, l’innamorato disposto a tutto, all’ultimo, vuoi per nostalgia, vuoi per il timore di essere stato ingannato, contravverrà all’accordo pattuito con Ade di non voltarsi a guardare Euridice durante la risalita dall’ipogeo. E, notoriamente, girandosi, la perderà. Il mito, quindi, non indicizza soltanto un caso archetipico di ribellione alla natura e agli dèi, ma diagnostica, con precisione, la debolezza e la fallibilità di ogni essere finito, anche del più audace.

Se non c’è da meravigliarsi che le arti figurative, la letteratura, il pensiero si siano abbeverati alla sorgente orfica con sete atavica, non stupisce neanche, nel Secolo breve, l’approdo di Orfeo al cinema. A tal proposito, due considerazioni si prestano a essere formulate. Innumerevoli sono stati i reimpieghi del racconto sul grande schermo, eppure, nella maggior parte dei casi, ciò è avvenuto con la mediazione del teatro, musicale o di prosa, come se il cinema, nell’accostare un canterano culturale così colmo d’anni e implicazioni, avesse avvertito la necessità di appoggiarsi a un’arte più antica (e più nobile?). Dall’altro lato, non si può non constatare la sollecita, inventiva, dissacrante attività di attualizzazione compiuta da sceneggiatori e registi. E ciò non fa che sancire il trionfo del mito, che ha perforato le pareti del tempo per abitare il nostro presente. E con esso ogni epoca.

Affermare che Orphée di Jean Cocteau, pellicola del 1950, sia l’adattamento dell’omonima tragedia in un atto e un intervallo del 1926 sarebbe rendere falsa testimonianza. Perché, nonostante le affinità, così palesi sono le divergenze tra la pièce di cui lo stesso Cocteau era stato autore e la motion picture che la seconda non può che professarsi figlia di una libera ispirazione, come se l’artista avesse principiato a teatro un cammino poi completato al cinema. Erano, i Venti, gli anni del rappel à l’ordre, in cui, in polemica con le avanguardie, Cocteau riscopriva il classico lavorando, ad esempio, anche sulle figure di Antigone ed Edipo. Orfeo meritò l’elezione, in odore di autobiografia, a poeta per antonomasia e va ricordato che la nozione di poesia di Cocteau, ingegno esondante, è molto più aderente a ciò che i Greci intendevano con pòiesis che a ciò che noi intendiamo con poesia. È la creazione, il puerperio della fantasia. E, prima ancora, una postura mentale. “Ecco il ruolo della poesia”, si legge nel Segreto professionale, “Toglie il velo, nel vero senso della parola. Mostra nude, sotto una luce che scuote il torpore, le cose sorprendenti che ci circondano e che i nostri sensi registravano meccanicamente”. E ancora: “Mettete in piazza un luogo comune, pulitelo, strofinatelo, fatelo scintillare in modo che colpisca con la sua giovinezza e con la stessa freschezza, la stessa forza che aveva all’origine, farete opera da poeta”. Per Cocteau, il poeta è un pendolare tra la banalità dell’empirico, frequentata da certezze assodate, e un oltremondo in cui l’abituale, lo scontato vengono confutati e sovvertiti. Chi meglio di Orfeo, dunque?

Con lo stesso estro con cui Dmitrij Šostakovič alternava, nel concerto n. 1 per violino e orchestra, movimenti notturni e lugubri ad altri burleschi e smargiassi, Cocteau compone un film ciclotimico e stravagante, ancor oggi mirabile, inanellando momenti tristi e funerei e segmenti faceti e ironici. Se, nella tragedia, Orphée era così influenzato dagli oracoli in codice di una testa di cavallo parlante da trascurare gli affetti familiari, nel 1950, quando a interpretarlo è l’inclito Jean Marais, l’attore-feticcio di Cocteau, è un venerato maestro che risente, tuttavia, della concorrenza di un giovane verseggiatore, tale Cégeste (Edouard Dermithe), osannato dagli ammiratori alla stregua di una pop star, come ben illustra la sequenza introduttiva, ambientata in un caffè bohémien novecentesco. Di ciò Orfeo, solipsista e vanitoso, si preoccupa. E, preso da sé, trascura la moglie Euridice (la solare Marie Déa).

I poeti sono creature strane, vulnerabili e contraddittorie. Cégeste appare come l’incarnazione della brama di vivere, eppure, intorno a lui, ronza la Morte, da tutti considerata la sua mecenate. E costei non tarderà a posare gli occhi su Orfeo. Avversario di un certo maledettismo di foggia baudeleriana, Cocteau, tuttavia, non nega alla psiche del poeta quell’alito di cupio dissolvi che ne espande le potenzialità. D’altro canto, come già detto, il poeta, ineluttabilmente proteso a un altrove, è colui che trascende il consueto. E se la Morte verrà attratta da Orfeo, anche lui risentirà del fascino di lei. Perché, va chiarito, in Cocteau, la Morte, lungi dalla raccapricciante iconografia che delizierà i bergmaniani, è donna. Temperamentale, imprevedibile, e assai seducente. Tanto che, in Orphée, a impersonarla è la sensuale María Casares. Bruna quanto Euridice è bionda, austera come si conviene a chi eserciti una simile potestà, viaggia con un servizievole factotum al seguito, Heurtebise (l’impagabile François Périer), sorretta da una volontà ferrea. Eppure…

Orfeo scompagina per vocazione i luoghi comuni e la storia lo dimostrerà. È con il malcelato fine di attirare Marais che Casares rapisce Déa conducendola agli Inferi attraverso lo specchio, che già nel dramma, e poi in Le sang d’un poète (1932), rappresentava l’adito al reame dei defunti. Orfeo, che si è accorto del valore di Euridice solo dopo averla perduta, si appropinqua nell’oltretomba che una felice soluzione scenografica dipinge come una desolata e grigia periferia urbana. Qui dovrà affrontare una commissione che gli concede di sottrarre la consorte al sonno eterno purché mai più lui tenti di guardarla. Un diktat più perentorio di quello di Ade. Orfeo accetta e riesce a resuscitare la compagna, ma il viaggio gli è servito anche a fare i conti con la sua attrazione, ormai innegabile, per la sovrana dell’aldilà. Il poeta e la moglie tornano a casa e le posizioni a cui lui si costringe, non senza cedimenti nervosi, per escludere lei dal suo campo visivo danno luogo ad alcuni siparietti umoristici. Ad aiutare i coniugi, il rassicurante Heurtebise che, come nella pièce, dove, invece, era un vetraio magico, ha instaurato, con Euridice, un rapporto di forte complicità. Ma mentre il terzetto siede nell’automobile parcheggiata in garage, un infido specchietto retrovisore (ancora lo specchio!) riflette, davanti agli occhi di Orfeo, l’immagine di Euridice. E la donna svanisce.

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Ma non finiva forse vittima delle Menadi, Orfeo, nel mito? In Cocteau, invece, lo sarà di quei moderni invasati degli adepti di Cégeste, perito già da un pezzo, del cui decesso, loro, a torto, ritengono responsabile Orfeo. Ma forse un poeta non può trapassare così, come un uomo comune. Qualcosa di lui permarrà tra i vivi. Voleva suggerire questo, Cocteau, stabilendo, nel finale, che una Morte innamorata rinuncia alle proprie prerogative, sottoponendosi anche al giudizio inclemente dei magistrati inferi, per restituire a Orfeo la vita? E permettergli di riattraversare lo specchio, a ritroso, insieme alla “rivale” Euridice?

Il poeta è nato per attraversare gli specchi, le frontiere, la realtà, i sogni. Il mito di Orfeo serve a Cocteau per asserire questo. Il poeta fluttua nelle immensità spazio-temporali come un’anima raminga, anche quando, nel 1960, abbandonate ogni “precauzione” e maschera, i suoi panni saranno vestiti dallo stesso Cocteau, come avviene nel Testamento di Orfeo (Le testament d’Orphée, ou ne me demandez pas porquoi!), ultimo, strabiliante film del regista. È qui che il Poeta si sentirà rivolgere due accuse dagli stessi Casares e Périer di Orfeo: egli sarebbe colpevole d’innocenza (!) e di essersi sempre intrufolato in mondi che non erano il suo. Per l’appunto. Tra l’altro, coloro che avevano creduto ottimistico l’epilogo di Orfeo, debbono ricredersi: per bocca di Périer si apprende che a nulla valse il sacrificio della Morte. E che, poco dopo essere riaffiorati alla vita, Euridice e Orfeo sono stati obbligati all’ennesima, estenuante migrazione. La definitiva. Come aveva imposto quella natura contro cui pugnano i poeti, ma alla quale anche loro finiscono, nolenti, per rimettersi.

Le automobili si riveleranno esiziali anche in Parking (1985) di Jacques Demy, e non a caso: l’omaggio di Demy a Cocteau, uno dei suoi numi tutelari, è dichiarato fin dalla dedica e ribadito dalla presenza sorniona di Marais nel ruolo di un eccentrico Ade di rosso e nero vestito. Parking è, forse, una delle escrescenze audiovisive del mito in cui la malia incantatoria dell’arte di Orfeo viene più ostentata. Demy trasforma infatti la cetra dell’aedo in una prorompente chitarra elettrica e chi la suona in un pop singer dal volto piacente di Francis Huster (ma Demy avrebbe voluto David Bowie), osannato da un pubblico su cui la regia non risparmia totali e carrelli a misurarne il rapimento estatico. Alla maniera di Yoko Ono, Euridice ha tratti orientali. Nella casa che condivide con Orfeo, scolpisce e, disgraziatamente, si droga. Sarà proprio una dose omicida a determinare il decesso della ragazza. E a deportarla in un Tartaro metropolitano situato nei sotterranei di un parcheggio (e organizzato con indefettibile efficienza). Solito compromesso: Orfeo dovrà privarsi del piacere scopico della moglie se intende salvarla. Ma ecco che, mentre i due fuoriescono attraverso una galleria trafficata, una vettura sbanda cagionando, in Orfeo, una reazione inconsulta. Un’occhiata imprevista catapulta lei tra i morti e lui in un inguaribile sconforto. In una società di forte esposizione mediatica, l’ammirazione della platea fa presto a sconfinare nell’entusiasmo orgiastico. Assalito il palco dell’ultimo concerto come tante sacerdotesse di Dioniso, i fan massacreranno il loro idolo con impetuoso trasporto.

Un balzo indietro è necessario a inventariare un altro celebre caso di ricorso alla tradizione orfica che, tuttavia, colpisce (e delude) soprattutto per l’impiego pretestuoso e superficiale del modello. Tratto da un lavoro teatrale dell’eclettico musicista Vinicius De Moraes e diretto da Marcel Camus, Orfeo negro (Orfeu negro, 1959) è una sgargiante co-produzione transatlantica che, fascino dell’esotico, si aggiudicò la Palma d’oro a Cannes e l’Oscar come miglior titolo straniero. Euridice è, stavolta, una campagnola virginale che, nelle favelas di una Rio de Janeiro assorbita dai preparativi del Carnevale, trova rifugio da un uomo che la perseguita e anche l’amore. Di Orfeo, naturalmente, povero ma bello, musicante di strada e rubacuori al punto che il fidanzamento con Euridice scatena un temporale di gelosie. Proprio in una sera di festeggiamenti in maschera, il ribaldo che minaccia Euridice irrompe travestito da morte, nero e spaventevole, aggiornamento macabro del pastore Aristeo che, tallonando l’Euridice originale, ne cagionava, indirettamente, la fine.

Eppure, lascivia della sorte, non sarà lui, ora, a uccidere la giovane, ma, involontariamente, Orfeo. Accorso al magazzino dismesso dove lei è fuggita nel tentativo di sottrarsi all’aguzzino, Orfeo, ripristinando l’alimentazione elettrica, folgora Euridice, appesa a un filo. E quando, disperato, tornerà a casa con il cadavere in braccio, una delle popolane, accecata dalla gelosia, gli scaglierà contro un sasso, provocando la caduta di lui da una delle alture di Rio.

Orfeu NegroSe il diritto di ogni artista di elaborare archetipi e precedenti secondo i canoni della propria sensibilità è sacrosanto, appare, tuttavia, piuttosto evidente il depotenziamento del mito attuato da Orfeo negro, il cui obiettivo fondamentale sembra quello di agganciare a un riferimento condiviso e autorevole l’ennesima riproposizione del connubio èros-thànatos, condita, per giunta, da folklore a buon mercato, tra tinte carnascialesche, bambini affamati ma felici, baraccopoli pseudorealistiche, romanticismo e tresche da bassifondi.

Il debito contratto dal teatro musicale degli ultimi secoli con la fabula del poeta e della ninfa è, d’altronde, cospicuo: il melodramma nasce, in fondo, sotto il loro segno, se adottiamo come data paradigmatica quel 1600 in cui fu allestito Euridice di Peri e Rinuccini, uno dei primi esempi del genere in questione. E, nel 1970, arrivò anche l’opera pop, quando, cioè, al Sistina debuttava, con il sostegno di Garinei e Giovannini, Orfeo 9. Firmata dal compositore Tito Schipa Jr., essa tramutava Orfeo, interpretato dall’autore medesimo, in un hippie che, da buon figlio dei fiori, soggiorna in una comune fuori porta, in francescana armonia con la natura, e, secondo una liturgia non convenzionale, si unisce alla diletta Euridice. Nel 1973, Orfeo 9 diventa, per la regia dello stesso Schipa, che continuerà a prestare volto e voce al protagonista, un lungometraggio finanziato e poi censurato dalla Rai, girato, in economia, con spirito metacinematografico, dato che la sala di registrazione fa da sfondo a prologo ed epilogo. Se il cast teatrale era composto, in larga parte, da performer non professionisti, nel film Schipa si avvale di attori navigati, come Edoardo Nevola, e cantanti con un futuro. Una dei narratori è Loredana Bertè. Il Venditore di illusioni, personaggio viscido e pittoresco che potrebbe essere sbucato da un quadro di Salvador Dalì, è un lisergico Renato Zero. È proprio lui a sradicare Euridice (Eva Axén, futura sposa di Schipa) dai suoi affetti, spacciandole il miraggio di una vita migliore. Personalità luciferina e sfuggente, imbonitore di razza, costui allegorizza la gamma multipla delle lusinghe e delle devianze a cui la coscienza e la volontà umane sono soggette, non ultima gli stupefacenti, da cui Euridice viene irretita. Nel libretto di Schipa introspezione, ecologia e riflessione sociale accompagnano il viaggio infernale di un Orfeo contemporaneo che, per scovare l’amata, dovrà abbandonare l’idillio bucolico per inoltrarsi nell’alienazione e nella sporcizia cittadine, una dimensione disumana e robotizzante ricostruita, nel film, con trovate che ricordano, a tratti, Metropolis di Fritz Lang. Insomma, l’itinerario percorso dal giovane non è dissimile da quello affrontato, pochi anni prima, dai molti che, inseguendo le insegne del Miracolo economico e del Boom, si erano riversati nei sobborghi industriali, recidendo legami ancestrali e, forse, smarrendo un po’ se stessi. Il Venditore, che Orfeo incontrerà nuovamente, s’incorpora nella città come un parassita, pronto a suggere la disillusione altrui. La droga è, in fondo, la disperata via di fuga a un’esistenza invivibile.

Dal canto suo, Orfeo, accecato dalla propria ossessione, non si è accorto che la ricerca, ormai, prosegue rescissa dal proprio oggetto; e quando incontra Euridice, non si avvede nemmeno che lei è lì, al suo fianco. Viene da domandarsi, a questo punto, se riuscirà, Orfeo, a emergere dagli inferi. Interrogativo spinoso. Come l’intera opera, anche il finale non manca di ermetismo: lo spettatore lascia Orfeo a combattere con il Venditore, che vorrebbe ridurlo in schiavitù, per difendere autonomia e dignità dall’omologazione. La spunterà? La canzone di chiusura, Eccoti alla fine, non è molto consolatoria. “E hai sparso sul sentiero le tue note/ come nella favola./ Ma il sentiero non ritorna indietro,/ adesso chi le coglierà?”. L’ostinazione dell’uomo e la sua impotenza. Del mito Schipa ha toccato gli estremi e, tra gli estremi, ne ha racchiuso l’essenza, come la lisca di un corpo natante nel fiume dei secoli.

La messe di cortometraggi che, ciascuno a suo modo, si sono lasciati tentare da Orfeo, meriterebbe una trattazione a parte, data la quantità. Certo, alcuni destano più curiosità d’altri, ed è il caso, visto il “responsabile”, di Orpheus (2015). Bret Easton Ellis ha, infatti, scritto e diretto questa variazione ambientata nella California glam dei nostri giorni. Orfeo è un musicista in crisi che, nell’attraversare una metropoli cupa e fumosa, rievoca la travagliata convivenza, scandita da litigi e molto alcol scolato, con Euridice, la donna di cui è ancora innamorato, una cantante finita ora tra le grinfie del suo produttore discografico, possessivo, bieco e, forse, violento. D’altro canto, le nevrosi e l’abiezione occultate dalla guaina del prestigio socio-economico sono pane per i denti dell’autore di American psycho. Un mito millenario è divenuto un sostanzioso companatico. È proprio per andare a riprendere Euridice nell’algida villa del milionario, denominato, nei titoli di coda, Devil (sic), che Orpheus sta percorrendo la città. Quando la strapperà a una noiosa cena in piscina, si renderà conto che lei lo ama ancora, ed è disposta a seguirlo, a ricominciare. Ma non fa in tempo, Orfeo, ad arrivare alla porta che l’altro ha già inteso cosa stia avvenendo e sopraggiunge a dissuadere Euridice. Quando Orfeo si volta, la vede abbracciata all’antagonista. E capisce di averla perduta definitivamente. Con la lucidità rassegnata degli sconfitti. Con, sulla groppa, la saggezza dei molti Orfeo che lo hanno preceduto.

Orpheus

Filmografia orfica parziale

1950  Orfeo (Orphée, J. Cocteau)
1959  Orfeo negro (Orfeu negro, M. Camus)
1960  Il testamento di Orfeo (Le testament d’Orphée, ou ne me demandez pas porquoi!, J. Cocteau)
1973  Orfeo 9 (T. Schipa Jr.)
1985  Parking (J. Demy)
2015  Orpheus (B. E. Ellis)

Crediti fotografici

La locandina di Orphée è tratta da senscritique.com
Il fotogramma de Il testamento di Orfeo è tratto da jeancocteaucinema.wordpress.com
La locandina di Orfeo Negro è tratta da cinetecauniversal.blogspot.it
Il fotogramma di Orpheus è tratto da thedevilyouknow.tv
L’immagine di sommario è un fotogramma di Parking, tratto da www.cine-tamaris.fr

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